3. 1486

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«Rendetevi conto di quanto potrebbe essere conveniente un'alleanza tra Firenze, il regno di Napoli e lo Stato della Chiesa. Ogni giorno gli altri Stati stranieri pensano a come attaccarci, a come conquistare quelle misere città della penisola orgogliose come dei pavoni, a come profanare il suolo che tanto stiamo difendendo. Intanto pensiamo ancora a fare guerra tra di noi! Anni fa, prima ancora che io stesso fossi in grado di capire qualcosa su come governare Firenze, mio nonno Cosimo già aveva pensato ad un'alleanza del genere, ma era andato oltre: sperava in una Lega Italica. Saremmo stati la nuova Roma ed il Mediterraneo sarebbe stato nostro, coi commerci e tutto. Vi rendete conto? La mia famiglia sarebbe stata tra gli iniziatori di un'utopia, avremmo finalmente riportato alla vita l'impero che si è sognato per più di dieci secoli e avremmo riacquisito ciò che i nostri avi si erano lasciati sfuggire. Un'unità di stato, al fine di vivere tutti in armonia, senza sovrani e senza tiranni. Eppure, questa nostra gente è veramente di troppo orgoglio: siamo persi se non riusciamo a distinguere i nemici fittizi da quelli reali.»
Rimasi lì ad ascoltare tutti i pensieri fantasiosi di Lorenzo, adesso trovandoli io come dei desideri di un bambino.
«A volte mi chiedo come sarebbe stato il mondo se gli ideali dei grandi filosofi del passato fossero divenuti reali.» continuò, adesso fissando verso il vuoto, probabilmente immaginandosi la scena. Eravamo di nuovo lì, in quello studio del Palazzo mediceo, come era capitato nel corso di quegli ultimi anni, nei quali avevo prestato servizio per Lorenzo de' Medici. Lui mi aveva spiegato che era lì che preferiva gestire tutte le questioni importanti di politica estera piuttosto che a Palazzo Vecchio, lontano da occhi indiscreti e origliatori, rivelandosi dunque essere un uomo molto previdente, oltre che di ingegno e cultura.
«Chissà se mai la gente comprenderà che al governo devono soltanto andare uomini di intelletto che riflettono prima di agire d'egoismo. Dunque dei filosofi, che mettono prima il bene della città e solo per ultimo il proprio. La tirannia è un'enorme nemica, molto più che ostile, eppure nessuno fa niente per impedire che diventi una realtà, sebbene siamo esposti al pericolo continuamente.»

«Messere, non trova sia un'esagerazione riguardo la questione dei filosofi? Platone ha smentito se stesso dopo qualche anno.»

Lorenzo sorrise, compiaciuto. «Avete letto Platone?»
«In traduzione latina. Conosco bene il latino classico, messere.»

Annuì, ben disposto a proseguire la conversazione con me, dato che, a quanto pareva, era invogliato dalla mia conoscenza.
«Siete fortunato, tuttavia mi riferisco all'ultima sua opera, nella quale l'interesse della pólis è rivolto a tutti, perché chiunque è cittadino e deve contribuire al bene dello Stato. Un po' come la nostra Firenze, dove tutti contribuiscono ad essere parte integrante della città.»

«Però una Lega Italica sarebbe molto più grande di una pólis.»
«È un'eventualità a cui Platone non aveva pensato.»

Annuii, convinto delle sue parole. Il modo in cui riusciva a intrecciarle tra di loro come fossero la trama di un tessuto era così gradevole che poteva dire una qualsiasi sciocchezza e non me ne sarei accorto, finendo per considerarla una verità assoluta e indiscutibile.

«Sono d'accordo. È stato un piacere colloquiare con voi, spero che presto ci saranno altre occasioni e spero che, prima di tutto, io possa scrivere le carte per l'alleanza da voi desiderata.»

«Sono sempre ben disposto per colloquiare, lo sapete bene, soprattutto se il discorso comprende delle nozioni classiche.»

Lo sapevo, me l'aveva ripetuto diverse volte in quegli anni, ma non cedeva. Non avevo idea di cosa avesse visto in me o se volesse comportarsi come un maestro che sprona il suo allievo a seguire i suoi insegnamenti. L'abitudine di tenere il capo basso dall'imbarazzo e dalla soggezione non me l'ero ancora tolta e qualcosa mi diceva che non sarebbe bastato un contatto con le arti per modificare i miei atteggiamenti.
Così come era solito fare, mi fermò proprio quando ero sul punto di alzarmi dalla sedia e di tornare a casa.
«Siete occupato questa sera? Ospito degli amici a cena, penso ci sia cibo in abbondanza per tutti. Vorreste unirvi?»

Non potevo rifiutare una richiesta postami dal Signore di Firenze, sebbene non volessi rimanere a tavola come un intruso in mezzo a tutte quelle persone sicuramente più che colte e che, soprattutto, si conoscevano tanto da definirsi "amici". Mi trattenni dal sospirare, perché col tempo avevo appreso come non far notare a Lorenzo le mie emozioni e forse lui aveva capito che stavo smettendo di essere un libro aperto e che pian piano non ero più un ingenuo giovane. Quello che Medici, in realtà, non era mai stato. Mi domandavo sempre come avesse fatto a riprendersi dalla morte di suo padre, quella di sua madre, di suo fratello, dall'esilio di sua sorella e soprattutto dalle tante e ricorrenti guerre, tra cui la più recente guerra a Ferrara. Eppure era un uomo che amava la pace e che era l'ago della bilancia che garantiva la favorevole condizione politica dell'intera penisola italica. Sangue, lacrime e dolore di qualcuno avevano salvato le vite di molti altri: infatti, in quella guerra contro il fato, il Medici era un martire che dalle sue ceneri era rinato assieme al popolo, come fosse una fenice.

La sua forza d'animo era dovuta al fatto che aveva subito tante disgrazie in passato alle quali non ero stato presente: ero certo che avesse imparato a curare il suo animo attraverso le risposte della filosofia e che avesse messo da parte quella sezione dell'anima che si occupa delle sensazioni, ormai convinto che gli causava soltanto del male. Si era tanto preoccupato di consolarsi che aveva imparato a far passare rapitamente il dolore, quasi come se non esistesse, arrivando all'atarassia e alla pace con se stesso. Eppure ciò che rendeva ancora il suo animo irrequieto era il timore di non proteggere abbastanza la sua Firenze e il suo popolo. Nascondeva i suoi timori, questo era certo, ma non sprecava occasione per mostrare la sua lealtà. Magno ed inimitabile uomo, lui che aveva inciso il suo nome tra le pagine della storia e aveva fatto sì che ne restasse una cicatrice.

Lorenzo uscì dallo studio e io lo seguii. Pensai che gli fossi stato troppo attaccato e questo gli arrecassi disturbo, per cui decelerai, allontanandomi da lui di qualche metro e guardando da qualche altra parte.
Si girò verso di me stranito dalla mia azione, perché presupponeva che gli sarei restato vicino: «Desiderate forse fare un giro per la casa? Avete gli occhi altrove. So che siete molto interessato, potete visitare qualche stanza. Io devo aspettare all'ingresso il mio amico Poliziano che era dovuto andare credo nella zona dell'Oltrarno. Sarò di ritorno appena possibile.»

E rimasi da solo, in quel palazzo in cui ero stato tante volte, ma dove non sapevo per nulla orientarmi.
Avevo intenzione di andare soltanto in una stanza, perché non volevo approfittarmi della sua cordialità. Salii le scale, le quali avevano dei fregi posti in alto, che incorniciavano la scalinata: la percorsi tenendo la mano sulla ringhiera in marmo senza smettere di tenere gli occhi su quella magnifica decorazione. Davanti a me c'era poi una finestra che mostrava una porzione della città, tanto bella quanto semplice e dalle alte torri. In lontananza riuscivo a vedere le luci delle candele già accese nelle abitazioni più vicine, il che rendeva tutto più caratteristico e pittoresco. Sembrava di essere nella reggia di qualche sovrano, quando invece era di un uomo senza sangue reale proprio come me, con la sola differenza di essere adatto nell'arte della politica. Era diventata mia abitudine quella di elogiarlo involontariamente e paragonarlo a me, come fosse un modello indiscusso, che non sarei mai stato in grado di emulare. Almeno partivo sconfitto.

Girai a sinistra e la prima porta che mi comparve davanti era socchiusa, per cui non persi tempo a spingerla, in modo da entrare dentro quella stanza che si rivelò essere piccola, ma che fu in grado di farmi sgranare gli occhi, tanto era bello quello spettacolo.
Come sempre, guardai la scena dall'alto verso il basso: pareva essere una piccola cappella, dal soffitto colmo di stucchi dalle sfumature dorate, caratteristico in tutta la sua bellezza; subito mi accorsi anche che la stanza era dipinta in tutte le sue pareti e ciò che mi saltò all'occhio fu l'immagine di un ragazzo dai capelli castano chiaro e riccioluti su un cavallo dal manto bianco che conduceva la folla dietro di sé. Alcuni di loro sedevano anch'essi su dei cavalli. Lo sfondo era composto in particolare da tanti elementi naturali, da alberi e arbusti con il verde panorama di qualche collina. Non mi importò degli altri affreschi, sebbene fossero anch'essi tanto belli e che spiccasse tra essi la nicchia riservata ad una Madonna con il Bambino, ma mi avvicinai a quello che mi aveva colpito per primo. La fioca luce della stanza che penetrava attraverso la finestra illuminava quella raffigurazione abbastanza da evidenziare tutte le sue sfumature e tutti i suoi dettagli. Chiusi gli occhi, immaginando che quella scena stesse accadendo davanti a me, proprio in quel momento.

Non mi piaceva che fosse finzione, volevo che la bellezza che osservavo fosse reale. Allungai la mano verso l'affresco, toccandolo con un dito, anche se non avrei dovuto, dato che possono rovinarsi facilmente.
Credetti che colui che stava a cavallo dai riccioli castani stesse conducendo tutti quanti: avvertii la sua voce che li incitava a continuare e anche gli zoccoli dei cavalli che echeggiavano tramite il terreno, percepiti dai miei piedi. Ero in grado di sentire anche il profumo dell'erba fresca e dell'aria pulita e depurata. Era davanti a me ed era reale. Stava conducendo tutti quanti verso la salvezza. Quell'uomo all'angolo scettico di quello che il ragazzo a cavallo stava facendo, immaginai che si era ricreduto e che aveva anche lui cominciato a seguirlo con sicurezza. Era forse un affresco che rappresentava la volontà di Dio di condurci lontani dalla dannazione? I già dannati si stavano pentendo di aver compiuto cattive azioni durante la loro vita: immaginai che stessero al di sotto del terreno e che stessero piangendo disperati, che stessero scavando verso l'esterno per tentare di uscire. Desideravano un condottiero come colui che era a cavallo. Non avevo idea di chi fosse, eppure anche io mi fidavo di lui: esprimeva una tale sicurezza che potevo seguirlo ad occhi chiusi. Immaginai di farmi largo tra la folla per poter correre verso la collina più vicina, salire su quei massi e cercare di osservare il ragazzo più vicino che potevo. C'era un albero e mi aggrappai ad esso, stando attento a non cadere.
Mi stavo immaginando tutto, non sarei mai potuto cadere.

Scesi di lì, il ragazzo era andato avanti ed aveva già superato i cavalli che prima erano in lontananza.
Corsi, corsi più veloce che potevo, allungai di più la mia mano, riuscendo a sfiorare il manto bianco del cavallo. Cercavo soltanto di essere graziato da quel ragazzo. Solo poche volte mi ero fidato così ciecamente nella mia vita e questa fu una di quelle: soltanto delle azioni di Lorenzo per il suo popolo e per Firenze potevo essere certo.
E allora mi parve tutto più chiaro: quello non era Dio, non era neanche suo figlio, né altra figura santa, poiché al capo non aveva nessun nimbo dai decori dorati. Il ragazzo dell'affresco era proprio Lorenzo de' Medici, che avevo imparato a servire e di cui avevo imparato a fidarmi.
Ero cieco, cieco di fiducia. Cieco anche perché avevo conosciuto un frammento di arte che mi aveva destabilizzato e reso instabile, attaccandomi l'animo e mettendo in discussione la mia razionalità e la volontà di distanziarmi dai fantasmi del mio passato.
No, ormai quelli non erano più fantasmi del passato, ma erano diventati fantasmi del presente, con cui avevo a che fare quasi ogni giorno e con cui avevo imparato a convivere.

Avevo sempre saputo che esistevano tutti quei mondi creati dall'arte dove andarmi a nascondere: mai, però, avevo scoperto un mondo più sicuro di quello.
Non esistevo solo io, esistevano tanti cuori che battevano all'unisono del mio dei tanti soggetti in quella stanza. Non ero mai stato solo, non avevano mai smesso di aspettarmi per tutti quegli anni, dal momento in cui erano stati creati e attendevano soltanto che entrassi nella realtà dell'affresco attraverso quella reale.
Dovevo diventare un cittadino vero e proprio di Firenze, valoroso come i tanti soldati, e seguire Lorenzo così come l'affresco aveva predetto. Seguire la strada che lui aveva spianato e raccogliere ciò che aveva fatto conoscere alla nostra cittadina. La poesia, la cultura, l'arte, la filosofia: dovevo cogliere tutto ciò e cambiare, diventando un essere completamente diverso e un ideale ammasso di pensieri, tutt'uno con l'iperuranio.
Esatto, dovevo cambiare e il mondo aspettava soltanto che lo facessi e diventassi il vero me stesso.
Il mio cuore perse un battito: stavo forse capendo il vero significato della passione?

Fu allora che sorrisi.

«Lorenzo? Dove sei?» sentii una voce maschile che chiamava il nome del mecenate e che si dirigeva dalla mia parte, per cui aprii gli occhi di scatto e mi voltai verso la porta, accorgendomi di averla lasciata aperta: smisi di respirare per qualche secondo, provando a smettere di esistere per un frangente di tempo in modo da non farmi notare da quel qualcuno.

«Sei qui?» i miei tentativi furono vani, poiché un uomo aprì la porta senza che potessi fare nulla per evitarlo. Rimasi con espressione colpevole, ridacchiando leggermente, teso. Come avrei spiegato chi ero? Non avevo mai visto quell'uomo prima d'ora.
«E voi chi siete? Che cosa ci fate qua dentro? È un luogo privato della famiglia, chiunque voi siate non potete stare qui.» mi attaccò immediatamente, indicando con un dito l'uscita, facendomi così segno di andare via.

«Stavo... stavo andando via, chiedo venia. Sono entrato per sbaglio, non avevo intenzione di stare a lungo. Ho solo notato questi begli affreschi e non ho fatto a meno di ammirarli.»
«Li hai ammirati, vai via. È un luogo privato.» disse duramente. Non sembrava essere molto più grande di me, eppure quell'uomo dai capelli lisci e neri dalla veste rossa stava agendo molto severamente.
«Se... state cercando messer Lorenzo, è andato verso l'ingresso. Sta aspettando un suo amico, mi ha detto. Credo si chiami Poliziano.»
Lui alzò un sopracciglio, scettico per quello che gli stavo dicendo.

«Certo, certo. Lo sto cercando da mezz'ora qua dentro e non so che fine ha fatto, quindi secondo te adesso lui mi sta aspettando all'ingresso.» disse con ironia, facendo nuovamente segno di uscire da quella cappella.

«Poliziano, eccoti!» sentii la voce del Medici in lontananza, che aveva appena riconosciuto la schiena del suo amico e l'aveva chiamato.

«Ho sorpreso quest'uomo a curiosare qua dentro.» disse ancora con severità indicandomi, per cui deglutii imbarazzato, abbassando il capo e guardando i miei piedi con vergogna. Alla fine era vero, non mi era stato permesso da nessuno di entrare in un luogo tanto privato.

«Non essere duro, Poliziano, gli ho permesso io di venire qui. Sapevo che gli sarebbe interessato.» disse Lorenzo, facendomi alzare il capo verso di lui sorpreso e confondendo il suo amico.

«Siate gentili fra di voi, sarete entrambi miei ospiti questa sera.»

Si avvicinò a me e poggiò una mano sulla mia spalla, per poi avvolgere quelle del bruno.
«Poliziano, potresti incamminarti verso il piano di sotto? Ti raggiungiamo subito.» gli disse e l'uomo annuì, lasciando la stanza immediatamente, come richiesto.

«Non avevo il diritto di entrare qua dentro, lo so.»
Lorenzo ridacchiò, scuotendo il capo. «Hai ragione. Ma non possiamo cancellare quello che si è fatto.» voltò il capo verso l'affresco che tanto mi aveva attirato.
«L'ha dipinto Benozzo Gozzoli per volere di mio nonno e mio padre.»

Entrambi lo contemplammo, io per la seconda volta e lui per l'ennesima. Mi chiedevo come facesse a non provare nostalgia davanti un'opera del genere, ma sembrava al contrario avere tutte le armi per sconfiggerla. Brutta belva la nostalgia, con certezza sapevo che era dietro di noi e aspettava soltanto una piega dell'animo di chiunque per poter fare quello per cui era stata creata. Non gli mancavano tutti coloro che erano lì dipinti e che adesso non c'erano più, non invidiava il se stesso del passato?
Mi accorsi che mai sarei stato in grado di emularlo, perché eravamo completamente diversi fin dal profondo. Io avrei sempre continuato ad essere nostalgico, a farmi tormentare dal passato e non andare mai avanti, lui invece vinceva vittorioso ogni genere di battaglia.

«Siete voi, a cavallo, non è così?»

«È il Re Magio Gaspare, che semplicemente mi somiglia.»

Entrambi sorridemmo: entrambi sapevamo invece che quell'affresco era una sorta di mappa scritta dal destino, piuttosto che da quel tale di nome Gozzoli qualche anno prima.

Non ci volle molto tempo prima di arrivare nella sala dedicata ai banchetti ed essere seduto al tavolo con diverse persone di cui non avevo mai visto i volti prima di allora.
Lorenzo non attese tanto ad alzare il suo calice colmo di vino e si accinse a presentare tutti quanti i nostri nomi. Pronunciò quello di Poliziano, già conosciuto, di Giuliano da Sangallo, Filippino Lippi, Luigi Pulci, Marsilio Ficino, Antonio del Pollaiolo e per ultimo di un tale che si faceva chiamare Botticelli.  Mi sembrava quasi di conoscerlo, ma mi convinsi che probabilmente l'avevo visto per strada, perché escludevo ogni altra opzione. Ero bravo a ricordarmi i volti degli sconosciuti ed utilizzarli soprattutto nei miei sogni. Probabilmente l'avevo anche sognato qualche volta.
Posai gli occhi sul mio piatto ancora vuoto, mentre gli altri facevano scontrare rumorosamente i loro calici fra di loro, producendo rumori sordi.
Ridevano di gusto a diversi fatti che si dicevano, ironizzando magari su qualche personaggio della scena politica. Lorenzo improvvisò anche degli spiritosi versi, che dalle sue labbra sembravano essere quasi stralci della Bibbia. Mangiai con imbarazzo, sentendomi di troppo in quel circolo composto soltanto da veri intellettuali e ancora non capivo come mai il Medici aveva deciso che sarei stato anche io parte di esso.
L'unica cosa buona di quella serata, francamente, era il cibo, preparato da delle mani dorate, per quanto era saporito e ricco di spezie.

«Sandro, so allora che hai avuto la commissione di un altro dipinto da mio cugino Lorenzo Pierfrancesco.»

«Esattamente, spero di finirlo più velocemente, questa volta...» commentò l'uomo che era seduto al suo fianco, la cui voce mi sembrò familiare, fin troppo familiare.

Non potevo averla sentita per strada come quella di un qualsiasi sconosciuto e persino ricordarmela: non ero bravo con le voci.
«Lo spero. Ovviamente per il bene tuo, conosci l'esigenza di mio cugino.»

«E anche per il tuo di bene, la scorsa volta non ha fatto altro che chiederti mie notizie affinché potessi finire il dipinto velocemente. Non si fa! Così si guasta solamente la propria opera. Il Verrocchio, quando ero alla sua bottega, non faceva altro che dire ai suoi allievi di essere celeri, ma al contempo di svolgere la commissione nel tempo che volevano impiegare: tanto il denaro non cambia.» ridacchiò, per poi riprendere a mangiare la sua fetta di pane.

Ecco dove l'avevo visto, ecco dove l'avevo sentito e dove l'avevo incontrato! Ecco dove sono venuto per la prima volta a contatto con quell'uomo dalla testa castana. Mi morsi il labbro, ripensando a tanti anni prima, quando speravo con tutto me stesso che sarebbe tornato alla bottega che sorvegliavo ogni giorno di quella calda estate.
Non era mai tornato e alla fine era stato il fato a farci incontrare, che forse si stava beffando di noi o forse di me in particolare.
Cosa dovevo dirgli? Dovevo chiedergli come mai se ne era andato? Non ne avevo il diritto, per lui neanche esistevo ed ero scomparso quando quel pomeriggio ero corso via dalla bottega.
Imbarazzato, mi alzai dal tavolo causando un silenzio totale tra tutti loro e terminando le loro risa.

«Devo andare via, mi spiace. Ho degli affari importanti da compiere a casa.»

Lorenzo mi guardò con dispiacere. «Vi prego, restate. Sarà una bella serata, passata tutti assieme. Inoltre non avete toccato neanche una goccia di vino.»

«Non bevo vino. Non mi piace molto.» mentii, per poi mettere le posate nel mio piatto, in modo da facilitare coloro che sarebbero venuti a sparecchiare.

«Avevamo giusto finito di parlare di Sandro. Volevo iniziare un altro argomento. Al nostro Achilleo interessa la filosofia, Marsilio stava giusto per parlare della sua ultima opera "Compendium in Timaeum". Restate, sarà molto interessante. Marsilio non mi ha mai deluso, è un filosofo di tutto rispetto che porta alto il nome degli antichi pensatori.»L'uomo in questione si grattò il capo ridacchiando, poiché non si aspettava un complimento del genere così all'improvviso.

«Marsilio è molto interessato alla filosofia di Platone, perché non discuterne tutti assieme?»

Mi lasciai sfuggire un sorriso. Anche se ero di troppo là dentro, Lorenzo stava facendo tutto il possibile per farmi sentire a mio agio e solo per questo dovevo portargli rispetto e mettere da parte il mio imbarazzo, al fine di colloquiare con tutti loro.
Almeno con la maggior parte, ovviamente.

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