35 | Buonasera

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng


CAPITOLO 35
Buonasera


«Ehi, ci sei? Sei morta?» la voce di Kieran che arriva a basso volume mi fa abbassare un attimo le pupille sul cellulare. «Sì... certo, tu che muori. Se ti legassi a un palo e ti dessi fuoco è più che probabile che ne rimani illesa perché sei una strega, tipo Baba Jaga... Ce l'hai presente? Sai che so un po' di russo? Me l'ha insegnato Nick. So dire "buonasera". Senti qua: dobryy vecher, suka
Lo sento continua ridendo come un imbecille e dall'ultima parola immagino abbia deciso di aggiungere qualcosa di molto colorito.
In una circostanza diversa gli avrei replicato con un meraviglioso "ammazzati", ma non è il caso.

Guardo il cellulare, il cuore mi batte all'impazzata, il diaframma si alza e si abbassa irregolare e poi prendo un pronto respiro, caccio l'aria che trattengo nei polmoni e premo il pulsante rosso, riattaccando.
Kieran può aspettare. Nicholas allo stesso modo. Questa è una occasione che non si ripresenterà più, non così perlomeno.

Mi alzo lentamente. Gli occhi su di lui che se ne sta fermo e mi sta fissando a sua volta. So che è così.
Quindi faccio quello che attendevo da settimane.

Sfilo via le chiavi dell'appartamento, indietreggio di un paio di passi finché non sono accanto la porta. A tentativi muovo la chiave finché non becco la serratura e giro. Tre volte. Questa fottuta porta la sigillo.
Da questo posto stanotte uscirà solo una persona e quella non è lui.

Rimuovo la chiave, la ficco nella tasca dei pantaloni e nel mentre faccio un paio di piccoli passi e lui dinanzi al mio atteggiamento... ne fa alcuni indietro muovendosi piano, quasi senza fare alcun rumore.
Alzo una mano tastando la parete alla mia destra finché non becco il quadro astratto. Lo tiro un po', quanto basta, e stacco da dietro la pistola fissata con il nastro adesivo.

Tolgo la sicura, carico la Glock 17 e il rumore metallico si diffonde nell'appartamento.

«Se fai un solo passo, tu muori» dico.
La voce bassa, tombale, la pistola nella mano destra, la sinistra che regge l'altra e la canna puntata in sua direzione.
Il battito del cuore è lento, rumoroso, il respiro calmo e le mani ferme. L'ho fatto un mucchio di volte. Ho sparato al poligono di tiro, alle battute di caccia, ho sparato con calibri tra i più disparati e ogni volta il colpo andava a segno. E se questa serata non dovesse andare così, allora anziché di un colpo, ne sparerò due, tre, quattro se ce ne sarà bisogno finché io questo gran figlio di puttana non l'avrò beccato.

Mi muovo piano, le suole degli anfibi ispezionato il pavimento, lo toccano senza fare rumore.
L'appartamento viene presto invaso da una risata. Ed è la mia.
«Oh... tu hai scelto il momento peggiore della tua vita per presentarti qui» mormoro con un sorriso freddo sulle labbra. «Ora ti racconterò una piccola storia per cui faresti meglio a prendere posto.»
Dico e gli faccio cenno con la pistola di muoversi. «Seduto.»

Lui indugia per alcuni istanti finché non allunga una mano verso una delle sedie.
Rido istintivamente.
«Sul pavimento» mi spiego meglio muovendo la pistola sul punto in cui lo voglio.

A cinque passi dal tavolo da pranzo, a dieci dalla cucina, a cinque da me.

Attendo. Lui finalmente di muove e si posiziona lì. Si china, finisce di ginocchia per terra e alza le mani.
Oh... si sta arrendendo. Carino.
Sorrido a malapena.

«Abbassa le mani» ordino e lui esegue. «Stanotte non ci sarà alcuna resa. Vedi... sono davvero incazzata. Ho preso questa pistola per ficcarti una pallottola diritto in fronte, ma ora che sei qui...» mi avvicino al mobiletto accanto e apro un cassetto, ficco la mano dentro alla ricerca di quello che voglio.
Trovo il filo da pesca di Nicholas, lo prendo e ritorno indietro a passi lenti.

«... mi divertirò un po' con te» concludo mentre il fuoco divampa a tutto spiano nella mia carne.
«Ti sei permesso di entrare qui dentro, fare come se fossi a casa tua, sfiorare le cose del mio fidanzato. I suoi libri, i suoi vestiti, la sua cucina. Nessuno tocca la sua cucina men che meno uno svitato del cazzo che regala... rose» caccio una breve risata.
«Pensavi davvero che fosse così facile? Ti sembro forse una che va pazza per delle cazzo di rose? Che si ammalia facilmente? Sai... credo davvero di essere un po' fuori di testa» confesso alla fine con un sorriso.

«E non lo dico perché ho una pistola, oh, no. Un po' di gente me l'ha ripetuto. Il mio ex, a cui stasera ho mollato un ceffone in faccia perché uno stronzo, poi... perfino mio cognato. L'ho affogato in una piscina, sai? Poi mi ha minacciata. Mi ha dato della stupida ragazzina, mi ha ordinato di stare alla larga da suo fratello, quindi sai che ho fatto? L'ho seguito, l'ho preso a pugni, ho spaccato la faccia ai suoi amici che hanno avuto il coraggio di provare a fermarmi e poi sono tornata da lui e gli ho ficcato un teaser diritto nel ventre. Se ti piacciono le matte, credo tu abbia fatto un buco nell'acqua... a quanto pare ho scoperto anche di essere una assassina, e il fantasma di quella puttana che ho ucciso mi fa visita di tanto in tanto nei sogni. Ma se ammazzo te, magari quella smetterà di infestare la mia testa e potrò dormire in santa pace perché tanto... che cazzo me ne dovrebbe fregare se crepi? Uhm?» spiego.

Rimetto la sicura alla pistola, tolgo il caricatore e abbandono ogni pezzo lontano. Poi tiro il filo, lo metto intorno al collo e trattengo il respiro stringendo a sufficienza affinché possa restare il segno.

Il mio Osservatore probabilmente sarà confuso. Ma ho le mie buone motivazioni.

«Quando la polizia arriverà da quella porta e troverà il tuo corpo, vedrà anche quello che tu mi hai fatto mentre io dormivo tranquilla nel mio letto. Sei entrato, hai provato a strangolarmi e io per difesa personale ti ho piantato un coltello diritto nel petto. Ti piace la mia storia?» chiedo curiosa e sfilo via la cravatta, la rigiro intorno al palmo, a coprire le nocche della mano destra.

«Non parli?» alzo le sopracciglia. «Non servirà. Mi basteranno solo le tue urla» dico andando in sua direzione. Lui si alza, e indietreggia di una buona manciata di passi.

«Non scappare, perché non puoi» cantileno divertita scuotendo la testa. Stringo forte il pugno, la cravatta nel palmo, a fasciarmelo, il sangue che mi ribolle nelle vene e un scarica di adrenalina che mi pervade, mi manda in escandescenza ogni terminale nervoso.

Mi avvento su di lui. Uno slancio. Pianto il piede sulla sua coscia, salgo sulle sue spalle, gli rotolo intorno finché non lo scaravento per terra. Il suo braccio stretto tra le mie mani, il mio piede lo colpisce in pieno in viso.
«Ti piace questo?» chiedo a denti stretti e scivolo lontano di un paio di metri, il tempo di dargli tempo per sollevarsi.

Alzo le mani e gli faccio segno di avvicinarsi.
«Vieni dalla mamma» sorrido percorsa da una fiamma danzante, rovente, pericolosa che mi solletica quel impulso che ho sempre rinnegato ma che in fondo mi piace. Lo adoro. Usare le mani, sferrare i colpi all'altro, sentire il bruciore alla mano e i suoi gemiti di dolore. Mi piace molto.
Riduco gli occhi in due fessure, attendendo una sua mossa che non arriva.

«No?» chiedo falsamente stranita. «D'accordo... verrò io da te.»

Nemmeno il tempo di finire che gli vado incontro, raggiungo la sua destra e proprio quando fa per difendersi, scivolo in basso, lo afferro per il polso, mi piego e gli prendo una gamba buttando a terra per la seconda volta. Di faccia sul pavimento, il suo braccio è stretto tra le mie gambe, le mie mani glielo reggono per il polso. Proprio quando sto per fare abbastanza pressione e dislocarglielo dalla spalla, lo sento gemere di dolore e si tira in piedi.

Cazzo.
Vengo presa di sprovvista quando solleva tutto il mio peso in una sola mano, mi afferra e mi schiaccia di spalle al suo petto. Sgrano gli occhi non appena preme il braccio intorno al mio collo e l'altro rafforza la stretta. Ringhio incazzata, cercando di liberarmi e al mio tentativo lui stringe solo di più. Corruccio la fronte di scatto, confusa, quando non sento mancarmi l'aria. Maledizione, non vuole uccidermi, vuole farmi perdere i sensi.

Col cazzo che io crollerò stecchita dal sangue che non mi arriva più al cervello.

Infilo la mano nella tasca, tiro fuori le chiavi della moto e gliele pianto con tutta la forza che ho nel braccio diritto nella coscia.
Lui geme, la presa si allenta un po' e io ne approfitto per infilare le dita tra il mio collo e il suo braccio, scivolare via, tirarmi indietro e ruotare abbastanza da spingerlo contro il tavolo. Finiamo entrambi per il pavimento, lui contro una sedia che si rovescia e sbatte rumorosamente.

Mi trascino un po' lontano, una mano alla gola e riprendo fiato.
«Vuoi mettermi a nanna, cazzone?» sibilo con cenno di risata, incredula.
Mi alzo, lui sta per fare lo stesso mentre è impegnato a tirare fuori dalla gamba le chiavi e io afferro il fottutissimo vaso di fiori e glielo frantumo contro il cranio.

Le rose cadono per terra, i cocci di ceramica lo stesso e lui sbatte contro la pozza d'acqua.

«Ora alzati e fai l'uomo» mormoro avvilita e gli vado incontro, lo afferro per la sua cazzo di felpa e gli sferro un pugno in faccia.
Merda. Il secondo pugno si ferma nel palmo della sua mano, mi ruota il polso e con un solo movimento mi fa finire di spalle contro il pavimento.
Le mani mi vengono bloccate sopra la mia testa. Sbuffo con un toro inferocito, scalcio, il battito corre a mille e alzo una gamba, la porto nell'incavo del suo collo, muovo il baricentro e mi libero.
Lo spingo via dal mio corpo, a cavalcioni lo afferro per la felpa e gli mollo una testata che mi fa scoppiare un dolore lancinante al setto nasale.

Mugugno una imprecazione, sento il sangue scivolare fuori dalle narici e finirmi in bocca. Il sapore metallico mi pizzica la lingua.
Un attimo di stordimento quanto gli basta per afferrarmi e provare a farmi perdere di nuovo i sensi.
Mi libero per la seconda volta, mi tiro in piedi, sfilo la cravatta e gliela porto alla gola mentre cerco di strangolarlo alle spalle.

Tiro, con i denti serrati al massimo, mentre le mie corde vocali si spezzano tra i mugugni per lo sforzo. Lui cerca di afferrarmi da dietro, ma non ci riesce. Indietreggia, io con lui e mi spiaccicata di spalle alla parete. Mi sbatte una, due, tre volte contro finché le mie mani non allentano la presa sulla cravatta. Mi afferra e mi lancia sul pavimento.

Rotolo un paio di volte su me stessa e sbatto contro il bancone dell'isola della cucina. Pianto le mani a terra, mi alzo, lo guarda e rido sputando il sangue che ho in bocca.

«Era ora, cazzo!» esclamo euforica facendogli un teatrale applauso. Stiracchio il collo e prendo la rincorsa. Pianto un piede sulla parete accanto alla quale si trova. Gli mollo un pugno in faccia ricadendo di piedi per terra.

Mi avvento di nuovo su di lui, mi afferra diritto per la gola e questa volta mi manca davvero il cazzo di fiato. Alzo le gambe, le attorcigliato attorno al braccio e il mio peso gli molla la presa. Cado, gli sferro un calcio proprio lì dove gli ho infilzato la gamba con le chiavi della moto, lui indietreggia. Faccio per sferrargli un altro calcio ma mi afferra la coscia e mi blocca il movimento.

Merda.
Mi sbatte di faccia al muro e ci sbatto talmente tanto di testa che caccio un gemito di dolore. Prova per la terza volta a farmi perdere i sensi, quindi pianto le mani e i piedi sul muro, lo spingo facendo forza nelle ginocchia e ficco una mano tra la mia gola e il suo braccio, mi libero, lo scaravento per terra. Rotolo su di lui, lui su di me cercando di fermarmi. Afferro uno dei cocci del vaso e glielo ficco a tutta forza sotto la clavicola.

Ringhia tra i denti per il dolore, mi molla un calcio e mi scaraventa lontano. Si tira in piedi, mi afferra per il busto e mi spiaccicata contro il tavolo da pranzo. La sua mano preme intorno mia gola, e io attorciglio intorno le gambe intorno al suo braccio, spingo il piede e gli mollo un calcio in faccia che mi spinge all'indietro verso lo spigolo. Sbatto su una delle sedie e poi sul pavimento. Afferro una delle tende, mi tiro su e quando si avvicina, gliela attorciglio prima attorno al braccio e poi al collo, così se proverà a liberarsi si strozzerà da solo. Gli scivolo di lato e poggio le mie spalle contro le sue tirando la tenda tanto da soffocarlo. Lui mugugna qualcosa tra di denti e con un movimento mi sbatte contro la vetrata e poi mi lancia dall'altro capo della stanza. Sbatto contro la parte posteriore del divano.

Caccio una imprecazione, a fatica mi tiro in piedi. Poggio una mano sullo schienale del divano e gli occhi su di lui. È in piedi e si sta togliendo il coccio di vaso dal corpo lanciandolo per terra.

Rido affaticata. Lo indico.
«Va bene, è stato... divertente, sì... ora p-però... però ti ammazzo» schiocco le dita indicandolo. Mi chino e sfilo il mio coltellino svizzero da sotto il tappeto della area soggiorno che sapevo mi sarebbe servito.
Lo apro con un gesto secco e me lo rigiro tra le dita.

«Quando... ero bambina - mi schiarisco la voce - squartavo le lepri» racconto con la gola secca, il naso dolente e credo una costola rotta.
«Tagliavo loro la gola, facevo un incisione in mezzo alla colonna vertebrale e poi tiravo giù la pelliccia da ambo le parti. Bisognava essere precisi, se il pelo toccava la carne, ci si appiccicava e chi cazzo lo toglieva più? Per tua fortuna io ero davvero molto precisa.»

Sorrido, lancio il coltellino in aria, lo afferro per la punta e glielo sferro adosso. Lui sposta d'istinto la testa a sinistra. Il coltellino gli passa a un soffio dal viso e si conficca nel mobile della cucina dove ci sono i piatti.
«Hai dei buoni riflessi...» commento incredula con un sospiro pesante.
Lui si volta guardando il punto dov'è finita la lama e ne approfitto per sfilare via la cintura che ho ai pantaloni, scivolare sul pavimento, e buttarlo a terra. Gli metto la cintura al collo e stringo.

Con un ginocchio sulla sua schiena mi avvicino al suo orecchio.
«Al mio fidanzato piace essere strangolato. A te, invece?» chiedo curiosa prima di essere afferrata e lanciata contro il divano. Atterro sopra, cado e finisco per terra.

Cazzo.

Lo vedo avvicinarsi con la mia fottutissima cintura stretta in mano, mi afferra per un piede e mi trascina sul pavimento e io in automatico gli sferro un calcio alle palle, piegandolo per il dolore.

Mi alzo. Gli mollo una ginocchiata in faccia. Provo ad afferrarlo per il busto, lui mi afferra a sua volta e mi rigira. Vedo il pavimento e poi il soffitto e atterro di spalle sul tavolino sul tavolino basso di vetro. Il mio corpo lo attraversa, il vetro si frantuma e il colpo al diaframma mi toglie il fiato.

Porca la puttana.
Ispiro, poggio una mano sul ferro rimasto scoperto dello scheletro del tavolino, mi alzo e il mio sguardo cade alla mia coscia.
Cazzo...
Allungo una mano, con un mugugno di rabbia e dolore afferro il pezzo di vetro tagliandomi l'interno della mano.
Sotto il suo sguardo, lo sfilo via e lo butto lontano. Il sangue coggiola, scivola e lo sento finire fin dentro la scarpa.

«Quello... quello me lo ripaghi, stronzo» sibilo affaticata e con tutta la forza che ho, vado in sua direzione, lo afferro di lato, alzo le gambe e con uno slancio ce lo trascino per terra. Cerco di strozzarlo, lui preme una mano sulla mia faccia, mi afferra e rotoliamo sul pavimento. Finisco su di lui. Mi tiro a fatica in piedi, prendo una sedia e gliela sferro addosso spezzandola in pezzi. Il necessario per andare in cucina, riprendere il mio coltello e la cravatta che stringo sopra il taglio per fermare un po' il sangue alla coscia. Con uno slancio salto sul bancone, lui si avvicina, io perdo il coltello quindi d'istinto prendo il tagliere dal bancone e faccio per sferrarglielo in testa. Fallisco perché para il colpo con il braccio e me strappa dalle mani. Quindi afferro lo straccio da cucina, glielo metto dietro il collo, lo attiro a me e gli mollo una testata. Lo stordisco, stordisco me stessa ma il calcio che gli mollo contro il diaframma non me lo leva nessuno. Lui sbatte contro il mobiletto di vetro dove ci sono alcuni calici in cristallo che Nick non usava mai mentre io indietreggio sbattendo le palpebre per riprendermi, mi appoggio al bancone quasi gli scivolo contro finendo per terra, intanto che mobiletto di di vetro si spacca e con esso anche diversi bicchieri che cadono rovinosamente sul pavimento.

Stremata, lo raggiungo, mi metto a cavalcioni su di lui. Col fuoco che scorre nelle vene, intontita e spossata, riprendo il coltellino da terra dov'era caduto e lo alzo in aria per poi infilzargli la faccia, preferibilmente un occhio.
Rimango sbigottita quando però la lama affonda e attraversa il palmo della sua mano che usa per pararsi all'ultimo secondo. Il gemito di dolore gli si ferma in gola.

Fa per allontanarmi, ma frettolosa riprendo il coltello e provo a ucciderlo di nuovo, ma mi ferma ancora, questa volta mi disarma, lancia il coltellino lontano e si conficca da qualche parte nel buio della stanza. Faccio per riprenderlo ma mi afferra per una gamba. Gli mollo un calcio in faccia e mi trascino a fatica lontano, il dolore ovunque e forse un trauma cranico. Cazzo.

Non trovo il coltello, invece becco la pistola. Cerco rapidamente il caricatore, provo a infilarlo ma lui gli molla una calcio e per poco non mi spezza il polso. Gemo di dolore e lancio una imprecazione. Il caricatore sbatte contro la parete. Mi prende per le cinghie delle bretelle, mi solleva in aria e i miei piedi si staccano dal pavimento.

Vengo sbattuta una, due volte di faccia contro la parete. Gli mollo una gomitata al fianco, un'altra, e un'altra ancora. Ficco le dita nella ferita che ha sulla gamba, geme di dolore ed è allora che gli tiro una testata con la nuca. Cerco di girarmi ma mi sento di nuovo afferrata e sbattuta questa volta di spalle contro il muro.

Pianto il ginocchio contro il suo petto per sollevarmi un altro po', rigiro la pistola e lo colpisco in faccia. Una, due fottutissime volte.

«Muori!» ringhio alla terza volta che lo colpisco. «Perché cazzo non muori?! Muori pezzo di merda! Muori!»

Le sue mani allentano la presa sulle cinghie e io cado con violenza di spalle sul pavimento sbattendo la testa contro la parete.

«Cazzo...» mi giro su un lato sputando del sangue, mi trascino fino all'altra parete e sbatto contro di essa quando le gambe mi cedono. Tasto il pavimento, becco il caricatore e lo infilo nella pistola. Di fianco al muro, senza più forze, il fiato corto, la gola secca, il polso che mi fa un male cane e la bocca che perde sangue e che si mischia con quello che mi scivola dalle narici, mi giro. Tiro indietro il carello della Glock 17 e lui di colpo si ferma. Arresta ogni passo, ogni minuscolo movimento.

Mi libero in automatico in una piccola risata bassa, innaturale e stanca.

«Cazzo...» mormoro addolorata e tiro su col naso. Una fitta si propaga fin dentro il cervello mentre il sangue mi scende lungo la gola. Mi alzo ormai esausta, allo stremo. La gamba destra mi trema, la ferita mi pulsa e fa un cazzo di male devastante ma rimango in piedi.
«A terra.»
Ordino tirando un profondo respiro.
Lui indugia.
«A terra!» ringhio e finalmente prende fottutamente posto in ginocchio.
Cazzo... mi passo una mano sui capelli spostandoli dal viso.

«Sei difficile da uccidere... N...non l'avevo previsto» ammetto stupita. «Che... che diavolo sei? Uh? Un Soldato d'Inverno, Superman, un fottuto Terminator
Sbatto le palpebre cercando di restare lucida.

«Beh... anche i cazzo di Terminator muoiono. Avanti, togli il cappuccio, voglio vederti in faccia prima di ammazzarti» dico e a fatica raccolgo una sedia, la rimetto in piedi e ci prendo posto. Merda, la coscia mi fa un male terribile.

«Se... Nicholas... sai, il mio fidanzato, quello a cui tu hai toccato la roba come... come se fosse tua - tiro un profondo respiro - fosse qui ti avrebbe spezzato le mani e te le avrebbe fatto ingoiare. Avete la stessa stazza, te l'ho già detto?» chiedo e corruccio le sopracciglia. «No... no, non l'ho fatto. Sì, beh... se lui ti avesse preso a calci sarebbe stato uno scontro più equo ma lui... lui poi ti avrebbe lasciato andare, ma tu hai beccato me. E io... non lo farò» termino con un cenno di risata stanca.

«Ora togliti quel cazzo di cappuccio» lo indico con la pistola. Questa volta però non si muove affatto.
«Ho detto: togliti. Quel cazzo. Di cappuccio» ringhio scandendo bene le fottute parole.

Niente. Nessuna mossa.
Vuole morire. Certo, lo ucciderò comunque, ma così mi sta solo innervosendo. Ormai ho perso la pazienza, ho esaurito il mio stress e la rabbia accumulati in tutti questi mesi e ora non mi resta che lui, questo figlio di puttana che si è intrufolato nell'appartamento di Nicholas e ha messo mano sulla sua roba.

«Va bene...» mormoro con aria sconfitta e mi alzo. Incazzata, con la pistola puntata contro il suo cranio, mi gli giro attorno, mi fermo alle spalle e glielo tiro giù.

Non si vede un cazzo.
«Alexa, accendi tutte le luci di casa!» alzo la voce. Due secondi e l'appartamento viene illuminato. Strizzo gli occhi dinanzi la luce, stiracchio il collo, e le pupille sfuggono allo stato disastroso di questo posto. Chiunque questo pezzo di merda sia, la sua banca, la sua fottuta famiglia mi ripagherà ogni minimo graffio qui dentro. Mi rimetterà tutto in sento. Nuovo di zecca, cazzo.

«Quando Nick torna come glielo spiego questo stramaledetto casino?» chiedo dietro la sua testa. «Uhm?» mugugno e gli mollo un colpetto con la pistola. «Che gli dico? Il suo amico mi ha messo dei poliziotti come scorta, lo sapevi? Certo, che lo sapevi... ma io gli ho detto che tu non ti sei più rifatto vivo, e ho mentito. Ti stavo aspettando, oh sì... Proprio come facevo alle battute di caccia...» rido lievemente, «credevi davvero di fottermi? Mhm? Sai chi cazzo sono io?» ringhio e il sangue che mi corre ancora nelle vene e non gocciola sul pavimento si incendia. Il battito lento aumenta di getto. Serro i denti.

«Sono Veronica Francesca Fottutissima Kyle. Io vengo dal niente, ho perso ogni cosa e sai cosa è più spaventoso? Affrontare una persona che non ha niente da perdere» rispondo e mi chino un po' accanto la sua testa.

«Sono la cosa che gli uomini inferiori come te devono temere» sussurro tombale al mio orecchio come un demonio quale adesso somiglio.

Raddrizzo la schiena. Tiro un profondo respiro.

«Forse se sono così è colpa di mio padre... Mi ha insegnato sin da bambina come smontare una pistola, mi ha obbligata a frequentare i corsi di autodifesa per esorcizzare la rabbia, la mia frustrazione personale. Ma ha fallito. Voleva aiutarmi e invece mi ha dato tutti i mezzi per ammazzare qualcuno e poi... mi portava a caccia e pian piano il sangue non mi disturbava più. Quando uccidevo, guardavo la preda che si dimenava, che combatteva per restare in vita mentre io fissavo i suoi occhi, il momento esatto in cui quella vita gli scivolava via. Forse... se fossi cresciuta in un'altra città, se mio padre non mi avesse scambiato per un ragazzo e mi avesse comprato delle cazzo di bambole anziché darmi in mano un fucile, se mia madre non fosse morta, se io non avessi ammazzato per sbaglio Marianne... forse adesso sarei una persona normale. Avrei una vita normale...»

Sospiro. Sono stanca morta.

Poggio una mano sopra la coscia e caccio un gemito di dolore che fermo tra i denti.

«Ti sei preso una forte cotta per una assassina...» rido lievemente. «Hai dei gusti molto discutibili in fatto di ragazze. Il tuo psichiatra te l'ha mai detto?»

Mi muovo lentamente. Zoppicante, mi fermo davanti e lo trovo con viso abbassato verso il pavimento.

«Guardami» ordino. «Non facevi altro che fissarmi, ora guardami, ho detto. Voglio vedere la paura nei tuoi occhi mentre ti domandi quanto tempo ti rimare prima di crepare.»
Sibilo avvelenata col cuore che pulsa piano mentre i battiti mi riecheggia in ogni angolo del corpo. Il mio respiro è affaticato. La costola mi fa male. La spalla mi fa male. La ferita aperta che sgocciola sangue mi fa male. Anche la testa mi fa male.

Lui si muove, i miei occhi incrociano i suoi e il pavimento mi manca da sotto i piedi. Il sangue mi si gela nelle vene.
Il respiro si fa pesante, irregolare, le vie respiratorie si stringono sempre di più, il mio cuore perde un battito. Brividi mi attraversano ogni singola particella di carne, fino alle punte dei piedi.
La pistola puntata contro il suo viso ciondola, si abbassa di un centimetro, il tremore della mia mano ne è la colpa.

Ad occhi spalancati, incredula, sotto shock fisso i suoi.
Azzurri. Una piccola macchia marrone gli dipinge l'iride destra, la barba un po' accennata, le labbra lievemente carnose.

Deglutisco pesantemente.
Mi guarda mentre io guardo lui. Le mie corde vocali sono sigillate, mentre analizzo, divoro, mi cibo di ogni singola particella del suo viso che trovo... diverso. E il mio cuore si stringe in una morsa atroce che fa male più di qualunque altro danno fisico che il mio corpo patisce.

Studio la cicatrice che gli attraversa il volto, che parte dalla fronte, sorvola l'occhio destro, scavando dentro la sua guancia. Studio la parte sinistra del collo tutta cicatrizzata, rovinata da ustioni che nemmeno concepisco di che grado siano. Sale fin sotto il mento, gli macchia un po' della mascella e della guancia, e finisce, si nasconde sotto la felpa.

«Togli...» deglutisco con forza e ispiro. «T-togli la felpa» ordino col cuore che mi martella contro il petto.
Lui esita per buoni, lunghissimi, interminabili istanti. Poi abbassa il viso, tira giù la zip e se la sfila.

I miei occhi si riempiono di lacrime, bruciano con violenza quando si posano sul suo braccio ustionato fin sopra il gomito.
«Anche... la maglietta... t-toglitela» la voce mi si incrina con violenza.

Lui rimane con lo sguardo basso, sembra non avere il benché minimo coraggio di farlo.
«La maglietta. Toglila» ordino cercando di essere tenere sotto controllo le corde vocali.
Alla fine, dopo lunghissimi attimi di esitazione, afferra un lembo, e la sfila via rimanendo a torso nudo e io... so solo che una lacrima scivola via e mi brucia la guancia.
Metà del suo corpo è talmente ustionato che la sua carnagione è più chiara rispetto all'altro lato, leggermente abbronzato.

La pistola si abbassa. Non ho più forze per tenerla alzata e non mi servirebbe ugualmente a niente perché davanti non c'è una persona qualsiasi. E una persona così come l'ho vista l'ultima volta prima di salutarci.

Il ferro sbatte sul pavimento mentre mi piego nelle ginocchia e lenta, alzo le mani. Le dita mi tremano, alcune sono impregnate di sangue, alcune nocche sbucciate che bruciano ma non è importante. Niente ha più importanza oltre lui.

Le mani si posano sul suo viso. Lo alzo un po' affinché possa guardarlo più da vicino, mentre lui regge gli occhi bassi, rifiutandosi di scontrarsi di nuovo col mio sguardo.

Serra la mascella quando con i polpastrelli sfioro la cicatrice, quando scendo e dolcemente tocco la sua guancia, calo le dita sul suo collo e poi sul braccio, e le lacrime mi appannano la vista. Alcune scivolano fuori dal mio controllo, altre finiscono sulle labbra e si mischiano al sangue del labbro spaccato.

Quasi temendo di spaventarlo, mi avvicino al suo viso ancora un po', quanto basta per poggiare le labbra sulla sua fronte, tra i suoi capelli più lunghi di quanto non gli abbia mai avuti, ora scompigliati e alcuni appiccicati dal sudore. Chiudo gli occhi, le ciglia bagnate dalle lacrime che scendono silenziose, e gli poso un bacio tra i capelli, facendomi scappare un singhiozzo che mi graffia la gola tanto è irruento. Gli cingo il collo con le braccia e lo stringo forte a me.

«C-cosa ti hanno fatto...» sussurro tra un sospiro e l'altro, tra il muco che mi scende giù per la narice, il dolore al setto nasale quando tiro su col naso e lo stringo ancora e ancora, quanto più forte io riesca, con le poche forze che mi restano ancora. Il mio cuore che batte accanto al suo e le sue braccia che incerte si muovono finché non ricambiano l'abbraccio e mi sento soffocare nel mio stesso respiro.

«Cosa ti hanno fatto?» chiedo ancora aggrappata al suo collo. Non accenna alcun suono. Lui, che adorava parlare sempre tanto, è lo stesso che adesso se ne sta in un silenzio che mi fa tremare il cuore tanto è atroce, innaturale.

Era questo? Il contenuto di quella lettera, era questo? Quando ha scritto di essere malato, lui intendeva questo? Quando ha detto che non è un male che si cura con un cerotto, parlava di questo?
Per questo non è tornato? Credeva che mi avrebbe spaventata? Che non l'avrei più voluto? Che questo avrebbe eliminato tutto quello che provo per lui?

Lui ha detto che se non può essere il mio compagno allora non sarà niente, perché lui è un uomo a metà, perché potrebbe farmi male, farmi pensare che mi merito ciò che lui è adesso. Ha detto di andare avanti con la mia vita, di innamorarmi di qualcun altro... Come potrei mai?
Come gli è solo saltato in testa che sarebbe stato talmente facile?

L'ho aspettato anche quando avevo perso ogni briciola di speranza, l'ho aspettato anche quando l'ho maledetto, lui e il suo lavoro, e poi ho maledetto me stessa per averlo lasciato andare via.
L'ho aspettato e l'ho voluto anche quando Logan ha cercato di infilarsi nella mia vita e di riconquistarsi il mio cuore, anche quando mi ha baciata.
Ma il mio cuore apparteneva a un altro, apparteneva a lui, che ho atteso, ancora e ancora e ancora. L'ho fatto per sei lunghissimi mesi tra alti e bassi, tra lacrime e notti insonni, tra rabbia e frustrazione, io non ho mai smesso di aspettarlo.

Anche quando ho ricevuto quella lettera, niente è cambiato. Sarei andata da lui e ci sono andata, ma non l'ho trovato perché per tutto quello tempo aspettavo qualcuno che stava dall'altro ciglio della strada, che mi lasciava rose e mi scriveva dei bigliettini, che non aveva il coraggio di avvicinarsi troppo perché... è diverso.

Mi stacco lievemente, quanto basta per afferrare il suo viso e guardarlo, e sentirmi sprofondare fin dentro il pavimento. Lui pensa di avere qualcosa che non va, ma non c'è niente di sbagliato o terrificante nel suo aspetto fisico. È solo diverso, ma resta lo stesso. Resta lui.

La stessa persona nella divisa da poliziotto a darmi fastidio, la stessa che mi ha rubato il pacco di patatine, che mi cucinava, che mi preparava la colazione prima di andare a lavoro, che mi portava sul pontile a guardare il sorgere del sole.
La stessa che mi faceva sentire bene, in pace, felice anche quando non succedeva niente, ma mi limitavo solo a guardarlo cucinare, indaffarato, con la testa sulle sue ricette.

«Buonasera, tesoro» sussurro accennando un debole sorriso mentre scivolo e sprofondo nell'azzurro dei suoi occhi che sono rimasti gli stessi.
Il nostro saluto. Quello che dicevamo sempre quando l'uno tornava dal lavoro e la sera ci incontravamo tra il profumo di cibo, di un calice di vino rosso e si concludeva con la doccia insieme immersi nella fragranza di mela e cannella.

Nicholas mi guarda e i suoi occhi, i suoi bellissimi e meravigliosi occhi, diventano rossi e brillano tutto d'un tratto. Le lacrime si accumulano nelle palpebre inferiori e una scende lungo la guancia, finendo nella cicatrice e seguendo la sua linea.
"Io non piango. È veramente difficile farmi piangere" le sue parole. Quelle che ricordo molto bene.
E invece adesso il suo viso è attraversato dalle lacrime. Abbandonano i suoi occhi, scivolano sul viso, bagnano le mie mani e finiscono sulle sue labbra e sul suo mento.

«Buonasera» sussurra.
La voce gli esce roca, spezzata, talmente bassa e scheggiata da farmi rabbrividire. Un tipo di suono che non sentivo da molto, troppo tempo.

***

Angolo autrice.

Mhm... beh. Ciao Nick 👀💜

E niente, ora sappiamo il motivo per cui faceva il pazzo maniaco. E non è uno molto divertente, per niente direi.
Povero cucciolo 💜🫂💜

Ps. Se ci sono errori, correggerò più tardi. Ho fatto già tre o quattro revisioni ma sicuramente mi sarò fatta scappare qualcosa eh vabbè XD

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro