Capitolo 3

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CROSS Street non era mai stata una strada molto trafficata. Si snodava lungo un percorso residenziale e ospitava parecchie famiglie più o meno numerose che dimoravano in abitazioni dai caratteristici mattoncini rossi e gli infissi bianchi. Avevo percorso sempre quella strada con mio padre, da piccola. Amava recarsi al Faith Cristian Center, si fermava spesso a scambiare opinioni con i pastori di quella comunità e condivideva molti dei loro insegnamenti. La maggior parte delle volte, durante i loro lunghi confronti, mi recavo sulle rive del lago sul retro dell'edificio. Lì incontrai una delle personalità più libere e genuine che avrei conosciuto nella mia vita. Si chiamava Paul, aveva sì e no quattro anni più di me. Stranamente, pur essendo stata molto giovane di età, ho chiari ricordi del nostro primo incontro, a cui ne seguirono molti altri, alcuni dei quali significativi e profondamente rilevanti per tutto ciò che mi accadde in seguito. Avvenne durante una giornata primaverile, mio padre era intento nel descrivere ai pastori la sua propria idea di carità e devozione, io mi ero avvicinata alla banchina dello specchio d'acqua e ne fendevo la superficie divertendomi a seguire con lo sguardo le piccole onde che creava il giunco che avevo in mano. Seguendo le increspature, notai un piccolo oggetto rosso e tondeggiante che galleggiava a pelo d'acqua e ne trovai l'appiglio in una sottile canna flessibile, trattenuta in mano da un ragazzino dalla pelle scura, il quale per il vestiario leggero e scanzonato sembrava uscito direttamente dalla penna di Mark Twain. Rimanemmo a tentare la pesca per tutto il pomeriggio, scambiandoci saltuariamente qualche botta e risposta casuale, giusto per capire l'uno di che pasta fosse fatta l'altra. Paul stava frequentando il terzo anno di scuola, anche se sembrava non interessargli molto delle competenze in varie materie che gli insegnanti tentavano di far apprendere: pensava che fosse comunque sufficiente saper leggere, scrivere e fare di conto; tutto il resto aveva del superfluo. A lui interessava fondamentalmente passare le giornate immerso nella natura, praticando attività contadine o domestiche, pescando o intrecciando steli di giunchi a creare ampi cappelli che si divertiva a vendere a lato del laghetto nei giorni di festa. In lui vedevo un soffio di libertà come in rari casi i ragazzi sanno mantenere, lo ammiravo e speravo in cuor mio che un po' della sua indipendenza arrivasse anche a me, che anche io fossi in grado di carpirla e farla mia. Fu un grandissimo sostegno negli anni a venire, fino a che non lasciò quel nostro posto incantato, condotto in un cammino senza ritorno da un infido compagno, a diciannove anni.

«Non sarò ancora qui a lungo, Leah. Riesci a capirlo, vero?»

mi disse un pomeriggio di primavera.

«Sì. Ma...»

«Ma?»

«Dopo come farò, Paul?» Lo fissai negli occhi con aria supplichevole: volevo una risposta credibile.

Paul sollevò il volto, cercando le parole nel vento: «Torna sempre qui, in questo posto. Tornaci ogni volta che avrai bisogno di me. Gli anziani della tribù alla quale appartiene la mia famiglia mi hanno raccontato che si resta sempre nei posti dove abbiamo vissuto con il cuore, dicono che nel vento c'è la voce di chi non si ha più con noi e che quel vento spiri sempre dallo stesso luogo. Quando mi cercherai, mi troverai sempre qui, Leah.» Mi baciò dolcemente una guancia, con un tocco attraverso il quale mi palesò tutto ciò che significavo per lui dal primo giorno ma che mai aveva avuto il coraggio di dirmi. Piansi, per il tempo perduto e per quello che mai sarebbe stato, piansi per lui che se ne andava lentamente e per me che tardi avevo compreso.

Tornai molte volte in quel posto. Ogni volta, come quel giorno, era il vento che mi chiamava. Me ne restai lì, immobile, a lasciarmi accarezzare dalla brezza, ricreando nella mente la sua voce, cercando di convincermi di sentirla nelle folate e assorbendo da esse una immensa tranquillità: era proprio ciò di cui avevo bisogno, in quel momento. Questo era l'unico posto che conservavo per me soltanto: qui non avevo mai portato nemmeno Mary, quasi come fosse stato una sorta di santuario e propriamente con l'intenzione di mantenerlo tale. Trovai finalmente un senso di pace e serenità che mi permise di ragionare con più lucidità e spoglia dei timori dei giorni passati. Dovevo trovare il coraggio di affrontare ciò che stava accadendo, dovevo capire cosa mi portasse a intrecciare sempre i nostri cammini, cosa mi spingesse sempre nella sua direzione e lo dovevo fare nel più breve tempo possibile, cavalcando l'onda di questa nuova risolutezza che era nata in me, prima che si affievolisse e si perdesse del tutto. Ognuno è libero di intraprendere qualsiasi viaggio in direzione di una meta che non di rado lo atterrisce ma quando si è pronti a praticare il più tortuoso tragitto, si è capaci di accettare qualunque destinazione.

***

Bussai con insistenza al portone verde in legno massiccio. Non potei restare ferma in attesa che mi venisse concesso di entrare e spostai il peso da un piede all'altro con le mani nelle tasche posteriori dei jeans. Ero talmente tesa da non aver indossato il cappotto e iniziai a provare una spiacevole sensazione avvolgermi le spalle. Udii rumori soffocati provenire dall'interno e pochi istanti dopo la porta si aprì.

«Non ti aspettavo. Qualcosa non va?» Chiese Mary sorpresa.

«Posso entrare? Sto congelando.»

«Oh sì, certo. Scusami.» Mi fece cenno di oltrepassare il portone e lo richiuse alle mie spalle. «Vieni, andiamo in cucina.»

Quando iniziai a frequentare Mary, cercai di immaginarmi come potesse essere casa sua e ne rimasi veramente stupita non appena mi accorsi che tutto era, tranne ciò che mi aspettavo. L'ambiente era moderno, accogliente, dai toni chiari color sabbia e avorio. Ampie finestre e intonaci candidi allargavano lo sguardo e davano l'impressione di espandere gli spazi. Qua e là si incontrava un particolare etnico: una maschera, una statuetta in ebano, un piccolo quadro di sapore africano donavano alle stanze un'atmosfera attraente e rasserenante. I cimeli, che sua madre durante i lunghi viaggi da antropologa aveva collezionato, adornavano ogni locale e raccontavano storie dal Kenya, dalla Somalia, dal Sudamerica, dall'India, dal Nepal e dal Messico, persino l'aria che si respirava in quella casa serbava note di sandalo, incenso e ambra, la tipica composizione del "thiouraye", il profumo caratteristico che trascinava l'olfatto per le strade del Senegal.

«Ho deciso, devo tentare, non posso più aspettare.» Iniziai, con decisione.

«Scusami, ma non ti seguo.»

«Devo decidermi, una buona volta, ad affrontare quel che sta accadendo.»

«Intendi dire che ti sei convinta ad affrontare Adam?»

Annuii. «Solo che mi manca un pretesto. Voglio dire, non ci siamo più incontrati, di persona, e non posso certo andare da lui e venirmene fuori con "bella giornata oggi, mi spieghi cosa succede?" Non mi sembra appropriato.»

«Credo tu abbia ragione. Lasciami pensare.» Fissò un punto imprecisato di fronte a lei, aggrottò le sopracciglia, poi d'un tratto la sua espressione si distese: «So che Sandy darà una festa, questo sabato, a casa sua: i suoi non ci sono. Ha persino dato un nome alla serata: "festa d'autunno" l'ha chiamata. Conoscendo gli esiti che hanno avuto altre occasioni del genere, la definirei più propriamente "festa del mojito". Se non sbaglio, siete amiche.»

«Siamo, Mary, anche tu lo sei.»

«Frena tesoro» alzò le mani in segno di resa «io e riccioli d'oro non abbiamo niente in comune.»

«Non mi lascerai andare da sola!»

«Ovviamente...no. Chissà quanti e quali guai combineresti senza la tua coscienza.»

«Come facciamo con Adam?»

«Riuscirò a fargli avere un invito. Tu preoccupati piuttosto di capire cosa vuoi sapere da lui.»

Sorrisi soddisfatta della sicura complicità e immediatamente mi assalì l'apprensione. Ero solita crearmi interi copioni mentali adatti a ogni genere di situazione e mi spingevo tutte le volte ad analizzare ogni singolo scenario con attenzione, vagliando le possibili pieghe che un dialogo avrebbe potuto prendere. Purtroppo, come ovvio, quando poi mi trovavo nelle relative circostanze, erano rare le volte in cui riuscivo ad attenermi scrupolosamente a ciò che avevo immaginato e quasi sempre gli eventi prendevano pieghe del tutto inaspettate. Questa volta non voglio pensare a come andrà, era giusto che tutto andasse come doveva e non come solitamente tentavo di far andare.

«Hai avuto altre notizie su di lui? Qualcosa che possa aiutarmi a capire?» Le chiesi.

«Purtroppo, no. Ho domandato un po' in giro, ho qualche conoscenza che frequenta i suoi corsi, ma nessuno ha saputo dirmi più di quanto non sappia già. Sembra proprio che, oltre a università e casa sua, non abbia nessun genere di interesse. Non lo hanno mai visto a un cinema, a un fast food, nemmeno da Papa Johns', pare che si volatilizzi appena dopo le lezioni, o più probabilmente si rinchiuda in casa. Comunque...» bip bip, la suoneria del suo cellulare ci interruppe e dopo aver brevemente letto un messaggio arrivatole, concluse: «ecco, bene! Abbiamo carta bianca per poter invitare chiunque vogliamo.» La osservai con aria preoccupata. «Tranquilla, tesoro, glielo porterò io domani sera, l'invito.» Come sempre seppe quali pensieri mi occupavano la mente e trovò benissimo il modo migliore per calmare i miei nervi: non avrei proprio saputo come fare, senza di lei.

Lasciai casa sua dopo una tazza fumante di cioccolata calda arricchita da un generoso ciuffo di panna montata. Come ogni volta, la quasi-teppista aveva saputo tirare fuori il meglio di me e me ne tornai a casa notevolmente alleggerita dell'ansia precedente e con una scorta di buon umore che mi sarebbe potuta bastare per le prossime settimane. Speravo che sarebbe riuscita a far avere l'invito a Adam, o forse no, avrei voluto che lui accettasse ma c'era una enorme parte di me che, invece, desiderava che avesse opposto un netto rifiuto; oramai il dado era tratto e ciò che doveva accadere, sarebbe accaduto.

Mary osservava attentamente l'invito che aveva creato, su imitazione degli altri che Sandy aveva già spedito a buona parte dell'intera confraternita universitaria. L'abitazione della ragazza era di ampia metratura e non le sarebbe stato difficile accogliere un centinaio di persone. Scosse la testa, come si fa a volersi circondare da così tante persone? Ma non era affar suo, in fondo. Tra le righe scritte in inchiostro blu, campeggiava in lettere stampate il nome: ADAM GRADY. Quanto la eccitava ficcarsi in faccende altrui, soprattutto se si trattava di Leah: nutriva un affetto spropositato per quegli occhi profondi e quel cuore enorme di cui erano degne pochissime persone. Per fortuna, Leah non aveva mai dovuto affrontare situazioni e relazioni autodistruttive e ciò era dovuto in gran parte a quanto le fosse stata accanto negli anni e ai preziosi consigli che aveva saputo darle, di questo, Mary, ne era certa. Sentì che anche questa volta la sua anima avrebbe avuto bisogno di lei: c'era dell'oscurità, un abisso nel quale non riusciva a intravedere i possibili sviluppi, non si sentiva a suo agio e cercò risposte nella sua solita lettura.

Si sedette a un tavolo da fumo, quadrato, la superficie era di vetro di una leggera tonalità turchina. Amava quel tavolo: lo acquistò anni addietro, da un rigattiere che le fece conoscere e amare tale arte. Imparò velocemente, accettando i consigli di una figura sfuggente che, durante le occasioni di festività religiose o paesane, spesso ritrovava sotto la solita tenda purpurea nell'area adibita alle celebrazioni; era rimasta ammaliata da quella donna, tanto da volerne carpire e assimilare i segreti e abbandonando qualsiasi impulso allo scetticismo. Dopo mesi, Zendaya le donò il suo primo mazzo, nuovissimo e incorrotto, e da lì iniziò un nuovo percorso spirituale che la coinvolse come mai niente prima di allora.

Quel giorno, come il primo, Mary accarezzò le lamine lucidissime e sfiorò con delicatezza il bordo sottile, ricreando il legame profondo che avrebbe permesso la lettura. Concentrandosi, riaffiorarono nella sua mente il volto, le movenze e la voce della sua anima così nitide, precise e definite da non poter quasi credere in una proiezione del suo subconscio. Lentamente, appoggiò sulla superficie liscia una serie di cinque carte, le cui lamine in vista riportavano motivi barocchi dorati su sfondo blu a occhio nudo identici, in realtà contraddistinti da minuscoli dettagli figli della decorazione manuale. Inspirò profondamente e rilasciando il respiro scoprì uno a uno, a occhi chiusi, tutti i tarocchi: il diavolo, la morte rovesciata, la papessa, l'appeso e la giustizia. La ragazza continuò a scorrere lo sguardo da una carta all'altra con insistenza e incredulità. Qualcuno, con un eccesso di forza la porterà verso il male, con l'aiuto di un altro a lei caro e un sacrificio, tutto porterà a una rinascita. Credette sinceramente, questa volta, di aver frainteso le carte, doveva averlo fatto, non c'era altra spiegazione: per la prima volta sperò che la sua interpretazione avesse fallito, non aveva altro da fare che mettersi in contatto con Zendaya. Erano anni che non la rintracciava, non sapeva nemmeno dove fosse e se, soprattutto, ancora esistesse. L'avrebbe cercata, non poteva fare in altri modi: la lettura era decisamente preoccupante, l'imperatore e il diavolo, insieme, erano una coppia tutt'altro che fausta.

Dopo l'esito della lettura, Mary perse la convinzione che l'invito alla festa di Adam fosse una buona decisione, tuttavia combattuta tra questo e l'attaccamento a Leah decise di recarsi a villa Grady per consegnare quanto doveva. Non le andava di farsela a piedi, non con la soggezione che aveva adesso. In una manciata di minuti, si ritrovò di fronte alla cancellata. Scese dalla vettura, allungò la mano per premere il tasto del citofono; senza che ancora l'avesse sfiorato, la pesante inferriata si aprì e la invitò a entrare. Notò immediatamente che, oltre alla sportiva nera, il cortile accoglieva anche un piccolo fuoristrada dalla verniciatura opaca e le linee moderne, celato agli occhi dalla vegetazione che seguiva il viale. Tre ampi gradini, alla cui sommità primeggiavano due aquile ad ali spiegate, conducevano al portone ebanino d'ingresso. Mary si stava girando tra le mani il biglietto ed esitò, visibilmente turbata. Senza farsi attendere, il portone si aprì e la sorpresa le si palesò sul volto: chi aveva aperto la porta era un completo sconosciuto sui trentacinque anni, dai tratti orientali, capelli corvini e fisico prestante, protetto da un doppiopetto di panno nero di buona fattura. Le posò addosso le iridi verdi in uno sguardo glaciale e, notando l'imbarazzo dell'interlocutrice, ruppe il silenzio:

«Non preoccuparti, non hai sbagliato indirizzo e... sì, Adam abita qui. So che lo stai cercando.»

Sul volto di Mary si dipinse stupore misto a timore e annuì quasi impercettibilmente. «Ma, come...?» Incredibilmente, aveva incontrato qualcuno capace di lasciarla senza parole.

«No, non leggo nel pensiero, non sono un negromante. Ho solamente intuito le risposte da darti da constatazioni più che evidenti. Cosa tieni in mano?»

Mary posò lo sguardo sul grembo. L'invito era celato sotto i guanti, quasi impossibile vederlo chiaramente. Confusa, rispose al giovane riprendendosi: «Oh, sì, che maleducata. Come ha già detto lei, aspettavo qualcun altro ad aprirmi la porta, mi perdoni.»

«Dammi pure del tu, Mary.» Quando gli aveva detto come si chiamava?

«Certo, scusami. Comunque, ho un invito per una festa d'autunno che si terrà questo sabato dall'altra parte del quartiere e vorrei sapere se Adam...»

«Verremo volentieri, non dubitare.» Riprese con voce profonda, senza esitazione; lo sguardo si illuminò e ancora di più contrastò con le altre tonalità della figura. Mary in quel momento era oltre il confuso, avrebbe voluto non avere dubbi su ciò che aveva appena udito e si decise a chiedere chiarimenti senza peraltro avere il tempo di esporsi. «Già, che inciviltà, mi chiamo Malek, sono il suo...»

«Cugino. È mio cugino.» Proruppe Adam raggiungendo i ragazzi sulla soglia dell'abitazione. Finalmente, Mary aveva dinanzi qualcuno di vagamente familiare e spostò lo sguardo su quel volto incorniciato da capelli corti e scompigliati, dai lineamenti gentili e profondi occhi azzurri. «Ti porgo le mie scuse. È arrivato in città da poco, non è abituato a ricevere visite. Comunque, accettiamo l'invito, sabato verremo.»

«Splendido.» L'imbarazzo di Mary salì a livelli storici.

«Allora a sabato.»

«Ti accompagno?» chiese Malek indicando il cancello.

A Mary, l'idea che quello sconosciuto anche solamente le si avvicinasse le provocò brividi, di conseguenza si congedò velocemente e raggiunse con passi frettolosi la propria vettura. Difficilmente qualcuno le aveva mai infuso sensazioni così sgradevoli: se ne era sentita soggiogata, quasi sopraffatta, eppure non un gesto dell'uomo aveva mostrato intenzione di predominio. Si era sentita come una preda, costretta tra l'aguzzino e un vicolo cieco; per pochi secondi, le era mancato il fiato e si era sentita abbandonata allo smarrimento. Se non fosse sopraggiunto Adam, probabilmente sarebbe stata capace solamente di restarsene impietrita, davanti a quell'individuo. Le tornarono in mente i tarocchi e l'interpretazione che ne aveva dato. Leah non sapeva della sua abilità; a dire il vero, Mary non era certa che l'amica l'avrebbe accettata senza scetticismo e ciò con tutta probabilità la avrebbe ferita nel suo intimo. Nessuno sapeva, nessuno aveva mai sfiorato il mazzo, oltre a lei, e forse nessuno mai l'avrebbe mai visto. Fece ritorno a casa, controllando sovente lo specchietto retrovisore e valicandone la soglia con un orrendo presentimento che sempre più si stava mostrando ai suoi occhi.

"Missione compiuta, anima mia." Scrisse il messaggio rapidamente, senza la sua consueta discesa in particolari e lo inviò. Appoggiò distrattamente il cellulare sulla prima masserizia che le si presentò, accanto a una testa di antilope in giada e aprì una vecchia rubrica che trovò scartabellando nel cassetto, alla lettera Z. Spero che mi risponda altrimenti impiegherò una vita per trovarla e, sinceramente, non saprei nemmeno da che parte iniziare.

***

Il sabato sera era arrivato in fretta, troppa. Non ero pronta per affrontare tutte le domande che avevo da fare e soprattutto per sostenerne le risposte. Dovevo sapere, non potevo attendere oltre e rimanere ancora nel dubbio. Mi guardai allo specchio, sistemai la frangia dividendola sui due lati del volto e appuntai i capelli nella mia usuale coda di cavallo: li legavo ogni volta che dovevo affrontare un qualsiasi impegno. Indossai un abito lungo in lurex blu, con un piccolo spacco appena sopra il ginocchio destro e una scollatura a v non eccessiva, come piacciono a me. Fuori non faceva caldo, perciò indossai un corto copri spalle di lapin bianco e décolleté a tacco alto, di regola per queste, benché rare, occasioni. Appuntai ai lobi i miei orecchini preferiti di zaffiri e zirconi, acquistati durante un viaggio, appena in tempo per rendermi conto dell'arrivo dell'auto di Mary, annunciato con due colpi di clacson. La sera stava scendendo, il sole era quasi completamente calato all'orizzonte e qualche stella stava iniziando a fare capolino nelle aree meno illuminate.

Salii in auto e avvertii immediatamente una certa tensione all'interno dell'abitacolo.

«Qualcosa non va, Mary?»

«No, tranquilla. Sono solo preoccupata per una certa faccenda: spero che si risolva presto. Pensiamo a divertirci, stasera.» Spezzò l'inquietudine con il suo solito, scanzonato sorriso. Non me la bevvi, avrebbe dovuto parlarmene: ebbi quasi l'impressione di far parte di questa...faccenda. Non sapevo come porre la domanda e riuscii a malapena a pronunciare un sommesso: «Adam?»

«Verrà.»

«Sul serio?» Le chiesi incredula.

«Già, ha accettato immediatamente.» Mi rispose, lo sguardo pieno di entusiasmo. Si spostò verso di me, piantandomi i grandi occhi fissi nei miei. «Anima mia, se ti capita qualcosa o hai bisogno di aiuto, conta sempre su di me, mi raccomando. Io sarò sempre al tuo fianco.» La serietà con cui pronunciò queste parole mi commosse e impensierì allo stesso tempo. Annuii. La radio stava passando le nostre canzoni preferite, mentre raggiungemmo Pepperhill.

I genitori di Sandy acquistarono la proprietà in Twins Pound dodici anni prima e vi si trasferirono l'anno seguente, dall'Illinois. L'abitazione si dislocava tutta a un piano e sul retro era stata costruita nel tempo una piscina dalla forma stondata che, dato il periodo, era protetta dalla copertura invernale. Dalla dimora giungevano il vociare delle persone e il sottofondo musicale per il momento ancora discretamente sostenibile.

Lasciammo l'automobile in un vicino spiazzo, ricavato per l'occasione nel campo confinante, oramai occupato per una buona metà. Chiesi gentilmente a Mary di posteggiare in modo da rendere agile l'uscita: detestavo non poter andarmene quando volessi.

Si presentò ad aprirci alla porta una ragazza bionda dai grandi occhi celesti e i riccioli ribelli appuntati in due singolari ciuffi sulla sommità del capo, la quale ci salutò con un cantilenante: «Ciao bellezze!! Felicissima che siate venute, fate come foste a casa vostra, tanto poi ci pensa Ruby!» Per chi lo avesse ignorato, Ruby era quella santa donna che sopportava Sandy e suo fratello Felix ogni giorno dal momento in cui avevano abitato quella casa e che si occupava di rassettare e riordinare l'immenso caos che ogni mattina le lasciavano genitori e figli. Entrambi i genitori lavoravano in città e probabilmente era per questo motivo che l'ambito domestico fosse talmente trascurato da doverlo delegare quotidianamente a un'altra persona. Oltrepassammo la porta e a una rapida occhiata notammo con facilità che alcuni amici tredicenni del fratello si erano infiltrati alla festa e ammiccavano le universitarie a bocca spalancata e sguardo sognante. Uno di loro, magrissimo e vistosamente affetto da acne giovanile, si volse verso di me umettandosi le labbra con la lingua e offrendomi un'occhiata che poco avrebbe lasciato all'immaginazione. Santo cielo è un bambino. Distolsi lo sguardo, seccata.

La casa straripava di persone. Alcuni si erano soffermati a parlare in piccoli gruppi in fondo alla scalinata, due ragazze ne scesero, altri bevevano birra seduti sul divano, un gruppo sorseggiava drink vicino alle casse acustiche dove un piacente giovanotto dai capelli lunghi oltre le spalle stava mixando chill-out. Mary si dimostrò da subito integrata: salutò alcuni compagni di corso e si avvicinò a me sussurrandomi nomi e brevi informazioni riguardanti diverse persone. Sandy girovagava tra gli invitati alla stregua di una molla impazzita, non badando alla noncuranza della maggior parte di loro, i quali avevano accettato l'invito probabilmente senza nemmeno conoscere la padrona di casa, solamente per beneficiare del facile accesso agli alcolici o per abbordare una consenziente compagnia occasionale; a ogni modo, la situazione sarebbe degenerata rapidamente. Finalmente trovammo un angolo della casa libero da ragazze ammiccanti e giovani in preda ai fumi dell'alcol, una zona confortevole dove mi potessi riprendere.

«Ti spiace se ti abbandono qui un momento?» mi chiese Mary «Vado a salutare un'amica.»

«Certo, non preoccuparti, non fuggirò.»

Guardai la teppista andarsene ancheggiando e seguii l'ondeggiare dell'orlo della minigonna nera che si insinuava tra gli invitati finché non scomparve tra la folla. A lato dell'isola felice che avevamo rintracciato, si apriva un'ampia porta a vetri scorrevole, la quale dava libero accesso al porticato retrostante attraverso il quale si raggiungeva la piscina coperta. Cercai un po' d'aria fresca e trovai sollievo dalla musica assordante sotto l'ampia veranda alla quale era stata smontata la copertura per effettuarne la manutenzione invernale. Stavo sorseggiando un Aperol spritz arrangiato con ciò che c'era sul buffet e sollevai gli occhi a incontrare le stelle: mi piaceva ricostruire le costellazioni che riconoscevo.

Qualcosa mi scostò i capelli sul collo e leggerissimo sfiorò la schiena provocandomi un piacevole brivido. Al contempo, una profonda voce maschile mi raggelò il sangue:

«Così, sei tu la famosa Leah.» Sentii il respiro solleticarmi l'orecchio sinistro. Era vicinissimo.

Mi voltai repentinamente, rovesciando il mio drink a terra. Sconcertata, lasciai cadere anche il bicchiere per poter appoggiare la mano ed evitare di cadere, completamente disorientata. Chi sei? Come sai il mio nome? Davanti a me era comparso dal nulla un uomo alto, dalla figura atletica, vestito completamente in nero in un doppiopetto di panno stranamente familiare, come lo erano i profondi occhi corvini, cupi, intensi, infiniti. Mettevano una soggezione agghiacciante e mi impedivano di muovermi. Il brusio della folla dentro casa sembrò frastornarmi la testa, sentii ogni singola voce come fosse direttamente dietro di me ma il terrore mi stava immobilizzando. L'uomo si avvicinò, infondendomi un'orrenda sensazione di minaccia che mi dette la nausea. L'alone di una luce lontana illuminò il resto del volto, scoprendo una bellezza sconvolgente nei tratti orientali.

«Finalmente ho l'occasione di poterti sentire da vicino e quanto mi è stato detto di te corrisponde a esatta verità.» Sulle sue labbra carnose comparve un ghigno di appagamento. Quanto avrei voluto potermi avvicinare e sentire il calore della sua pelle. Cosa diavolo mi viene in mente? Lentamente, lo sconosciuto sollevò una mano e accarezzò la mia guancia col il dorso delle dita, sfiorando infine il collo. Avvertii uno strano bruciore, non compresi di quale natura. «Lo sento che mi vuoi.» Un tremito mi attraversò il ventre e riuscii nettamente a percepire un'eccitazione crescente, il battito cardiaco stava aumentando e il respiro si faceva affannoso, la testa girava vorticosamente e stentavo a mantenermi in piedi, frenando con tutta me stessa una incredibile voglia di saggiare le sue labbra sensuali. Ebbi un intimo desiderio di intrecciare le dita tra i suoi capelli e sentire il suo abbraccio che mi cingesse la vita. Che mi prende? Volli gridare ma non ne ero capace. Devo allontanarmi! Avrei voluto correre via ma non potevo muovermi, non ero in grado di distogliere i miei occhi dai suoi. Restai a bocca aperta, in attesa di qualcuno che mi offrisse la salvezza.

«Cosa diavolo stai facendo! Allontanati da lei!»

Lo sconosciuto interruppe il nostro contatto, il suo sguardo si invelenì e il sorriso scomparve dalle labbra. Si voltò e incrociò lo sguardo di Adam; Mary era assieme a lui, probabilmente era andata a cercarlo per portarlo da me. Non senza difficoltà ripresi lentamente il controllo di me, risvegliando i sensi da quel temporaneo torpore. Il mio interlocutore si rivolse a lui sollevando le mani a guisa di resa: «Stai calmo, Adam. Stavamo solo, come dire, facendo conoscenza.»

«Vattene, Malek. Immediatamente.»

Osservai la scena senza aver la benché minima idea di cosa fosse appena accaduto. Alle spalle di Adam, Mary aveva la mia stessa espressione smarrita. Lo sconosciuto ci abbandonò senza distogliere la vista dal ragazzo e Mary mi raggiunse correndo.

«Dio santo Leah, stai bene? Sei ferita!»

Immediatamente mi venne spontaneo di ripercorrere la pelle sfiorata da Malek e osservai le mie dita arrossate dal sangue fuoruscito. «No... sto bene. Io, non saprei, non capisco.» Spostai lo sguardo sul volto di Adam. Mary, compresa la situazione, si allontanò quanto bastava per riuscire comunque a vedermi.

«Tutto a posto, Leah?»

«Più o meno. Chi è Malek? Chi siete voi?» La domanda mi sorse di una spontaneità fanciullesca.

«È complicato da spiegare. Sono immensamente dispiaciuto per ciò che ti è capitato. Non avrei mai voluto ma purtroppo ciò esula dalla mia piena volontà.»

«Cosa vuoi dire?» Avrei voluto toccarlo, sfiorarlo ancora una volta. Avrà intuito cosa mi stesse passando per la testa poco tempo fa? Chissà cosa penserebbe di me. Pensai con imbarazzo.

«Non...non posso, Leah. Vorrei tanto, ma non posso.»

«Non puoi fare cosa, Adam? Insomma, ci scontriamo, provo sensazioni stranissime e mi segui dappertutto. Io ho bisogno di risposte!» Avevo colpito nel segno: il giovane rimase interdetto, quindi proseguii: «Grace Street Park e il Railroad Museum ti dicono niente?» Iniziai ad alzare il tono della voce, concitata.

Adam aggrottò le sopracciglia con fare interrogativo: «Aspetta, Leah. Ammetto che poco tempo dopo il nostro incontro, venni a casa tua. Volevo parlarti, avrei voluto che tu capissi determinate cose di me, ma alla fine nemmeno bussai alla porta: non avresti capito. Ma non ti ho mai seguita negli altri due luoghi, di cosa stai parlando?»

«Tu non...» Ero veramente turbata: le sue risposte mi avevano completamente spiazzato. Dunque, non mi ero sbagliata, c'era veramente qualcuno quella sera. Ero andata veramente vicina alla possibilità di poter aver un confronto con lui e mi era sfuggita, non avevo seguito la mia intuizione. Ma il fatto che non fosse stato Adam a seguirmi le altre volte, che non fosse stato lui che avevo scorto fuori dal museo, mi spiazzò totalmente. Ne ero quasi certa.

«È importante, Leah, lo hai visto? Sapresti riconoscere chi ti seguiva?»

«Non credo» risposi iniziando a tremare «era troppo lontano. Ma poi, dimmi, a te cosa interessa?» Ebbi un infinito bisogno di sentirmi dire che non gli ero del tutto indifferente; c'era un legame, tra noi, talmente vago e sottile che un soffio avrebbe potuto spazzarlo via e, inspiegabilmente, non volevo che accadesse.

«Non qui. Non ora, Leah.»

«Dimmi almeno che non sto diventando pazza. Dimmi che le voci che sento non sono follia, è come se fossero legate a te!» Dalla mia voce trasudava panico. Non potevo andarmene senza una motivazione a questo.

«Che tipo di voci stai sentendo?»

«Sussurri.» Bisbigliai.

Il ragazzo mutò improvvisamente espressione, dalla sorpresa adesso mostrava timore, indietreggiò anche se non avrei voluto. «Forse è già troppo tardi,» gli occhi si velarono di lacrime

«stammi lontano Leah, te ne prego.» Pronunciò con voce rotta, allontanandosi da me e portandomi via in questo modo un pezzo di cuore. Mi sentii trafitta, ferita, ero a un passo da riuscire non solo a dipanare i miei dubbi ma anche dal rendere tangibile un desiderio inspiegabile.

Venni investita improvvisamente da un turbine. Jacob mi aveva raggiunto, probabilmente di voce in voce già era volata la notizia di cosa fosse appena accaduto. Mi afferrò le spalle, si piazzò dinanzi a me, incurante della mia volontà che si annientò nello stesso momento in cui, in una frazione di secondo, Adam si era allontanato da me senza lasciarmi il tempo di avvedermene. Dal nulla era arrivato e nel nulla se ne era andato.

Jacob mi stava tempestando di domande alle quali non prestavo alcuna attenzione. Dopo secondi di completo smarrimento, mi rivolsi finalmente a lui: «Tranquillo, Jacob, sto bene. Non è successo niente.»

«Cosa dici? Sei ferita, ti sei vista? Dobbiamo andare a farti medicare.»

«No, voglio andare a casa. È solo un graffio, devo essermi ferita col bordo del bicchiere, quando mi è caduto.» Mentii.

«Vi accompagno io, torneremo domani per l'auto di Mary.»

Mi trascinò via, offrii una blanda resistenza nella speranza di intravedere nuovamente la figura che aveva inevitabilmente scatenato in me qualcosa di indescrivibile. Ancora non avevo le mie risposte e quelle avute non avevano fatto che acuire la mia sete di verità. C'era qualcosa che ci legava, su cui Adam non voleva aprirsi. C'era qualcosa che mi portava irrimediabilmente ad avvicinarmi sempre più a lui, qualcosa che mi attraeva in maniera inverosimile e non si trattava solamente di un piacere fisico, andava oltre. C'era qualcosa che Mary mi stava nascondendo, ero finalmente giunta a scorgere quell'angolo buio della sua anima al quale a nessuno aveva mai permesso l'accesso.

Il mio viaggio era iniziato. Non importa dove mi avrebbe portato, avrei percorso le sue tappe, una dopo l'altra.

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