31 | Sotto pressione

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

CAPITOLO 31
Sotto pressione

La lezione termina e io mi rifugio nel parcheggio. Ho incontrato Kim e la sua ragazza, le ho liquidate con "Ho da fare" e mi sono allontanata. Oggi non è affatto una giornata da spendere in chiacchiere, qualche battuta divertente o una risata, e se qualcuno osa ridermi davanti giuro che gli spacco la faccia.

Salgo in sella alla moto e tiro fuori dalla borsa la busta con la lettera. La guardo a lungo, sospiro e la rimetto dentro sfrecciando via, dando gas finché non prende fuoco il cazzo di asfalto dietro di me.

Sono passati esattamente due giorni. Benedict non mi ha ancora contattata, forse manderà uno dei suoi galoppini per rifilarmi l'indirizzo dove si trova Nicholas, o forse con i suoi stivaletti di merda attraverserà la porta di casa mia questa volta, si siederà al tavolo e chiederà un altro bicchiere d'acqua. È plausibile. A quel uomo non frega niente di nessuno e qualcosa mi dice che questa cosa la vuole tenere solo fra me e lui, altrimenti avrebbe mandato qualcuno che lavora per lui sin dall'inizio. Chissà che cazzo contiene quella cassetta portavalori in Svizzera.
Deve essere qualcosa di fottutamente grosso se suo padre, prima di morire, non gli ha concesso la possibilità di accedervi, ma ha lasciato la chiave a Nick.

Aveva detto di tenermi d'occhio da settimane. Ripenso inevitabilmente al tizio appoggiato al palo della luce.

Era uno dei suoi uomini?

Se così fosse, beh... chiunque quel tipo sia fa veramente schifo nel suo lavoro. Non solo si è messo lì come un idiota a fissarmi ma mi ha anche salutata come se fossimo amici per la pelle ed è finito col prendersi una cotta per me.

Sono veramente stanca di tutte le puttanate che mi capitano. Vorrei un pulsante da usare per fermare il tempo e... non so nemmeno io per cosa, forse per introdurmi nella casa di Benedict O'Brien e colpirlo alle palle senza che se ne accorga e si incazzi per poi darmi in pasto alla polizia.
Mi sento come un topo in trappola e a forza di tirare la coda per liberarmi finirò col strapparmela via e morire dissanguata.

Amo Nicholas e nonostante il motivo per cui andrò in Australia sia per mettere in salvo me stessa, vorrei baciarlo e poi tirargli un pugno diritto in quella sua bellissima faccia del cazzo. Dirgli "Nick, ti avevo detto di venire da me quando stai male, e tu che fai invece? Voli in un altro continente."

Non me ne frega niente del contenuto della sua lettera. Il "Bla bla bla, innamorati di qualcun altro, succederà". No, non succederà affatto. Non ne ne fotte più un cazzo di trovare l'amore, non mi è mai importato in fin dei conti, le mie esperienze amorose mi hanno solo messo alla prova i nervi, ma non ripeterò tutto il processo daccapo, non ne ho la voglia, la pazienza e non voglio nessun altro. Voglio lui e se vuole mollarmi allora dovrà farlo davanti a me, a quattr'occhi, dovrà avere le palle per dirmelo in faccia quel pezzo di merda.
Me lo merito. In fondo l'ho aspettato per sei lunghissimi mesi. Sono una assassina, è vero, ho ucciso una persona, ma mi merito uno stramaledetto "Ti lascio" a voce e non in una lettera come se fossimo nell'ottocento e io una donzella imbecille chiusa tra le pareti della sua enorme Reggia sul pisello.

Intanto in attesa di una qualche notizia da Benedict, continuo la mia vita senza fare alcun strappo alla mia routine. Studio, mangio e vado a lavoro con un Ethan che mi manda spesso occhiate di nascosto nemmeno fossi in procinto di fare una strage.
Sa che sono stressata, si legge chiaramente nei miei occhi rossi e stanchi. Dormo veramente male e al tutto si sommano anche i miei incubi, dove c'è un solo volto a perseguitarmi ed è quello di Marianne, la stessa che avevo archiviato in un buia parte del mio cervello. Con Benedict lei è tornata in superficie e mi fa visita solo quando finalmente riesco a chiudere occhio.

Non provo sensi di colpa, ma la mia coscienza sembra di un'opinione ben diversa e mi fa vivere e rivivere all'infinito quel momento vicino il campo di girasoli.
Io in piedi, Marianne a terra. E il sangue è ovunque, ma non come nei miei ricordi. Ce n'è tanto, cade dal cielo, piove rosso e tinge le mie mani, il mio viso e i girasoli. I miei piedi vengono sommersi dal sangue, ci si bloccano dentro e io non riesco a muovermi. Mi trovo come nelle sabbie mobili mentre sotto il mio sguardo Marianne viene risucchiata lentamente sotto lo strato denso e liquido.
Poi una mano sbuca, mi afferra per la gamba e si trascina fuori appendendosi a me per scappare dalla morte.

Non dormo. Ogni volta che lo faccio Marianne torna, e i caffè che mi bevo non sembrano funzionare per niente. Nemmeno le sigarette. Ho raggiunto la soglia di due pacchetti a giornata, li svuoto come se fossero mentine.

Col passo lento, mi addentro nel negozio aperto ventiquattrore. Ho bisogno di una Redbull, un altro pacchetto di sigarette e forse una barretta di cioccolato.
Mi muovo tra gli scaffali col cappuccio tirato, sotto le luci dei led bianchi e azzurri del reparto surgelati. Saranno le otto di sera, oggi è domenica e stare da Ethan non mi va proprio. Mi guarderebbe con quel suo modo di fare da Sherlock Holmes cercando di decifrare i pensieri che mi frullano per la testa.

Ieri al Pink Ocean mi ha esplicitamente dato della depressa con istinti suicidi per via dell'episodio successo tempo fa nella notte di Natale. Non gli ho detto niente a proposito di Benedict e lui pensa che io stia attraversando un crollo emotivo perché convinta che Nick sia morto. Non gli ho detto nemmeno della lettera. Lo voglio tenere per me. Ma Ethan sotto sotto è dell'opinione che io possa perdere tutto d'improvviso il controllo, ubriacarmi e poi ammazzarmi per davvero. Cazzo, no.
Nicholas è vivo, al diavolo il suicidio. E poi se mi tagliassi le vene finirei per davvero all'inferno, è lì che dovrei stare.

Sospiro, prendo una lattina di Redbull dal frizzer e mi dirigo verso la cassa cercando di reprimere la voglia di rispondere male al cassiere biondo che mi odia nonostante nell'ultima vigilia di Natale è stato carino e mi ha fatto prendere quella bottiglia di vino senza che dovessi fargli vedere la carta d'identità. Bottiglia che non ho aperto perché sono andata nell'appartamento di Nicholas e gli ho detto "Va bene, vai in quel cazzo di Iraq ma poi torna da me".
Porca la puttana, avrei dovuto scolarmi quella fottuta bottiglia e basta. Niente compromessi del cavolo, niente amore e niente promesse silenziose.

Nicholas è andato, non è più tornato, io lo amo e lo detesto allo stesso tempo, e ora suo padre mi sta col fiato suo collo come se avessi un fucile piantato dietro alle spalle e lui potesse farmi fuori quando più gli verrà voglia di premere il grilletto, nel frattempo però mi farà annegare nel sentimento di ansia e impotenza.

Sono vicina allo scaffale dei cereali quando la porta d'ingresso si spalanca. Il rumore della infrastruttura che andrebbe rinnovata, cigola fastidiosamente. Un ragazzo entra nel negozio, il cappuccio tirato, le mani nelle tasche della felpa verde scuro. Avanza come alla ricerca di qualcosa e poi si ferma davanti la cassa ancora prima di comprare qualcosa. Magari starà cercando un particolare prodotto e sta andando di fretta e...
Succede talmente di fretta che rimango perplessa.
La pistola è nella sua mano, sta gridando al cassiere di dargli tutti i soldi in cassa altrimenti gli fa saltare il cervello e quello, poveretto, è bianco come un lenzuolo.
Le mani gli tremano mentre apre la cassa e il tizio gli sventola davanti alla faccia la sua pistola intimandogli di darsi una mossa.

Con tra le mani la lattina e la barretta di cioccolato fisso tutto da almeno cinque metri di distanza. Cazzo, questa è una città di matti. Forse dovrei effettivamente traslocare, ma solo dopo aver portato a termine la richiesta di quel pazzo di Benedict O'Brien. Kieran deve aver ereditato da lui quel suo atteggiamento da Dio onnipotente, solo che Kieran ha i soldi, ma non il cervello. Benedict, per mia sfortuna, ha entrambi.

Attendendo che questa cavolo si rapina finisca, mi poggio di spalla allo scaffale dei cereali, ficco tra i denti la plastica della barretta di cioccolato e stappo la Redbull. Mi serve bere questo energizzante subito. Sono stanca morta, ma non posso permettermi di dormire, quindi stanotte starò sveglia come una civetta e conterò le pecore immaginarie, scommettendo su quanto tempo ci impiegherà... quel tizio con la pistola a ficcarmi una pallottola diritto in faccia.

Mi sta guardando.
Lui e la sua Beretta 92 calibro 9. Il cassiere biondo si è fermato allo stesso modo, mi fissa e quando mi riconosce e ricorda che non sono ancora andata via, rimane spiazzato.
Il ragazzo con la pistola, invece, mi lancia un'occhiata accigliata come se avesse appena visto sua madre ballare il Cha Cha Cha con uno spogliarellista travestito da Elvis Presley.

Alzo la Redbull in sua direzione a mo' di saluto.
«Che cazzo stai lì?! A terra, cazzo! A terra! Ora! A terra!» sbraita agitando la pistola incazzato nero dando occhiate di sfuggita al cassiere.
Inevitabilmente do uno sguardo in basso e glielo indico con un indice.
«Sì, brutta stronza! Ho una cazzo di pistola! A terra ora!»

Faccio una smorfia.
«È sporco» rispondo semplicemente.

Lui spalanca i suoi occhi marroni nascosti poco e male dal cappuccio mentre una bandana blu gli copre il resto del viso.
«Che?!» strilla come se avesse sbattuto il mignolo del piede contro qualcosa. «A terra o ti ammazzo!»

In tutta risposta bevo un sorso dalla lattina, strappo la confezione della barretta di cioccolato e mi infilo un pezzo in bocca masticando. Sì, Dio... mi ci voleva qualcosa di dolce per dimenticare la fottuta amarezza in cui sto navigando da mesi come un cazzo di transatlantico. Spero non come il Titanic, che quello si è spaccato in due ed è affondato.

La musica bassa che riempie il negozio cambia e le note di Crazy di Gnarls Barkley si disperde nello spazio chiuso.
Muovo la testa a ritmo dei versi.
«Adoro questa canzone» confesso indicando la cassa da cui sbuca la musica, attaccata alla parete della porta d'ingresso.

Ficco un altro quadrato di cioccolato in bocca. «Mio zio ci faceva i collage sui nastri... Hai presente gli walkman? Ne avevo uno» sorrido con aria fiera.

Lui aggrotta la fronte confuso. Caccia poi tutto d'un tratto una risatina isterica e dà un'occhiata alle sue spalle. Il cassiere è fermo con le mani ancora alzate all'aria nonostante non abbia la pistola puntata contro, no, quella è rivolta su di me che il suo proprietario sventola con quelle mosse acrobatiche viste nei film gangster.
«Io ti ammazzo se non ti metti sul pavimento! Hai capito o sei stupida?! A terra, cazzo! Subito!» sbraita ancora e carica la pistola che fa quel click quando il proiettile sale in canna.

Mhm... quindi non era carica quando è entrato qui. Ma l'ha caricata solo adesso. Molto interessante.

Gli occhi del cassiere alle sue spalle si spalancano come di conseguenza.

Mi stacco dallo scaffale e poggio la Redbull accanto a una scatola di Lucky Charms, che adesso a pensarci forse acquisto. Quel unicorno sulla confezione è molto carino.

«A terra!» urla ancora quello agitando la pistola e indicandomi il pavimento. Gli lancio una lunga occhiata per poi avvicinarmi a lui. Il mio atteggiamento lo prende talmente di sprovvista che rimane di sasso.
«Ma che cazzo fai?! Io ti ammazzo! Ti faccio saltare quel tuo cazzo di cervello di merda! Hai capito, puttana?! A terra! O ti sparo! Ti sparo, cazzo!»

Infilo la barretta di cioccolato nella tasca della felpa e continuo ad avvicinarmi a lui, ancora e ancora, finché lui tende il braccio completamente in orizzontale con la pistola su di me.
«Io ti ammazzo!»

«Va bene» rispondo con aria calma e mi fermo a un metro da lui. La pistola mi sfiora lo sterno sotto la felpa.

Lui resta di stucco.
«Avanti. Ammazzami» lo invito ed è allora che pare riprendersi dal momento di smarrimento.
Non succede un cazzo, invece.

«Sparami» dico e gli faccio cenno di proseguire. «Dai fallo, sparami» aggiungo ancora.

«Ma che cazzo...» bofonchia lui. I miei occhi sono iniettati nei suoi.
«Sparami. È facile, devi premere il grilletto. Cosa...? Non hai una buona mira?» aggrotto la fronte fintamente pensierosa e alzo una mano. Afferro il suo polso e lo tiro più in alto, tanto da farlo sussultare. Gli alzo la pistola davanti alla mia faccia, sulla fronte.
«Ecco qui. Ora sparami» dico e attendo a denti stretti, indifferente a lui e alla sua merdosa pistola.
«Sparami.»

Non si muove. Le mie dita avvolgono la sua pistola.
«Sparami!» alzo d'improvviso la voce e affilo gli occhi in due lame roventi. «Sparami, cazzo! Sparami!» sbraito contro finché la voce non mi raschia la gola. «Sparami, ho detto!»

Lui, invece, è talmente in uno stato di trance che si è ammutolito con quella sua vocina del cazzo da rapinatore idiota che non sa nemmeno tener fede alle sue minacce di merda.

«Sparami!» ringhio e mi avvicino di più finché il freddo del ferro della pistola non preme contro la mia fronte.
«Spa. Ra. Mi.»

Scandisco ogni fottuta sillaba ed è nello stesso preciso istante che alzo la mano sinistra, la poggio sull'intero del suo braccio, lo spingo verso l'esterno e gli strappo via la pistola senza che possa nemmeno anticiparlo.

Spalanca gli occhi. Guarda la sua Beretta del cazzo e poi me. E io in tutta risposta gli sferro un colpo diritto nello spazio tra gli occhi col calcio della sua maledetta pistola che nemmeno sa usare quando serve ad ammazzare una brutta stronza.

Il colpo è tanto irruento che perde l'equilibrio e cade per terra in un modo abbastanza ridicolo e penoso. Tiro un profondo respiro, calmo i nervi e stiracchio i muscoli del collo. Sento le ossa scrocchiare. Cazzo, sono intorpidita come un manico di scopa.

Alzo gli occhi sul cassiera mentre il rapinatore professionista si lamenta sul pavimento davanti alla cassa e House of the rising Sun di The Animals si disperde intorno a noi.

«Avevo anche questo pezzo...» dico riferendomi alla canzone.

Lui corruccia le sopracciglia. Ha ancora le mani alzate, forse è in stato di shock. Può darsi. Questo è un quartiere davvero molto tranquillo, probabilmente è stata la prima volta a trovarsi con una pistola a meno mezzo metro dalla faccia.
Fissa ammutolito me, poi la pistola.
Non crederà che gli sparerò, vero? Sarebbe molto esilarante, una bella barzelletta del tipo... "Un ladro entra in un negozio e vuole fare una rapina, un cliente gli ruba la pistola e poi fa lui la rapina."

No, non è così divertente come pensavo. Merda, mi è rimasta della cioccolata tra i denti...

Tolgo il caricatore della Beretta e come immaginavo lo trovo vuoto. Questo stronzo per terra non aveva nemmeno i proiettili e voleva sparare. Che figlio di puttana.
Gli rivolgo un'occhiata dall'alto e mi scappa uno sbuffo di risata.

«Sapevi che non avesse proiettili?» chiede il cassiere, finalmente svegliandosi dal suo stato di statua di cera, e abbassa le mani lungo i fianchi.

Tiro la canna all'indietro solo per controllare se sia lubrificata ed è allora che un proiettile sguscia via e cade per terra.
Alzo di getto le pupille sul cassiere che alla sua vista sbianca e guarda me.
Oh, quindi... poteva sul serio ammazzarmi. Caspita.

Onestamente non me lo aspettavo, ma se mi avesse ammazzata forse non avrei avuto più Benedict O'Brien che minaccia di sbattermi in galera. Insomma, non può mandare al freddo un cadavere con un buco in testa, vero? Oppure è talmente sadico da farlo solo per auto compiacersi da solo?
Può darsi...

Guardo il tizio per terra che sembra riprendersi, quindi mi chino e gli mollo un altro colpo col calcio della pistola e lui sembra perdere i sensi. Si accascia di spalle contro il bancone della cassa mentre del sangue gli scivola lungo le narici, gli imbratta le labbra e gocciola lungo il mento.

Raggiungo un espositore accanto dove ci sono alcuni oggetti vari, come colla, elastici per capelli, penne e nastro adesivo.
Ne prendo un rotolo, stacco la plastica e prendo i polsi del rapinatore, li lego col nastro adesivo, faccio lo stesso con le caviglie e poi torno indietro a recuperare la mia Redbull.

La porto alla cassa, poggio accanto anche la barretta di cioccolato, e la Beretta.

«Quanto in tutto?» chiedo indicando la roba. «Ah, no... questa no» indico la pistola scuotendo la mano.
Lui aggrotta la fronte e si schiarisce la voce.
«Offre... offre la casa.»

«Dovresti chiamare la polizia» gli consiglio e tiro comunque fuori il portafogli, metto una banconota sulla superfice, prendo la mia roba e me ne vado mentre lui mi guarda in silenzio, perplesso. Si sporge oltre la cassa e dà un'occhiata al suo spiacevole cliente mezzo isterico e poi guarda me.

Infilo gli auricolari alle orecchie, premo play su I need a Dollar di Aloe Blacc, quasi come schermo a quanto sia successo poco fa, e canticchiando e scuotendo la testa a ritmo raggiungo la mia moto. Svuoto la lattina tutto d'un fiato, la butto nel cestino accanto e monto in sella.

Metto un pezzo di cioccolato in bocca, i guanti, il casco ed è allora che lo scorgo, rendendomi conto solo adesso della sua presenza.

Dall'altro ciglio della strada, appoggiato al muretto alle sue spalle che lo divide da una proprietà privata, è con la solita felpa del cazzo e il cappuccio tirato.
Come d'istinto do un'occhiata al negozio, le enormi vetrate che danno sull'intero con una chiara visibilità verso ciò che è successo poco fa.
Non so se mi ha visto. È probabile. In tutta risposta torno da lui, lo guardo per due secondi e poi con la mano mimo un colpo di pistola proprio in sua direzione.

Esatto, stronzo. Morirai proprio così e se mi hai vista là dentro allora dovresti prendere il tuo culo e starmi alla larga.

Lui questa volta non mi saluta.
Se è un uomo di Benedict, forse si è ricordato il motivo per cui mi pedina. Se non è un uomo di Benedict, allora ha visto che forse non è il caso di rompermi le palle.

Senza dargli più attenzioni, sfreccio via prima che arrivino gli sbirri e mi facciano domande come del tipo "Signorina, lei soffre di istinti suicidi?"

Mi basta Ethan e le sue paranoie sulla mia salute mentale.

Il giorno dopo mi sveglio presto, anzi scendo dal divano, cado per terra, rotolo e le patatine che mi sgranocchiavo prima di crollare e cedere al bisogno di riposare i miei neuroni, mi cadono in testa. Cazzo.

Cerco di togliermele dai capelli scompigliati che dovrei sul serio pettinare, mi trascino all'armadio, tiro fuori una delle poche magliette che sono rimaste qui e non in giro per la casa di Ethan. Mi cambio e prendo una felpa bordeaux con sopra uno strano stemma che non riconosco ma non importa. La tiro addosso. Borsa, chiavi, cellulare e...
Esco sul pianerottolo scalza. Cazzo, le scarpe.

Torno indietro, le infilo e scendo rapidamente le scale. Scivolo sul terzultima gradino, il mio corpo fa uno slancio e sbatto di spalla contro la parete. Cazzo, di nuovo.

Un mio inquilino mi passa affianco, mi riconosce e forse pensa che ho ricominciato ad ubriacarmi. Magari fosse l'alcol... ma dopo l'ultimo goccio di vodka e le due birre non assolutamente analcoliche che mi sono state rifilate al falò in spiaggia, non ho toccato niente, nemmeno del semplice vino.

Sbuffo, e raggiungo l'uscita e giro a destra. Mi fermo. Il Pink Ocean è a sinistra. Quindi svolto a sinistra.
Mi incammino rapidamente, spingo la porta e nel farlo abbandono il peso del mio corpo contro e ci cado addosso finendo sul pavimento del locale.

«Cazzo...»
Alzo il viso a fatica e con mosse che nemmeno io stessa concepisco per quanto sia contorte, mi tiro su e mi appendo a una sedia.
Sposto lo sguardo a destra, Ethan mi guarda. Accanto a lui c'è Logan.

Corruccio la fronte.
«Ma che cazzo...» mormoro ancora e tiro fuori il cellulare. Sbatto le palpebre gonfie e ancora incollate tra di loro e provo a guardare l'orario. Il cellulare però mi scivola dalle dita.
«Cazzo!» alzo le mani al cielo frustrata. Mi chino, lo raccolgo e lo guardo per poi ricordarmi che c'è un orologio letteralmente attaccato alla parete in fondo a sinistra.
«Cazzo...» sospiro pesantemente. Sono una stupida.

«E ora le ultime notizie!» parte la voce della presentatrice delle news alla TV a schermo piatto attaccata a destra accanto la zona del bar.

«Ieri notte una rapina a mano armata non è andata esattamente come si sarebbe aspettato il rapinatore. Dopo esser entrato in un negozio tra le otto e le nove della scorsa domenica sera, è stato preso di sprovvista da una misteriosa comparsa che ha affrontato la situazione con un temperamento fuori dal comune. Dapprima rispondendo verbalmente al rapinatore per poi disarmarlo e legargli mani e piedi con del nastro adesivo...»

Aspetta, cosa?

Mi giro stranita. Ancora assonnata do un'occhiata alla TV che sta trasmettendo quello che pare una registrazione da una telecamera di sicurezza. Stringo gli occhi in due fessure, mi stropiccio un occhio e...
«Oh, cazzo...» mormoro sconsolata.

Ethan e Logan hanno gli occhi puntati sullo schermo.

«La polizia sta ancora indagando sulla situazione a detta loro fuori dal comune. L'identità della persona ad aver sventato la rapina è ancora sconosciuta alla polizia e il cassiere di turno afferma di non averla vista per bene dato il cappuccio che indossava. A quanto pare l'unico indizio è che si tratta di una donna. A tutte le donne dell'America: questo è uno di quei momenti in cui posso confessare di essere fiera di essere una donna e di essere qui per parlare di quanto coraggio possiamo mostrare di fronte alle avversità!»
La presentatrice sorride tutta emozionata e si volge a destra verso il suo collega. «Senza offesa a voi uomini, Jackson, è ovvio!» ride e lui scuote la testa divertito.

Merda.
Gli sguardi di Ethan e Logan si posano poi su di me e io mi guardo inevitabilmente alle spalle, indietreggio per guardare il fottuto orario perché credo di essere in stra ritardo alle lezioni e nel frattempo inciampo e cado contro una sedia.
«Cazzo...» bofonchio di faccia per terra. Di nuovo. Maledizione.

Pianto gli avambracci sul pavimento, sollevo il viso e con uno sbuffo d'aria sposto la ciocca di capelli che mi ricadono sugli occhi. Mi giro verso i due ancora in silenzio accanto al bancone del bar mentre alla TV continuano le altre notizie del giorno.

«Dimmi che non eri tu. Ti prego...» fa sconsolato Ethan indicando la TV che ormai sta impostata sulle ultime bombe di gossip sulla vita di alcuni giocatori di basket.

Una risatina nervosa mi esce dalle labbra e sembro quasi una volpe drogata di ossicidone.
«Nn... no! Certo... certo che no! Ma ti pare?» mi tiro su in piedi e guardo l'orologio.
Le nove e mezza. Sì, posso farcela.

Mi butto verso la porta e ci sbatto contro il vetro. Cazzo, credevo fosse ancora aperta. Mugugno un lamento portando la mano sulla fronte e mi chino sulle ginocchia per un istante. Poi la apro con un gesto tale che sposto tutto il peso del corpo indietro ed esco sull'uscio.

Dove cazzo ho lasciato la moto? E perché non è parcheggiata davanti al Pink Ocean come al solito?

«Ti ho chiamata almeno trecentomila volte. Ti hanno rimosso la moto col carroattrezzi.»

Mi giro a sinistra mollandogli una lunga occhiata priva di qualsiasi impulso vitale. Ripongo gli occhi davanti. Alzo il mento in alzo e chiudo un attimo gli occhi e ci resto per parecchio tant'è che Ethan riapre bocca.

«Che stai facendo?»

«Sto meditando» rispondo.
«Vuoi la mia macchina? Le chiavi sotto già dentro» aggiunge.
Sospiro. «No.»
Riapro gli occhi. Torno sulla TV e vorrei afferrare una sedia e lanciargliela contro.

«Svento una rapina e l'America mi premia con la mia cazzo di moto che mi viene portata via!» sibilo avvelenata alzando le mani in aria in perfetta posa drammatica e caccio un ringhio di bestia assatanata. Ho bisogno di caffè, tanto caffè e avrei bisogno di Nicholas. Porca la puttana, mi serve un abbraccio e non di uno qualsiasi, ma uno dei suoi fottutissimi stramaledetti abbracci.

«Avevi detto di non esser stata tu» replica Ethan che fulmino con un'occhiata di traverso.

Mi tolgo dalla testa il cazzo di cappuccio.
«Caffè» dico solo.

Che la giornata di oggi vada pure a farsi fottere. Recupererò le lezioni di oggi con degli appunti che chiederò a qualcuno al campus. Li pagherò anche se ce ne sarà bisogno.
Ethan fortunatamente non dice altro. Va dietro al bar e ne prepara uno.

Mi metto a uno dei tavoli e lo sguardo mi finisce su Logan.
I capelli legati, quelli sulla nuca liberi, una t-shirt bianca che fa da contrasto quasi accecante con la pelle abbronzata e i tatuaggi. In vita ha il solito grembiule del locale che lui a quanto pare lega piegandolo in due. Evidentemente vuole fare il figo come aveva detto quella volta nel parcheggio quando mi ha chiesto informazioni in merito alle assunzioni al Pink Ocean.

«Alec come sta?» chiedo tanto per cambiare argomento.
«Bene.»

Meraviglioso.
Poggio la testa contro il tavolo e i miei occhi si chiudono per la stanchezza.

***

Mi sveglio che è buio, in una stanza che a primo impatto non riconosco. Stranita, tolgo via la coperta e do un'occhiata in giro.
Sbatto le ciglia più volte. Scivolo via dal letto, giro su me stessa alla ricerca di tastare qualcosa sulle pareti. Un interruttore. Quando lo trovo e ci premo sopra mi trovo nel mio monolocale.
Assonnata, raggiungo il soggiorno, tiro fuori dal frigo una bibita gassata, la mando giù tanto rapidamente che quasi non mi ci strozzo e mi chiedo come io ci sia finita qui dentro. Ho i ricordi veramente confusi e distorti.

Cerco il cellulare nelle tasche e gli do un'occhiata. Sono le otto di sera, dalla finestra il cielo è già tutto scuro.
Sospiro ed esco fuori dal monolocale. A passi lenti raggiungo l'appartamento di Nicholas. Non so nemmeno perché, ma ci voglio andare. Forse perché stare seduta al tavolo da pranzo e guardare fuori dalle vetrate mi dà una bella pace.

Spingo la porta, passo accanto alle scatole poste vicino l'uscio della stanza da letto e faccio per raggiungere il tavolo da pranzo quando corruccio la fronte e torno indietro.
Poso gli occhi sulle scatole e... no, non era frutto della mia immaginazione.
Una è aperta.

Ma che diavolo...
Accendo le luci della stanza da letto per sicurezza e quello che ci trovo mi lascia spiazzata sul bel mezzo dell'uscio.
Alcuni vestiti di Nicholas sono dentro l'armadio, sul tavolino di vetro a destra, vicino la vetrata dove c'è anche una piccola poltroncina, c'è una tazza, un posacere e una sigaretta consumata lasciata dentro.

Stordita per il poco sonno, resto a fissare il tavolino come una perfetta imbecille domandandomi se io stia sognando o meno. Ormai faccio fatica a capire cosa sia reale e cosa sta avvenendo solo nella mia testa.

Scoppio a ridere.
Non so nemmeno io per cosa esattamente ma mi trovo a ridere. Apro una scatola, tiro fuori i biscotti confezionati, ne ficco uno in bocca e con la spalla appoggiata allo stipite fisso il posacenere.
Magari c'è un fottuto fantasma in questo posto oppure è stato il mio stalker che è tornato e ha pensato bene di rimettere in ordine alcune cose, prepararsi qualcosa da bere e fumare perfino una sigaretta.

Se Nicholas fosse qui gli avrebbe tagliato via la mano.
Diceva che il fumo fa male e che soprattutto qui dentro non bisogna fumare. Una volta mi ha beccata, ma solo perché mi ne ero dimenticata delle sue regole esagerate, e mi ha cacciata fuori come un dittatore.
Non nego che il suo atteggiamento prepotente mi è piaciuto, e molto. Infatti non sono uscita, bensì ho spento la sigaretta, mi sono avvicinata a lui e l'ho spiaccicato alla parete. E abbiamo fatto sesso. Proprio contro il muro accanto l'entrata.

Mi porto un altro biscotto alla bocca pronta per dargli un morso quando mi fermo di scatto. Lo sguardo mi cade accanto all'armadio. Le mie Converse bianche sono lì, le stesse che ho lasciato nel soggiorno. Ma ora sono , l'una posizionata accanto all'altra, i lacci tirati perfettamente e infilati dentro.

Il mio cuore ha un sussulto violento quando la mia mente sfugge tra la stanchezza e l'insonnia a qualcosa.

No. Non è possibile.
Scaccio via rapidamente l'assurda idea che mi è passata per la testa. Non avrebbe il minimo senso... Sono troppo stordita, è questa la spiegazione della mia contorta tesi che non mi va nemmeno di argomentare con me stessa. La cestino direttamente.

Perché non avrebbe il minimo fottuto senso se così fosse.

Nicholas è in Australia a vivere la sua vita lontano da qui. L'ha detto chiaramente e ha anche detto che non sarebbe mai tornato e che io non dovrò andare a cercarlo.
Lui è in Australia.

Ma le mie scarpe sono lì. I lacci tirati con una cura maniacale e infilati dentro. Proprio come faceva Nick.

Prendo posto su una delle scatole dove ci ho ficcato i suoi libri. Maurice Leblanc, Arthur Conan Doyle, Agatha Christie e diversi volumi di Stephen King. C'è perfino un volume sulla relatività quantistica di Stephen Hawking.

Non so se Nicholas ci ha mai capito qualcosa, ma ho visto tante note scritte a mano con la sua bella calligrafia che pare essere spuntata direttamente dall'ottocento. Scrive in un modo davvero elegante, proprio come è lui.

Chissà che starà facendo adesso...
È la prima volta che ci penso dopo che ho letto la sua lettera. Magari in Australia adesso starà pescando o starà guardando il mare. Forse ha una casa sul lungomare nonostante odi la sabbia.
Mi scappa un debole sorriso ricolmo di una triste malinconia.

Col culo sulla scatola dei libri fisso le mie Converse mentre sgranocchio i biscotti. Infine, stanca morta, mi trascino sul letto, mi ci butto sopra e torno a dormire sperando che Marianne non torni a infestare i miei sogni.

Quella stronza deve lasciarmi dormire. Il mio cervello ne ha bisogno.

***

Angolo autrice

Mhm... Non so che dire. Mi dispiace solo tanto per tutto quello che sta passando. È seriamente stressata e gli incubi non aiutano di certo. È sotto pressione e quello che ha fatto in quel negozio è da brividi. Non solo per la prima parte ma piuttosto per la seconda. Non le è importato niente quando ha visto quel proiettile... Mhm...

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro