Capitolo 1 - Harness e minigonna

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Buon sabato meravigliose persone che leggete curiose le storie qui postate e commentate! Sì perchè lo sapete che aspettiamo i vostri commenti, vero? Qualcun* di voi si dirà "aspettiamo"? Ma come? Ebbene sì, mie gioie, se vi siete perse la novità da oggi questo è un profilo condiviso, dove verranno postati i romanzi di diverse autrici. Felici? Così potete leggere di più!
Ecco qui che inauguriamo la condivisione con una storia stuzzicante di quelle che piacciono a voi. Voglio sapere cosa ne pensate, o assaggerete la mia frusta!🤣
Buona lettura.
Baci.
Noy

«E quel frocetto lì sarebbe il Padrone di casa?»

Nell'ingresso scese un silenzio gelato, decine di teste si mossero e puntarono i loro sguardi turbati su Dom S. Un sorrisino malevolo gli fece sollevare un angolo delle labbra. C'era da divertirsi.

S. avanzò sugli altissimi tacchi a spillo, sculettando come se fosse sul catwalk, al passo con la musica remixata dei Doors, Touch me, che usciva dalle casse, le persone si spostarono come onde del mare per farlo passare, il dannato perizoma di pizzo gli si arrampicò su per le chiappe, le calze a rete autoreggenti gli pungevano le cosce e volevano scivolare giù. Proprio in fondo al corridoio umano stava il bel tipo che aveva osato dargli quell'appellativo. Il tacco dodici, unito al suo metro e ottantatré, lo faceva svettare sopra le teste della maggioranza dei presenti, che attendevano con il fiato sospeso.

Come lo avrebbe punito?

S. poteva leggere la domanda inespressa sui loro volti, man mano che si avvicinava al bel tipo. Un ragazzo sui vent'anni, capelli corti, castani, viso regolare e piercing al naso. S. si fermò a meno di un metro da lui, ogni traccia di ilarità gli era scomparsa dalle labbra. La voce del Padrone di casa era calma, controllata, paziente. «Parlavi con me?» Infilò i pollici sotto le cinghie dell'harness sul petto, flettendo i muscoli delle braccia e facendo risaltare il tatuaggio dell'orologio spezzato in stile steampunk che scendeva dalla spalla sul bicipite fino all'avambraccio.

Il Bel Tipo aveva l'espressione stranita, il ghigno era stato sostituito da un sorriso ansioso. Non aveva la più pallida idea del casino in cui si era cacciato. «Io... sì», il Bel Tipo drizzò le spalle e sporse il petto all'infuori, come un galletto, «non ho mai visto un dominante in minigonna e tacchi a spillo, cosa sei, una femmina?» la voce gli salì di un'ottava sulle ultime parole e la risatina sarcastica si spense, S. gli catturò lo sguardo.

L'ordine di S. arrivò come una sferzata, inoppugnabile, e poco più di un sussurro: «In ginocchio.» E il bel tipo crollò per terra. Un brivido percorse la schiena di S. fino alla punta dei capelli rosa, il primo assaggio era sempre il più delizioso e non esisteva nulla al mondo di più delizioso di rompere la volontà di qualcuno per la prima volta. Di leggere negli occhi di qualcuno la consapevolezza che tutto ciò che desiderasse era eseguire un ordine e umiliarsi davanti a tutti: e sentirsi eccitato. Il rigonfiamento nei jeans del Bel Tipo confermò a S., senza che ce ne fosse bisogno, che non si era sbagliato. Avanzò di un passo, torreggiava sopra di lui, ma non per l'altezza. Di nuovo, con voce calma e rassicurante, lo interpellò. «Credi che ci sia qualcosa di male nell'essere una donna?»

Il Bel Tipo scosse la testa, deglutì, ma non aprì bocca. Le pupille gli avevano inghiottito l'iride, S. allungò una mano verso i suoi capelli e attese, il bel tipo mosse la testa e pigolò. Accettava di essere toccato, anzi, lo bramava.

S. la ritrasse senza sfiorarlo. «Lù», si voltò e incontrò lo sguardo della Dungeon Monitor, «penso che questo animaletto voglia proprio giocare, questa sera.»

La Monitor sogghignò e fece schioccare il frustino sulla mano. «Penso che dovremmo accontentarlo», la sua voce era calda e morbida come la pelliccia di una pantera nera e altrettanto letale.

«Tu», S. fece un cenno del capo verso il Bel Tipo, «alzati e dirigiti verso quella porta», gli indicò con il mento una porta rossa, «dove ti alleggeriranno un po' la carta di credito. Firma tutto quello che devi firmare e trova qualcuno con cui giocare.»

Il Bel Tipo strisciò un ginocchio per terra e gli rivolse uno sguardo implorante.

«No, non sarò io. Ora vai fuori dai piedi, mi hai stancato» S. si voltò, si sistemò i lacci sulle cosce e stiracchiò la minigonna. Era molto più corta di quanto Lù gli avesse fatto intendere, ma lo sconcerto che provocava in chi lo vedeva sculettare ne valeva la pena.

S. femminilizzato?

Divertito, si nutriva della confusione istigata da quell'abbigliamento. Non vi era umiliazione, perché non era un sottomesso. No, non era femminilizzato, era solo abbigliato con indumenti e accessori di solito usati dalle donne, ma che su di lui andavano a rafforzare la sua mascolinità. Anche il trucco pesante sugli occhi e il rossetto scarlatto che gli colorava le labbra rendevano duri i suoi tratti altrimenti delicati.

«Beh, che avete da starvene tutti lì imbambolati? Il party è già iniziato» S. sollevò entrambe le braccia e le rivolse verso la porta rossa dietro cui era sparito il bel tipo. «Andare, andare». La folla si sciolse e si riversò lungo il corridoio, un ansito di eccitazione la percorse e investì anche S., gli spezzò il respiro in gola. L'elettricità nell'aria che precludeva l'azione, l'anticipazione del desiderio gli fece pulsare il membro. L'ecopelle della minigonna si tese a formare una gobba rivelatrice, S. strinse le gambe, senza alcun effetto.

Per fortuna, nessuno gli prestava attenzione, troppo impegnati a guadagnare l'entrata, accalcati e frementi in una fila scomposta.

S. si diresse verso il corridoio che portava all'area riservata allo staff, i piedi lo stavano uccidendo. Come facevano a indossare i tacchi, le donne? O chiunque altro. La punta del piede gli bruciava, le dita erano schiacciate e gli formicolavano. Una tortura e non del tipo che gli piacesse. Scalciò via prima una scarpa e poi l'altra lungo il corridoio, il contatto con il pavimento freddo lo fece sibilare, le calze a rete erano del tutto inutili a offrire protezione o calore.

L'idea era stata divertente, ma non per molto. Abbassò la maniglia e percorse lo stretto corridoio male illuminato da alcuni neon sfarfallanti. Avrebbe dovuto ricordarsi di dire a qualcuno di sistemarli. Prima o poi. Anche se davano all'ambiente quel tocco di losco che faceva rizzare i peli sulle braccia. O forse era l'essere semi-nudo a piedi scalzi a novembre inoltrato. Una porta si aprì e sbucò fuori una ragazza dello staff, Nami, i capelli arancioni la rendevano memorabile.

«Nami, puoi raccogliere le scarpe che ho lasciato là fuori, per favore? E, se ti capita, ricorda a Lù che dobbiamo cambiare i neon» indicò con un dito le luci, la ragazza fece un cenno di assenso e si spostò per farlo passare.

La oltrepassò e aprì la porta della sua area privata, ufficio e camerino. Premette l'interruttore e la richiuse con un calcio alle sue spalle. Sfilò la minigonna di pelle e la lanciò verso la scrivania, ci avrebbe giocato ancora, ma non sarebbe stato lui a indossarla.

L'enorme specchio che copriva tutta la parete gli rimandò l'immagine di sé stesso con l'harness, le calze a rete autoreggenti e il minuscolo perizoma che faticava a contenergli il pacco, ancora teso. Altro accessorio fastidioso. Pizzicò l'elastico sul fianco, avrebbe potuto strapparlo via. Un affarino da niente. Lo sfilò e lo lasciò cadere a terra. Si appoggiò all'armadio e fece scivolare una delle calze lungo la gamba.

Non fu nemmeno lontanamente stuzzicante come farlo a qualcun altro. Si liberò anche dell'altra, le posò sul bracciolo della sedia e aprì l'anta dell'armadio.

Coso aveva fatto un ottimo lavoro a mettergli a posto i vestiti, erano tutti divisi per colore, per utilizzo, puliti, stirati e profumati. Forse, gli avrebbe fatto visita e concesso un'ora del suo tempo. Forse.

Passò la punta delle dita sulle giacche di pelle, su quelle di lino, su quelle dei completi. Avrebbe potuto vestirsi elegante, in effetti. Avrebbe potuto mettere l'harness sopra la camicia. Un sorrisino gli incurvò le labbra. Completo elegante grigio antracite, camicia bianca, cravatta barolo come le scarpe. Perfetto.

***

Uscì dalla porta finendo di sistemare i gioielli d'argento dei polsini, gli davano quel tocco in più che lo staccava dalla banalità del resto della marmaglia. Un membro dello staff si affrettò nella sua direzione, era Dom P.

«È tornato.» P. si fermò a qualche passo da lui e insieme ripresero a camminare lungo il corridoio sfarfallante.

S. aggrottò le sopracciglia. «Chi?»

«Gabriele.»

Ah. Gabriele. «E?»

«Ti vuole incontrare. È più insistente del solito.»

S. sistemò il nodo della cravatta e scosse le spalle. «Dove si trova?»

«All'ingresso, Dom. Si rifiuta di spostarsi per far entrare le persone.» P. aveva una bella voce, non molto profonda, ma piacevole, che ben si adattava al suo portamento sportivo e al suo vago accento ligure.

«Solito protocollo: quando arrivo, lo trascinate via e gli impedite di vedermi.»

«Ok. Dopo quanti secondi?»

«Al massimo un'occhiata», S. posò la mano sul maniglione antipanico e girò il capo verso di lui, «dimmi, quante volte sono?»

«Che insiste, ma che non ti vede, sono sei. Che insiste e ti vede, tre.»

«E io quante volte l'ho visto?»

«Due, credo.»

S. spinse il maniglione e aprì la porta. «Due. Era piuttosto belloccio, vero?»

«Decisamente il tuo tipo.» P. sogghignò, malizioso.

«Dovrò fargli passare la voglia di essere così insistente, prima o poi.»

Tenne la porta aperta e fece passare Dom P., si appoggiò ad essa. Due volte. Quando lo aveva accolto la prima volta e una di sfuggita un paio di settimane fa.

Lo aveva visto altre volte, però. Tra la folla, che si strusciava contro qualcuno. E lo fissava. Ne era certo, lo fissava, nonostante il buio e le luci psichedeliche e nonostante S. fosse sulla balconata, Gabriele lo individuava ogni volta.

Contò fino a dieci e percorse il breve tratto di corridoio a passo cadenzato. Contro chi si strusciava, l'ultima volta? Gabriele era in ginocchio davanti a qualcuno, ma invece di guardare quella persona, i suoi occhi erano fissi verso di lui.

Svoltò l'angolo, accanto all'ingresso tre membri dello staff, tra cui Dom P., accerchiarono e trascinarono via qualcuno, da sopra le loro spalle spuntavano solo i capelli neri e corti di Gabriele.

«Ehi, Samuel! Ehi!» Gabriele si sbracciò e venne buttato a terra.

Lo aveva chiamato per nome. Un'ondata calda si irradiò dallo stomaco di S. verso il petto. Aveva la scusa per punirlo. «Portatelo qui.»

Dom R. afferrò Gabriele per la giacca di pelle e lo sollevò come se non pesasse nulla, lo spinse verso di lui, con uno scatto violento. Un po' di scena faceva sempre il suo effetto, i presenti trattennero il respiro come da copione.

Gabriele caracollò per qualche passo e crollò a terra a quattro zampe proprio davanti alla punta delle scarpe bordeaux di S.

«Hai la mia attenzione, sei contento?» Il tono di voce di S. era controllato, come un cacciatore che sta per premere il grilletto.

«Sì Dom.», Gabriele tenne la testa china. Era beneducato, almeno.

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