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Quella sezione del pavimento diventò col tempo il piccolo regno dove potevo sfogare la mia fantasia: giorno e notte mi rifugiavo di nascosto lì sotto e, per mia grande fortuna, non venni mai scoperto da nessuno, né da mio fratello né dalle donne delle pulizie. Ero bravo a piegare tutti i miei schizzi e a nasconderli dentro qualche cassetto, mentre quelli che a mio parere erano compiuti li stracciavo e li facevo scomparire dal mondo reale. A dir la verità, non seppi mai se li stavo disegnando correttamente, poiché la luce del sole e quella delle candele difficilmente giungeva lì sotto, per cui bisognava trovare un angolo preciso dove arrivava uno spicchio di luminosità. Quei fogli, allora, potevano essere più che uno spreco: con tutto quel materiale che andavo a comprare di nascosto con le poche monete che trovavo sparse per casa, in quegli anni in cui passavo a fare ciò che amavo clandestinamente, ero arrivato a consumare interi fiorini che potevo benissimo conservare per questioni più importanti. Sapevo per certo di non essere un prodigio dell'arte, ovvero uno di quelli che sono in grado di rappresentare immagini e persone nei loro molteplici dettagli anche se passato del tempo dopo averli visti l'ultima volta: anzi, non ero un prodigio per nulla. Sapevo che non ero un granché, ma amavo fare quel che mi rendeva felice, ovvero muovere una matita su un dannato foglio e sperare che la mina non mi si spezzasse tra le dita, perché sarebbe stato il presagio che per quella giornata avevo fatto abbastanza. Non mancavano le volte in cui mi capitò di bruciare quegli amati fogli nel mio giardino, lontano da occhi indiscreti: più lontani erano dal mio cuore, meglio era. L'ultimo foglio che bruciai fu alla vigilia del mio diciannovesimo compleanno: mio padre mi aveva fatto sapere da poco che avrei passato qualche anno all'Università di Pisa per conseguire una laurea in legge, cosicché potessi intraprendere la sua stessa carriera, così come il destino aveva deciso per me. Il foglio aveva rappresentato un volto femminile.  L'ultimo disegno sarebbe stato anche diverso da tutti: non avevo mai ritratto qualcuno. Infatti quella donna non era un qualcuno, ma soltanto frutto della mia immaginazione, dalle sembianze surreali, la fronte troppo alta, il collo troppo lungo, il naso troppo all'insù e a punta, gli occhi troppo piccoli e stretti, i capelli giusto accennati poiché non ero in grado di disegnarli senza che mi vergognassi della mia stessa mano. A lei non piacevo neanche, ad essere sincero: guardava altrove, quasi imbarazzata dell'essere stata concepita, gli occhi con una sfumatura troppo rossiccia, tanto che sembrava stesse in procinto di piangere, sebbene avesse un sorriso sul volto. Volevo disegnare una qualsiasi dea e quando misi mano sulla matita pensai ad Atena, dea greca della saggezza, poiché quel pomeriggio avevo riletto per la terza volta la traduzione latina dell'Iliade e mi ero fermato a riflettere a riguardo. Lei era la personificazione dell'ingegno e dell'astuzia in guerra: ciò le faceva onore e ne era contenta, lo si poteva notare dalle sue labbra incurvate verso l'alto. Lei, però, non riusciva a dimenticarsi di essere la sorellastra di Ares, impulsiva divinità sanguinaria: negli occhi della donna si poteva notare la pietà e il dispiacere per tutte le anime sacrificate che col suo intelletto aveva tentato di salvare, ma non ci era riuscita. Forse era per questo che era imbarazzata, colma di vergogna: non era mai stata in grado di portare la vita, perché la morte era più forte, così come quel fuoco era più forte della carta che in quel momento stava bruciando, assieme ad Atena stessa. Rimasi con le gambe incrociate e coi capelli che mi finivano sugli occhi, attento che le scintille non finissero su qualche cespuglio e prendesse fuoco tutto quanto: attendevo solo che la mia giovinezza finisse, così come il fuoco avrebbe finito di sfoggiare il suo vigore e si sarebbe spento.

Avevo amato, durante la mia breve vita, ma avevo perso ciò a cui tenevo prima ancora di capire che non era mai stato mio: l'arte non poteva essere il mio mondo poiché io non ero in grado di curarmene e perché in sostanza non ne ero capace. Diedi addio alla mia più grande passione quella notte, gettando anche le mie due uniche matite dentro il fuoco e rimanendo là fuori fino a che non mi resi conto che la luna si stava finalmente addormentando, lasciando il posto all'alba.
Passai gli studi col massimo dei voti e, una volta tornato a Firenze qualche anno dopo, iniziai a lavorare con mio padre, che mi accoglieva fiero a braccia aperte.
Al mio ritorno mi resi conto che anche mio fratello se ne era andato via, perché si stava dedicando alla professione del commercio, ma d'altronde l'avevo già saputo dalla lettera che lui stesso mi aveva mandato l'anno prima, soltanto che non ci avevo creduto fin quando non l'avevo visto coi miei occhi.
Ciò mi fece molto male, poiché era l'unico che era in grado di non farmi sentire solo, dato che era sempre stato al mio fianco: era cambiato tutto, la mia arte aveva smesso di pompare il sangue nel mio cuore ed io ero una persona diversa, tanto diversa che finii per abbracciare di ricambio mio padre.

Mi dimenticai chi ero stato, ma non completamente. Dopo la congiura mal riuscita ordita dalla famiglia Pazzi, che portò alla morte di Giuliano de' Medici, il fratello Lorenzo condusse la rivolta popolare contro Jacopo e Francesco Pazzi, assieme agli altri coinvolti: furono profanate tante nobili abitazioni degli uomini in questione e anche le tante opere d'arte che fino a quel momento avevano vissuto lì, osservando soltanto il via vai di poche persone, terminando per essere assalite dalla folla e uccise su un rogo.

Il me di ventiquattro anni fu scosso da tale violenza, come se ogni atto vandalico compiuto sui blocchi di pietra e tavola di legno causasse loro del male, come se essi fossero persone con sentimenti ed emozioni.
Chiusi gli occhi, prendendo un gran respiro e scappando via da quel luogo dove sembrava che la pace avesse smesso di esistere e che la pazzia ne avesse preso il posto: quasi riuscivo a farmi ritornare alla mente le lacrime di Atena che diventavano reali e che percorrevano quel vecchio foglio ormai bruciato, immaginando che lo inumidisse con esse. Che senso aveva aver amato l'arte se poi una parte di essa, assieme alla vita di quei congiurati, era morta senza neanche che mi importasse?

Sapevo che era un grande peccato verso Dio quello di non curarmi del bene della mia Firenze e di starmene tornando a casa a passo veloce, senza difendere la città da quella che sarebbe stata la tirannia dei Pazzi, ma volevo soltanto nascondermi, perché sapere che la morte aveva compiuto un altro dei suoi atti mi faceva solo del male.
Altri ci avrebbero pensato, Dio avrebbe capito e mi avrebbe protetto sebbene le mie decisioni, perché ero soltanto un giovane uomo troppo codardo e colmo di timore per poter essere parte dell'esercito popolare.
Quell'episodio fu importante per farmi capire che i fantasmi del mio passato mi stavano tormentando ed ogni tanto mi veniva da pensare: che sarebbe successo se mi fossi ribellato a mio padre e avessi deciso di condurre la vita che desideravo? Magari tra i tanti geni dell'arte avrei imparato ad essere me stesso e avrei anche smesso di provare codardia, poiché spinto da nobili ideali a maneggiare anche una spada, oltre che un pennello.
Non l'avrei mai potuto sapere, eppure quelle domande continuavano a rimbombare incessanti dentro la mia mente, e non smisero per i successivi due anni, fino a quando la soluzione non mi si presentò davanti agli occhi, come se il fato stesse cercando di darmi la sua prima opportunità.

«Siediti Achilleo, siediti.» mi disse mio padre compiaciuto una volta che tornai a casa da Palazzo Vecchio, lì dove avevo svolto degli incarichi di lavoro. Ero stranito dal suo comportamento allegro, che in un primo momento credei fosse stato per il vino che aveva già bevuto alla cena fatta senza aspettarmi, ma mi resi conto che i piatti erano vuoti e che il suo calice era ancora pulito. Ciò significava che voleva condividere un pasto con me senza che ci fosse mia madre, cosa che accadeva poche volte.

«Buonasera padre.» gli risposi, sedendomi e guardando il piatto anziché l'uomo di fronte a me, sempre a causa del mio costante timore.
Prima che potessi dire altro, un servitore poggiò un vassoio con un arrosto di maiale come soggetto principale accompagnato da delle patate come contorno, mentre altri due uomini trasportavano dei vassoi, uno colmo di formaggi e del pane e l'altro colmo di frutta, tra cui uva bianca e rossa. Non mancò infine una brocca di vino posta sul tavolo più vicino alla mia parte: tutto ciò mi fece sbalordire, dato che l'avarizia di mio padre non l'aveva mai portato a condividere il suo amato vino, sebbene ce ne avesse in abbondanza.

«A cosa devo... questo banchetto?» chiesi con le sopracciglia aggrottate, attendendo che fosse lui il primo a cominciare a mangiare, per buona educazione.
«Devo comunicarti, figlio mio, che Lorenzo de' Medici, mi ha affidato un altro incarico. Sai bene che anche grazie a me si sono potute scrivere le carte del trattato tra Firenze, Venezia e Milano.»

Annuii, ricordandomi degli avvenimenti che mio fratello mi aveva scritto in una delle sue ultime lettere prima che se ne andasse da Firenze. «Sono felice per voi, padre. È proprio grazie a voi e alla vostra capacità nel vostro lavoro che la nostra famiglia ha un nome di cui andare fieri e per cui camminare a testa alta. Vorrei diventare un giorno proprio come voi e rendere ancora più alto il nome della famiglia Ridolfi.» lo elogiai, perché era quello che intendeva ascoltare ogni qualvolta che aprivo bocca: avevo imparato che, se facevo in quella maniera, non perdeva tempo a sgridarmi per la mia cattiva educazione.

Mi aveva fatto sedere a quel tavolo per mangiare e bere soltanto per aspettarsi i miei complimenti e ciò ribadiva ancora una volta la sua vanità.
Tuttavia non aveva ancora preso in mano la bottiglia di vino e riempito il suo calice, per dar inizio a quel solitario banchetto, per cui c'era dell'altro: io attesi.
«Ho fatto il nome di un altro Ridolfi per questo incarico: questa settimana sono molto occupato.»

Fu una delle poche volte in cui mi strappò un sorriso sincero e mi fece scordare che ero pietrificato dal suo gelo, alzandomi in piedi involontariamente e ringraziandolo. Mi fece cenno con la mano di riprendere posto, per cui obbedii e presi maldestramente in mano il mio calice, dopo averlo riempito di vino, così come aveva appena fatto mio padre.

«A mio figlio, alla sua carriera e alla sua fama!»

«Alla mia fama...» sussurrai, bevendo tutt'un sorso il contenuto della coppa.

Fui sorpreso di sapere che il Signore di Firenze mi aspettava a Palazzo Medici e non a Palazzo Vecchio, così come mi ero immaginato. Il cambiamento di luogo enfatizzava la novità e a stento riuscivo a trattenere la mia euforia e il mio entusiasmo: ero tanto giovane, eppure ero già arrivato a un tale traguardo, che magari sarebbe stata una cosa da nulla per mio padre alla mia età, ma che in quel momento mi rendeva tanto fiero.
Rimasi ad attendere nel cortile interno che arrivasse qualcuno, sempre con fare impacciato, tenendo il mento alto e gli occhi fissi verso la sezione di cielo che si riusciva ad intravedere. Portai le mani dietro la schiena, notando dei volatili dal piumaggio scuro che si erano appostati sulle tegole del tetto del palazzo. I miei occhi scesero giù, notando le bifore e la muratura già danneggiate dalle intemperie, sebbene l'abitazione non fosse costruita da più di qualche decennio. Ogni arco del cortile che conduceva agli ambienti interni era decorato da dei fregi, i quali davano alla struttura un'imponenza classicheggiante.

Una statua in bronzo dorato dava il tocco finale con la sua bellezza ed armonia, poiché raffigurava un giovane senza vesti, dai capelli lunghi coperti da un elmetto, che afferrava una spada, mentre poggiava il suo piede sinistro sopra una testa più grande del normale.
«È di un artista molto bravo che si faceva chiamare Donatello. Raffigura David, con richiami anche all'aspetto di Mercurio, che ha appena tagliato la testa di Golia.»

Abbassai subito lo sguardo, appena sentii una voce darmi quelle informazioni e provai subito a scusarmi.
«Non volevo arrecare fastidio-»

«Non si preoccupi. Suppongo voi siate il giovane Ridolfi che mi ha raccomandato vostro padre, gli somigliate.» annuii, rendendomi conto che avevo davanti l'uomo più importante di tutta Firenze.
«È esatto, sono io.»

Rimanemmo qualche secondo in silenzio, osservando la scultura che imponente stava davanti a noi, rammendandoci il famoso avvenimento biblico.
«Ho un incarico importante da assegnarvi, la prego di seguirmi.» Medici interruppe la quiete attraverso i suoi passi verso una qualche stanza che echeggiavano in quel cortile vuoto.

Della stanza dove mi condusse, al pianterreno, notai subito la presenza caratteristica di molteplici librerie colme di tomi su ogni scaffale, prevalentemente di colore marrone e rosso carminio. La scrivania in legno di noce vantava di essere poggio di libri e pergamene di Lorenzo de Medici, ed era affiancata da un paio di sedie, l'una di fronte all'altra: la prima, dell'ospite, era più decorata ed imponente di quella che invece spettava all'ospitato, per cui mi sedetti al mio posto ed attesi che lui cominciasse a parlare ed espormi quello che dovevo fare.

Lorenzo poggiò i gomiti sopra la scrivania, facendo incrociare le sue dita, e si avvicinò col busto.
«Intendo avere le carte per poter edificare un'abitazione nella località di Poggio a Caiano.»

«Tutto qui?» mi lasciai sfuggire senza rendermene conto, mordendomi il labbro subito dopo per la mia impulsività. Dai suoi comportamenti sembrava che avrei dovuto scrivere chissà quali carte importanti e fu evidente la mia delusione. Medici emise una piccola risata alle mie parole e anche al mio comportamento.

«Esattamente.» Aveva capito benissimo ciò che avevo creduto e fu divertito dall'ingenuità di un giovane lavoratore.

Abbassai il capo con imbarazzo mentre le mie guance si tingevano di rosso. «Intendevo dire che è una fortuna che sia tutto qui.»

L'uomo, non molto più grande di me, annuì convinto.
«Per adesso non serve il lavoro di qualche notaio affinché si scrivano nuovi trattati e si stipulino altre condizioni di pace. Però mi serve il lavoro di un solo notaio, perché affiderò questa villa al mio amico architetto Giamberti da Sangallo, che sono sicuro porterà a termine questo compito in maniera esemplare. E quale modo migliore è quello di lavorare, se non farlo a servizio dell'arte?» disse aprendo le braccia e ridacchiando ancora. «Sono già pronti i progetti, mancano i documenti.»

Feci un cenno col capo, alzandomi dalla mia sedia, ma Lorenzo mi fermò prima che potessi incamminarmi verso la porta. «Come mai andate già via? Non mi starete cercando di dire che sono nel torto, riguardo alle mie considerazioni sull'arte.»

Non era mia intenzione lasciarglielo credere, eppure lasciavo trasparire dal mio guardo quella che a lui pareva disapprovazione, mentre io non riuscivo a capire cos'era. Volevo soltanto tornare a casa mia senza neanche sapere quando avrei firmato le varie carte e quanto mi avrebbe pagato: era davvero la cosa che mi interessava di meno se implicava riportare alla mente i ricordi che cercavo di sopprimere.
Scossi il capo, tenendolo chino. «Non era mia intenzione farvelo intendere.»

«Come mai siete tanto teso?» mi chiese sistemandosi sulla poltrona e poggiando i gomiti sui braccioli. «Non mordo mica. Anzi, sono abbastanza pacifico, credo che voi lo sappiate.»

«Parlano molto di lei in città, messere.» confermai, senza alzare gli occhi verso di lui. Era un atto di poco rispetto, eppure quell'abitudine non ero mai riuscito a toglierla, sebbene i tanti rimproveri che mi erano stati fatti nel corso del tempo. Al Medici questo piccolo dettaglio non sembrava importare, infatti era quasi intenerito dal mio modo di agire, come se avesse davanti a sé un bambino.

«Spero che le dicerie popolari sul mio conto non condizionino il vostro pensiero su di me.»
«No, no, certo che no.»

«Sarebbe un grande dispiacere, al contrario. Come quando si realizza un'opera e tutti quanti si dimostrano compiaciuti e dilettati, però poi si viene a scoprire che in segreto loro pensano altro. Molto spiacevole.»

«Questo... questo cosa dovrebbe c'entrare con la mia carica?»

Lorenzo alzò le spalle «Nulla. Una piccola riflessione. Domani mattina vi attenderò a Palazzo Vecchio, dove concluderemo l'acquisto.»

Annuii con un piccolo mugugno, adesso pronto veramente ad andar via. Avevo quasi il sesto senso che mi avrebbe fermato da un momento all'altro, ma così non fu, almeno fino a quando poggiai la mano sulla liscia maniglia della porta, afferrandola.

«Prima eravate incantato dalla statua nel mio cortile, molti non ci fanno neanche caso e ci passano davanti, considerandola un ostacolo.»

«Ero catturato dalla figura di David, anche se di primo impatto non l'avevo riconosciuto. Esprime imponenza anche se non ha evidente massa muscolare nelle braccia e poca nel busto. È solo un ragazzo, non potrebbe mai affrontare il gigante Golia, eppure riesce a sorprendere chiunque e anche se stesso con una singola pietra che colpisce il nemico in fronte: lui crolla a terra, morente. Dio gli ha dato la possibilità di difendere il regno di Israele e lui ha soltanto colto quel segnale aiutato dalla fortuna e dal fato. Tanto giovane e già con così tante responsabilità, che va a governare il suo popolo perché così è stata la volontà dei cieli. Mi rammenda il destino che le è capitato, messere, per cui non ho potuto fare a meno di notare la perfetta collocazione all'interno del cortile. Buona giornata.» terminai tutt'un fiato, per poi uscire da quella stanza e incamminarmi verso la porta di ingresso del Palazzo.
Avrei dovuto aumentare il mio passo e tenere gli occhi concentrati su dove andavo, perché una mia piccola distrazione mi fece scontrare con una donna dalla veste azzurra che passava di lì. Per sbaglio gli avevo fatto cadere tutti i rotoli di pergamena che trasportava assieme a dei tomi, provocando un tonfo che echeggiò per tutto il cortile. Sgranai gli occhi dal dispiacere e  mi avvicinai velocemente per raccogliere il pasticcio che avevo causato, ma la donna mi precedette e finimmo per inginocchiarci assieme. I suoi lunghi capelli ben acconciati in morbidi boccoli non mi permisero di vederla subito in volto, poiché essi lo nascondevano.

«Chiedo scusa, non ne avevo per nulla intenzione. Mi perdoni, madonna.»

«Non si preoccupi, messere, non è nulla.» disse pacata e la aiutai a prendere tutti i libri pesanti.
«Le serve una mano? È molto difficile trasportarli.»
Lei scosse il capo. «Posso essere in grado di portarli nelle mie stanze senza alcun aiuto, anche se le sono grata del pensiero, tuttavia in caso contrario avrei chiesto aiuto a mio marito Lorenzo.» terminò, prendendo i libri dalle mie braccia e, con tutta la forza che aveva in corpo, fu in grado di trasportarli via, sebbene il suo volto divenne rosso dalla fatica.

«Non badi all'orgoglio di mia moglie. Clarice è una buona donna, solo che a volte rifiuta facilmente un aiuto. Sostiene che non potrà mai essere una fedele di Dio se continuerà ad accettare le tentazioni di altri, senza averne il pieno bisogno. Ciò la porta a non accorgersi delle buone azioni e della gente dall'animo gentile che la circonda.»

Lorenzo era appena uscito dalla stanza che avevo lasciato, prevedendo che avrei vissuto quella scena e che avrebbe potuto parlarmi ancora una volta. «Sebbene la sua devozione al Signore, mi stima così tanto che nel suo tempo libero continua ad istruirsi ed impara il latino, perché sa che amo la cultura.»

«A Firenze avete la fama di mecenate.»

«Non solo a Firenze. Oltre ai dintorni, anche a Roma, Napoli, Venezia, sanno del mio debole per l'espressione artistica. E, sapete, in lei, appena l'ho vista, ho notato una luce negli occhi che soltanto pochi hanno. È la luce della passione.» Deglutii non sapendo a cosa si riferisse. «Vi piace l'arte, non è così?»

Quell'uomo possedeva la magnificenza, che solo i sovrani hanno, e il dono dell'eloquenza, tipico dei carismatici leader dell'antica Roma. La sua figura di bell'aspetto e buon animo fu in grado di convincermi a parlare e a non mi trattenni più. Finalmente, dopo tutti quegli anni, avevo deciso di ammettere sia a me stesso sia ad un altro ciò che provavo: «Sì, è esatto. In passato avevo l'abitudine di fare qualche disegno, ma l'ho lasciata dopo qualche anno per mancanza di tempo, appena sono andato all'università.»

Sperai che fosse un altro a parlare e non il timido me che tentava di nascondere le sue passioni, perché non era destinato a mostrarle.
Lorenzo annuì, curioso. «Il vostro lavoro è di tutto rispetto, questo è certo.»

Fui d'accordo con le sue parole e subito mi girai, perché non vedevo l'ora di andarmene dalla conversazione, un'altra volta. Non accennava a finire e quasi mi stava sgozzando, il tanto tormento del mio animo.

«Sappiate che qui c'è sempre posto per coloro che nel profondo hanno ancora qualcosa da donare ai contemporanei, alle generazioni future e a se stessi. Se vuole scappar via lo faccia, ma mi aspetto che ritorniate in futuro sia per altre faccende legali sia per aver compreso le mie parole. Spero abbia una buona giornata, messere, la vedo irrequieto e desideroso di tornare a casa.»

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