Capitolo sei

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"Gioco sporco"
Parte seconda



Non osare.
Non osare di più.
Una lamento stanco che continuava a perpetrarsi fra il suo il desiderio impellente e accecante.
Elijah le accarezzò i capelli fra il suo rifiuto evidente. Erano soffici come piume.
Avrebbe resistito?
No probabilmente no.
Le sue labbra rosate erano così invitanti e idilliache.
Il suo volto dolce come una poesia.
Come avrebbe fatto a lasciarla andare?
Si poteva abbandonare qualcosa che si desiderava così ardentemente?
L'avrebbe presa senza consenso?
Forse.
O forse no.
Doveva ancora stabilirlo.

«Temo che questa non sia una prerogativa accettabile, Isabel. Questo è il vostro posto e qui rimarrete, che vi piaccia o no. Quindi vi consiglio di vedere la cosa sotto un altro aspetto, un aspetto meno ostinato del vostro!» ringhiò lui.

«Io vi consiglio di togliermi le mani di dosso, immediatamente, signor Brown! Chiamerò la polizia e vi denuncerò, statene pur certo!» Isabel non demorse.
Non voleva farlo, ma qualcosa nel suo sguardo la inquietò.
Una scintilla oscura che non premeditava nulla di buono. Immobile com'era si sentiva in balia di una tempesta, un uragano potente abbastanza da trascinare la sua coscienza in un mare di terrore. E ora più che mai temette di annegarci dentro.

Elijah sorrise. I suoi occhi si beffarono di lei pur restando in un momentaneo silenzio. «Benjamin aveva ragione, dovete non conoscermi allora» strinse con veemenza i suoi polsi, provocandole un leggero sussulto. Non sapeva come venire a capo di quel sogno senza trasformarlo in un incubo.
La fragilità di quella fata lo istigava senza ritegno, la protuberanza fra i suoi pantaloni si fece insistente manifestando un bisogno quasi animalesco, a tratti fuori controllo.

E il che era un male.
Non andava bene, affatto. 
Esattamente come le bestie selvatiche non poteva essere addomesticato.

Ispirò, come se da quella manciata d'aria dipendesse il destino dalla sua incoscienza.

«Vi prego, lasciatemi andare, mi fa male il braccio!» La voce di Isabel lo ridestò.
«Ho paura che torni a sanguinare, ve lo prometto, non scalcerò, ma lasciatemi...» ansimò. Con lo sguardo indicò la fasciatura ancora perfettamente intatta. Non sanguinava, ma avrebbe potuto se non avesse smesso di agitarsi in quel modo.

Elijah la scrutò, preda di una muta indecisione.
Sospirò, riflettendo sui possibili svantaggi di quel patto irrefutabile: in fondo aveva promesso, non avrebbe scalciato e non sarebbe scappata. La porta si trovava di fronte al letto, certo, ma questo non sarebbe stato un problema. Non le avrebbe dato scampo, anche perché l'avrebbe riacciuffata in un attimo.

Ma che valore aveva la promessa di una fata incatenata?

Su quei pensieri la scrutò in cagnesco chiarendone i moniti un istante dopo.

«Farete la brava?»
«Sì!»
«E non scalcerete più?»
«Non scalcerò.»
«E non fuggirete?»
«Non fuggirò.»
«Promesso?»
Lei annuì «promesso!»

Elijah la studiò ancora un istante. Il dilemma fra i suoi occhi spiccò come una fiamma ardente. «D'accordo, allora», disse. Poi lentamente iniziò a sciogliere la presa, rilassando la sua postura in tensione. La cosa gli costò un certo sforzo in realtà, ma non avrebbe potuto spingersi oltre. Sarebbe stato da villani e, sebbene in parte lo fosse, non voleva certo esserlo con lei.

Isabel emise un mugolio angosciato, riportando le braccia lungo i fianchi. Li distese prima di massaggiarsi i polsi, divenuti violacei a causa dell'assalto di lui.
«Grazie», mormorò incrociando il suo viso.

«Bene, ma ti avverto...»
Elijah Non ebbe il tempo di finire la frase.

Il manrovescio che Isabel gli schiaffò sul viso lo lasciò interdetto per qualche secondo.
«Lasciami andare, bastardo!» gridò lei, in preda a una furia accecante. Lo odiava, dannazione, lo detestava così intensamente che avrebbe potuto ucciderlo alla prima occasione! Non lo sopportava e ancora meno sopportava di averlo addosso in una maniera così indecente.

Sebbene la natura l'avesse concepita innocua quanto una farfalla, era perfettamente in grado di provare disprezzo quanto una belva selvaggia. E addirittura, in questo caso, di comportarsi come tale!

Ma da lì a poco avrebbe capito che il suo disprezzo
contava meno di quanto pensasse.

Elijah la fissò con rabbia: i suoi occhi brillavano così intensamente da somigliare a due fari nell'oscurità. «Avevate promesso...» sibilò.

Isabel si sentì mancare il cuore. «Ho promesso tutto tranne che non vi avrei colpito!» rispose, mantenendo ferma la voce. Mollare non era una prerogativa. Non avrebbe certo potuto concedergli il lusso di trattarla come la più inutile delle bambole. Il suo onore valeva molto più che di un capriccio incosciente. Era l'unica cosa fra le poche cose che ancora possedeva a brillare di purezza.

Un tesoro prezioso e decisamente vano fra le mani di quel selvaggio.

Elijah inclinò il capo, studiandola come un predatore affamato: a questo punto non restava che fare una cosa.
Una cosa certamente spiacevole per lei ma incredibilmente vantaggiosa per lui. Si chinò nuovamente sulle sue labbra serrate, i pugni ferrei si chiusero attorno a quelli di lei che bruscamente le riportò sopra la testa. Isabel gemette, non seppe spiegare se per il dolore o la disperazione.
La sua presa si fece più stretta, il respiro le sfiorò le guance imporporate.

Finalmente decise.

Non l'avrebbe presa quella notte.
No certamente non avrebbe potuto.
Ma si sarebbe preso un pezzo di lei.
Avrebbe atteso famelico e in quell'agonia avrebbe sopportato di non averla, ma non senza un piccolo assaggio di ciò che lo attendeva. Rabbia e piacere si mischiarono come i più improbabili degli alleati, l'uno voleva ciò che l'altro bramava: il suo corpo e...vendetta!

Isabel tentò di divincolarsi con le poche forze rimaste: parevano scivolarle via tant'era forza con la quale Elijah gravava su di lei.
«Siete meschino! Vi detesto più di ogni altra cosa!» gridò, serrando i pugni imprigionanti.

«Povera fata, questo è un vero peccato...»
Lui le sfiorò la guancia con la punta del naso fino ad arrivare al lobo dell'orecchio. Era in fiamme, così come i lombi che bramavano le sue carni.
«Perché io vi desidero, Isabel» sussurrò.

Quell'ammissione le trafisse il petto come una lama di fuoco. Gocce salate macchiarono il cuscino contro il quale era bloccata.

La disperazione l'assalì.
Non aveva scampo.
L'avrebbe violata?
Non poteva!
Non poteva farlo!

«N-non farlo!» supplicò.
Silenzio.
Era troppi tardi.
Elijah affondò la testa fra l'incavo del suo collo iniziando a divorarlo con avidità. I suoi baci le scavarono la pelle con prepotenza, mentre con una mano si affrettava a muoversi con sicurezza lungo le curve sinuose e invitanti di lei.
Il membro nei suoi pantaloni pulsò violento, una presenza ingombrante quanto la foga di strapparle via quella dannata, inutile veste. Voleva affondarsi in lei, averla tutta per sé, esaudire ogni desiderio violento e selvaggio quanto la smania con la quale le stringeva le cosce. Non aveva mai assaggiato una fata, ma solo allora capì il perché di quella nomea. Il sapore che sprigionava era così dolce che non avrebbe saputo fermarsi.

«Ti voglio...» le ripetè con voce rauca, un lamento perpetuo e costante, violabile dalla sua singola volontà, ora inebriata dal sentore del suo profumo.
Un'aroma dolce e pungente, fiabesco proprio come lei.

Una preda agonizzante e terrorizzata.
Il cuore di Isabel batteva come un pazzo, il respiro le si smorzò come i fiocchi di neve all'esterno.
Freddo e caldo le si alterarono sulla pelle, una ricchezza violata dal più barbaro dei pirati.
«Lasciamo andare!» supplico fra le lacrime.
Silenzio.

Elijah sembrava una bestia selvatica tant'era la forza con cui si stringeva a lei. Una strana vampata le irradiò il corpo indolenzito, seguito da un fremito irruente che le sfiorò l'epidermide. Terrore e nausea la intrappolarono nello stesso modo in cui lo era lei. Il conato di vomito che tentava di reprimere non era sufficiente a contrastare la natura del suo corpo, un corpo illogico, che non provava ciò che sentiva.
Un fiotto di calore nel basso ventre la prese alla provvista.
Il suo respiro si fece irregolare, la sua vista appannata da un fuoco fatuo in mezzo a un bosco. Era qualcosa di inesplorato, un punto cieco che non aveva mai proclamato la sua esistenza, una sensazione quasi sconosciuta eppure vivida come un cuore pulsante. Una che non aveva mai sperimentata in ventiquattro anni di vita.

Degli spasmi febbricitanti la colpirono come scintille quando Elijah si stacco dal suo collo per morderle le labbra. Lo fece piano, succhiandole poco dopo. Era una presa morbida ma esigente, che la reclamava con potenza.
Un gemito fuggì dalle labbra di Isabel, ma più che di lussuria o godimento pareva quasi di tormento.
Perché in fondo lo era, agonizzante fino alle viscere!
Elijah si staccò da lei, guardandola: in quell'attimo fugace riuscì a scontrarsi con i suoi occhi color dell'oceano.
Due pozzi famelici che la divoravano con desiderio. Avrebbe voluto cavarglieli via, ma ebbe a malapena il tempo di protestare. Elijah le afferrò la mascella invadendole la bocca.

Fu un bacio irruente, le labbra di lui premevano sulle sue forti e calde. La stava divorando con disperazione, preda di un impulso troppo oscuro che non aveva niente a che fare con l'amore o la bontà. Lui la voleva e basta, dannazione, voleva possederla, come si possiede un oggetto prezioso, raro e pericoloso.

Quell'assalto ne era una chiara rivendicazione.

Voleva sentirla implorare, punirla per aver provato a impartirgli ordini non richiesti.
Avrebbe potuto andarsene e tornare l'indomani, lucido e nel pieno delle sue facoltà mentali, ma ormai era troppo tardi. Quella fata lo aveva imprigionato nel suo bosco colmo di luce. Una luce troppo accecante per una bestia abituata alle caverne più oscure. Isabel tentò di opporsi: ora che le sue mani erano libere provò ad allontanarlo per le spalle, a graffiargli la pelle sotto la camicia, a scalciare ancora e ancora. Selvaggia e disperata quanto il bacio che lentamente le consumava le forze. Ma era come voler buttare giù un muro, una muraglia calda e solida che imponeva il suo dominio.

Isabel boccheggiò in cerca d'aria, i suoi polmoni sembravano svuotati, la sua testa un vortice febbrile.
Elijah la baciava come se ne andasse della sua stessa vita, come se fosse incapace di trattenersi a quel punto. Si muoveva su di lei, la premeva contro il materasso, le accarezzava i capelli, le testava il corpo, era come se le sue mani fossero in preda a una smania incontrollabile.
I lineamenti contratti nella foga esaltarono il suo bisogno disperato, un esigenza furiosa che s'interruppe a respirare.
Elijah si staccò da lei, ansimando. L'ossigeno prese circolare fra loro permettendo a entrambi di studiarsi.

Quell'assalto aveva reso la sua fata ancora più eccitante sdraiata com'era: i capelli spettinati come dopo una corsa, le labbra tumide e orfane del calore sprigionato dal loro bacio, la pelle imporporata, gli occhi sgranati, luccicanti, gonfi e...disperati.
Aveva pianto?
Quando?
Battè le palpebre facendo spazio alla ragione.
Quella donna che era stata capace di offuscare la sua incrollabile razionalità.

Aveva ignorato la sua voce spezzata, il suo lamento, il suo rifiuto.
Ma per cosa?
A quale prezzo?

Confessare di essere stato più che un villano in quella faccenda, avrebbe comportato un ammissione di colpa.
E la colpa, in quanto tale, porta in un'unica direzione.
Al pentimento. E sebbene provasse del dispiacere per lei, di certo non era pentito. Anzi si sentiva già in balia di una nuova fame, di un rinnovato desiderio impaziente. Aveva gustato un piatto troppo appetitoso per accontentarsi di un solo assaggio.

Ma Isabel pareva non pensarla allo stesso modo.
Si sentiva stremata, sudata, spaesata. I suoi nervi ci misero più di un minuto a riprendere fiato. La sua veste brutalmente increspata le raggelò il sangue, l'umiliazione la pervase fin dentro le ossa. L'unica cosa a darle sollievo fu il fatto che fosse ancora intatta, così come la purezza fra le sue gambe. Elijah non le aveva fatto del male, non avrebbe mai potuto.
Con fatica si sollevò sui gomiti indolenziti, riacquistando mobilità.

Elijah la guardava immobile, ancora a cavalcioni. Il fuoco in lui bruciava imperterrito; riusciva persino a vederlo fra quelle pupille oscure e dominanti. Ma qualcosa era cambiato. Quel temperamento da tiranno aveva fatto spazio a uno più quieto e lungimirante, così come la sua postura in tensione. Il timore di un nuovo attacco la portò a indietreggiare con cautela; le sue gambe sgusciarono da sotto quelle di lui che nel frattempo non mosse un solo muscolo. La guardava e basta.

La sua ritirata finì al bordo del letto. Con sorpresa, notò che la porta era proprio a un passo dal baldacchino. La sua unica via di fuga, probabilmente chiusa a chiave. Malgrado le sue volontà, non avrebbe potuto raggiungerla. Un passo falso avrebbe scatenato nuovamente l'ira di quel dannato miserabile. E ciò sarebbe stato peggio di qualunque altro tipo di inflizione.

«Isabel...»
La sua voce rauca ruppe il silenzio opprimente nella stanza. Un brivido le serpeggiò lungo la schiena. Il bagliore sprigionato dai ceri rivelava la sua figura possente, ora in piedi difronte a lei. Isabel si tirò le ginocchia contro il petto, poi rimase immobile. Una preda di fronte al lupo cacciatore.

«Ti aspetto domani nel mio ufficio, Felicity verrà a svegliarti intorno alle otto. Non fare tardi» il tono con cui gravò quell'ordine la turbò nuovamente. Non gli rispose neanche e lui non aggiunse altro. Il modo insinuante in cui la guardava bastava a rendere chiari i suoi intenti.
Aggirò il baldacchino fino a raggiungere la porta.
La guardò ancora un istante, poi l'aprì.

I suoi occhi spiccavano di un blu notte intenso, la mascella in tensione celava tribolazioni che parevano consumarlo: c'era qualcosa di irraggiungibile in lui in. Era lì con il corpo, ma non con la mente. Quella sembrava vagare in un posto lontano, distante persino da lei. La sua figura scomparve oltre la porta che chiuse con un tonfo violento.
Isabel sobbalzò stringendo le gambe con vigore.

Sola, confusa e oltremodo disperata.
Non aveva scampo, era in trappola!

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