4. 1486

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Anche se ero diventato un buon amico di molti di quegli uomini con cui ero rimasto a parlare quella sera, con alcuni di loro non era la stessa cosa. In particolare non ero solito conversare con Poliziano, perché a causa della prima impressione che ha avuto su di me, quando mi ha visto curiosare nella cappella, non ha mai voluto essermi amico; inoltre non parlavo con Sandro, sempre perché sospettavo che fosse lo stesso che avevo incontrato alla bottega del Verrocchio anni prima. No, non lo sospettavo: lo sapevo per certo. Questa certezza non mi faceva avvicinare e non mi faceva neanche avanzare due parole. A lui credevo andasse bene, perché non causavo fastidio a nessuno dei due.

«Quindi non sei mai uscito fuori dalla Toscana? Per tutta la tua vita?» stavo parlando con Filippo Lippi e in quel momento mi resi conto di essere stato realmente sfortunato, anche se di buona famiglia e con tutti i beni che desideravo. Mi aveva raccontato della sua permanenza a Roma e di quanto ne era rimasto estasiato, in particolare dalle nuove edificazioni che numerosi architetti stavano realizzando con cura e dedizione. Giuliano a Roma si era occupato per qualche anno del progetto della magnifica Basilica di San Pietro, i cui lavori si erano interrotti dopo poco tempo.

«No, ci non sono mai stato. Magari un giorno avrò questa grande opportunità. Non ho mai trovato l'occasione adatta, ho preferito rimanere dove erano richiesti i miei servigi.»

«Ed hai ragione, noi ci siamo stati solo perché eravamo richiesti.»

Annuii, abbassando il capo. Avevano avuto la possibilità di andare altrove, vedere nuovi volti e nuovi scenari perché dotati di talento richiesto ovunque. Io non ero stato richiesto da nessuna parte, per cui ero rimasto rinchiuso in quella splendida città dorata, le quali mura avevo sempre avuto paura di superare.
Forse ero un po' invidioso di loro che avevano vissuto in quella maniera ed io in un'altra.

«Dovrei andare da Sandro, gli serve un consiglio per l'opera che sta facendo per Pierfrancesco de Medici.»
Alzai un sopracciglio, poiché non avevo mai sentito di Botticelli che si faceva dare un consiglio da qualcuno, soprattutto da un suo allievo.

«Ah, Filippino!» sentimmo la sua voce provenire dall'angolo della sala. «Ti cercavo. Buongiorno anche a voi, messere-» disse Sandro nella mia direzione, ma distolsi lo sguardo e le sue parole vennero troncate.

«Va bene...» poi fece di nuovo cenno al suo amico di andare con lui. Ultimamente episodi di quel genere stavano avvenendo troppo spesso, così spesso che Sandro probabilmente credeva che lo odiassi.

«Perché non vieni anche tu?» chiese Filippo nella mia direzione, cordiale. Scossi il capo.
«No, ho... ho del lavoro da fare per Lorenzo.»

«Non credo.» intervenne Sandro, con sopracciglia aggrottate. «Lorenzo mi ha detto prima che avevate già finito i vostri compiti e che sareste rimasto a conversare con noi come al solito.»
Deglutii: ero stato beccato.

«Non vi ha detto il vero. O meglio, vi ha detto quello che credeva fosse vero. Ero solamente a metà del mio lavoro, però gliel'ho tenuto nascosto.»
Sandro rimase in silenzio per qualche secondo, per poi farsi sfuggire una piccola risata.

«Filippino, raggiungimi all'ingresso, dobbiamo andare in bottega.»
Lui annuì, uscendo dalla porta e lasciando me e l'altro da soli. Tenni il capo basso, non volendo scontrare i miei occhi coi suoi: temevo che d'improvviso si sarebbe ricordato di me e questa era realmente la mia più grande paura, anche se non avevo idea del perché lo fosse.

«Allora?» cominciò, aprendo le braccia, quasi in attesa di qualche scusa, sebbene non sapessi quali  parole si aspettasse: alla fine non avevo fatto nulla di sbagliato.

«Allora... cosa?» gli chiesi timidamente.

«Quindi sai parlare anche con me. Pensavo avessi qualche strano meccanismo che ti impediva di farlo.»

«Non so di cosa voi stiate parlando.»

«Parlo del fatto che non mi piace essere ignorato da un estraneo senza che abbia fatto nulla di sbagliato. Ti ho fatto qualche torto? Non mi sembra. È il momento adatto per confessare ciò che ti turba. O almeno quello di farmi capire perché mi ignori continuamente.»
Il suo tono di voce sembrava aver appena toccato il limite: l'avevo fatta grossa rimanendo nel mio silenzio. Bel lavoro. Evidentemente mi sbagliavo su quello che pensava Sandro: non gli andava bene il mio comportamento.

«Non c'è niente, non si preoccupi.»

«E smettila di usare formalità, rigiri solo il coltello nella piaga. Non gradisco le persone che sono così timide e cortesi. Cosa credi di ottenere? Qua non andiamo avanti a gentilezze e nascondigli, alza il capo e abbi il coraggio di affrontare me, che non ti ho fatto nulla, cosicché possa affrontare anche i tuoi veri nemici. Come presumi che funzioni il mondo?»
Le sue parole, dette tanto spontanee, erano vere. Avrei dovuto vincere la battaglia contro me stesso, prima di battermi contro mio padre e i suoi ideali che andavano contro l'arte.

No, ormai ero adulto, non era più quella la guerra in cui dovevo prendere parte.

Scossi il capo nella sua direzione. «Scusami. Non volevo offenderti con le mie azioni.»

«Ma continui a farlo.»
Alzai gli occhi verso di lui, allora: voleva un riscontro diretto? L'avrebbe avuto.

Aveva ragione nelle sue parole e non c'era motivo di usare quell'irritante timidezza. Riportai alla mente tutti i ricordi e tutte le motivazioni che Sandro voleva tanto ricevere. Mi resi conto, in quell'attimo, di ciò che nel mio animo più profondo avevo sempre nascosto e che non accettavo, poiché lo consideravo un comportamento scorretto: in realtà ero colmo di invidia, dalla testa ai piedi.
«Va bene. Sappi che il vero motivo per cui ti evito è perché non ti ho incontrato per la prima volta qui a Palazzo Medici.» lui aggrottò le sopracciglia, per cui io continuai, a capo alto «Ti evito perché mi fai riportare alla mente tutti i ricordi di quando ero ancora un ragazzo e di quando scoprii che ero innamorato dell'arte, ma non potevo sviluppare la mia passione perché mi era impedito. Ed ero così invidioso di tutti voi che allegramente stavate in quella dannatissima bottega, con la possibilità di usare tutti i pennelli che volevate, di sfogarvi su ogni tela possibile, di combinare tutti i sentimenti che vi passavano per la testa, di essere felici tutti assieme perché avevate le stesse attitudini. Così invidioso! Tutti quei soggetti dalle forme armoniche che vedevo in lontananza, tutte quelle figure che parevano reali, delicate, ma che non esistevano, così come la mia libertà. E non avevo mai ammesso che fosse invidia fino a questo momento, in cui tu mi hai aperto gli occhi, perché secondo te devo essere più diretto. Il mondo non funziona come credevo, per cui devo smetterla di essere quello di sempre, perché non va bene. Perché credi che mi comporti in questo modo? Non certo perché voglio essere diverso: so cosa dovrebbe essere giusto e come si dovrebbe sopravvivere su questa terra, eppure non posso essere tale, non posso essere spontaneo e valoroso, perché non mi è mai stato permesso di crescere come avrei voluto. E adesso sono così e non posso neanche rammaricarmi per questo, perché a tuo parere sarebbe da smidollati farlo.»
Per la prima volta nella mia vita alzai il mio tono di voce più del solito senza mai pentirmi durante il discorso.

Sandro rimase con occhi sgranati, forse sentendosi in colpa per le parole dure che mi aveva rivolto. Lo leggevo nelle sue pupille che sentiva di aver sbagliato.
«Mi hai incontrato anni fa in bottega? Quale bottega?»

«Primavera 1469, da Andrea del Verrocchio. Quel ragazzino che avevi fermato e incitato a venire con te in bottega. C'era anche Leonardo con te.»
Ancora sembrava non ricordare. Come biasimarlo, ero stato un piccolo astro lontano in quell'immenso cielo delle stelle fisse.

«Scusami, ma non... non riesco a capire ancora.»

«Non è importante. Fatto sta che fin dalla mia infanzia avevo capito che non intendevo vivere come mio padre, ma come me stesso.»

«E perché non ti sei ribellato se non volevi diventare un notaio come lui?»

«Avevo paura.»

«Di cosa? Di cosa hai paura anche adesso?» le sue domande avevano soltanto una nota di curiosità ormai. Non c'era più quella severità di prima.

«Non lo so. Non è più paura, è abitudine.»

«E prima?»

«Forse che non mi considerasse più suo figlio.»

«E sarebbe stato un male? Scusami, ma da come ne parli sembra che tu voglia soltanto questo.»

«Un grande male. Avrei perso il mio cognome e magari anche quella buona reputazione che tanto desideravo possedere.»

Lui scosse il capo, ridacchiando tristemente. «Chissà a quanto altro hai rinunciato per un pensiero completamente sbagliato. La reputazione non si tramanda, si ottiene dopo tanto lavoro e prove dell'animo. Non sono la persona adatta per dirtelo, sono soltanto un artista, non un filosofo.»

«Il filosofo non avrà mai una visione completa così come la ha l'occhio di un artista. Questo almeno l'ho imparato.»

«Agli errori del passato si può sempre rimediare. La mia bottega è aperta anche per apprendisti non più tanto giovani. Non sarà come quella nel tuo passato, ma così avrai modo di ricominciare. Spero che potremo ricominciare anche noi.» allungò la mano nella mia direzione ed io la afferrai. «Dimentica le parole che ho detto prima.»

«Affare fatto.»
Incredibile: era bastato soltanto un dialogo per abbattere tutte quelle paure e i timori che avevo costruito senza fondamento. Fa male confrontarsi con la realtà, ma dopo poco quel malore termina e tutto ritorna alla normalità. Chissà se sarebbe mai successo alla stessa maniera con mio padre e finalmente avrei saputo come rompere quel cuore di pietra.

Qualche mese passò da quando io e Sandro ci chiarimmo e riuscimmo a diventare buoni amici, forse più stetti di quanto lo ero con gli altri del circolo di Lorenzo. Quanto faceva strano pensare di esserne parte! Mi provocava sempre disagio: ero sempre l'unico che non praticava l'arte dell'intelletto come loro, ma utilizzavo i ricordi dello studio privato ed universitario. Un pomeriggio incontrai Sandro davanti alla Basilica di Santa Maria del Fiore in piazza Duomo: era di spalle e riuscii a riconoscerlo dalla sua figura minuta e dal colore dei suoi capelli. Quando ero un ragazzino mi sembrava un gigante, adesso lo guardavo da sopra la testa. Sorrise nella mia direzione e mi chiese cosa avesse di speciale quella basilica, affiancata da un campanile tanto caratteristico. Era solo una basilica! Eppure era tanto bella. Le tante sculture della facciata poste qua e là potevano essere paragonate a dei gioielli indossati da una donna: lei era imponente ed eravamo certi che nessuno l'avrebbe mai potuta abbattere nei secoli a venire. Mi disse di come quella donna imponente fosse macchiata di sangue. Allora gli chiesi come mai lui fosse fermo nella piazza, senza nessuno al suo fianco. La sua risposta fu secca, ma capii subito a cosa si stesse riferendo: «Ricordi.» rifletteva su come, da quando il pavimento di quella basilica aveva visto il sangue di Giuliano de' Medici, il lontano aprile di otto anni prima, era cambiato veramente tanto. Come se l'evento fosse stato una sorta di punto e a capo, ma il testo scritto sempre lo stesso. Gli feci un'altra domanda, a quel punto: ero curioso su cosa fosse cambiato da quel momento. Si girò verso di me ridacchiando nostalgico, gli faceva male ricordare ciò che aveva vissuto coi suoi stessi occhi: chissà cosa avrebbe dato per cambiare il passato in modo da modificare anche quel futuro. Mi fece cenno col capo ed immediatamente appresi che dovevo seguirlo, anche se non mi era chiaro il luogo e sinceramente non mi importava.
Giungemmo nell'abitazione a fianco di quella di Lorenzo, anch'essa un palazzo. «È casa di Pierfrancesco de' Medici, ne ho parlato più volte, credo.»

«Ah, sì. Il quadro. L'hai finito?»

«Ieri. L'ho portato questa mattina, ma gli dirò che voglio constatare se la collocazione scelta sia adatta. Voglio fartelo vedere: devo raccontarti una storia che sicuramente non saprai, perché in quegli anni tu eri in università e poco ti importava degli affari di Firenze.»

«Quale onore...»
Non mi piaceva parlare dei quadri. Alla fine avevo declinato l'offerta  di entrare nella  bottega del mio amico, perché mi ero accorto che mi avrebbe occupato troppo tempo e che la mia occasione l'avevo già persa tempo prima, quindi non occorreva riparare qualcosa di già rotto.

Sandro aveva capito e non aveva insistito, per cui era sempre attento a non parlare di argomenti a me scomodi e, sebbene facesse il pittore di professione, ci riusciva sempre.
Entrammo lì dentro, ma il mio capo rimase chino verso il pavimento: la questione mi aveva tanto intristito, per cui l'unica cosa che poteva consolarmi era fissare i miei piedi che facevano a gara a chi sarebbe arrivato per primo.

Non mi resi conto di star salendo una scalinata, perché il pavimento era uguale in ogni sua parte.
«Che ti ho detto riguardo fissare in basso?» ci eravamo fermati e mi aveva beccato, quindi provai a scusarmi dicendogli che stavo controllando che le mie scarpe stessero a posto. Il suo sguardo fu scettico e ritornò a fissare ciò che aveva davanti a sé.

«Davvero, non sto mentend-» sì, stavo mentendo. Se avessi tenuto il capo alto avrei notato di avere davanti un capolavoro, il quale mi fece poi sgranare gli occhi, spalancare la bocca e indietreggiare di qualche passo.

«Santo cielo. È reale quello che ho l'onore di osservare?»

«Certo che non è reale. È solo una parte della mia testa: hai l'onore di osservare una parte dei miei pensieri.»
Ridacchiai leggermente, mentre spostavo gli occhi da una parte all'altra del dipinto davanti a me, in particolare da destra verso sinistra. Quella magnifica opera era fatta su una tavola in legno e lo si poteva capire immediatamente dal riflesso che i pigmenti avevano in controluce. Sandro indicò la figura all'estrema destra.

«Zefiro che abbraccia la ninfa Clori e lei che lo guarda sognante. Accanto c'è Flora, con un vestito fatto di fiori: inoltre li porta in grembo e come tiara, il che evidenzia la sua supremazia in questo paesaggio naturale, tra tutti gli alberi e la vita. Lei non è padrona della scena, al contrario di quello che può sembrare: assolutamente no. La vera padrona è lei» indicò colei che stava al centro della scena
«La Venere, in tutta la sua bellezza, dall'aspetto sublime. Si estranea da tutti quanti e porge uno sguardo verso lo spettatore, quindi anche verso di te. Ti sta chiedendo di prendere parte a quel ritrovo divino e diventare immortale come loro. E sai chi altro è immortale in questo dipinto?»
Mi chiese e allora voltai lo sguardo verso di lui, distraendomi un attimo, ma lui non aveva tolto gli occhi dal personaggio all'estrema destra, che adesso indicava con un dito.

«Questo non è solo Mercurio. È quel giovane a cui è stata strappata la vita, quel lontano pomeriggio della santa Pasqua, nella basilica di Santa Maria del Fiore, macchiata ormai dal suo sangue.»
Strabuzzai gli occhi, rendendomi conto che somigliava molto a Giuliano de' Medici, per quanto mi ricordavo fosse il suo volto, rifacendomi alle rimembranze di quando non ero ancora andato in Università.

«È stata una bella azione dipingerlo. Suppongo che foste amici anche voi.»

«Era un bel ragazzo da usare come modello. Ma non è stato affatto per quello che l'ho ritratto. Lo vedi Cupido, sopra il capo della Venere, sul punto di scoccare una freccia?»

Io annuii con un mugugno e dunque spostò il dito seguendo la direzione della freccia della divinità e mi resi conto che stava puntando verso una donna di profilo, che ballava allegramente assieme ad altre due.
«Loro tre sono le tre Grazie. Secondo la mitologia, ovviamente. Lei in particolare è molto più di quello che sembra essere, noti come sta guardando sognante Mercurio?»

«Chi è lei?» avevo capito che quel quadro non era stato fatto unicamente per eseguire una commissione del Medici, ma forse anche per immortalare per sempre ciò che era finito troppo giovane.

«Si chiama Simonetta. Il suo cognome da nubile è Cattaneo, da sposata Vespucci.»  Ciò voleva dire che la donna era già sposata con qualcun altro. «E sai la cosa più tragica? Che Giuliano forse fu pure lieto di morire per poterla raggiungere in Paradiso. Forse era la sua Beatrice, lontana e illuminata dalla luce divina. Grazie a lei sarebbe diventato un beato, anche se temeva di essere dannato a causa del peccato dell'adulterio.»

«Ma che peccato c'è ad amare?» mi lasciai sfuggire dalle mie labbra in un soffio, senza accorgermene. Le mie parole avevano preso il sopravvento sulla mia mente e in quel momento non volevo far nulla per impedirlo, per cui continuavano ad uscire imperterrite. «Hanno solo seguito i loro sentimenti, nessuno di loro sarebbe stato in grado di impedirlo, forse erano promessi. Entrambi si sarebbero aspettati fino alla morte ed oltre la morte si sarebbero attesi all'inferno o in paradiso. La vedi come lo guarda? E ti immagini la luce chiara che lui osservò quando fu ucciso? Lei era venuto a prenderlo, è chiaro.»

«La sua salma aveva un angolo delle labbra incurvato verso l'alto.»

«Non l'avrebbe avuto se lei non lo avesse abbracciato a sé. Forse è stata proprio lei a portarlo via, stanca di aspettare, poiché, seppure fosse diventato un angelo del paradiso, quella era una dannazione peggiore della pena destinata a Giuda.»

«Ci ho pensato diverse volte. Ho voluto dipingerli comunque. No, non è vero, non volevo dipingerli, ma la matita si è-»

«Mossa al posto tuo perché ci stavi pensando. Ovviamente.»

I miei occhi erano fissi sulla figura della ragazza col collo girato verso sinistra, incantata dal bel ragazzo intento a cogliere un'arancia dall'albero. Era bella, giovane, dai capelli dorati e fluenti, dal corpo sinuoso e dalle vesti bianche e delicate. Esprimeva molta finezza, specialmente dalle sue piccole mani, le cui dita erano allungate e si accingevano a congiungersi con quelle delle altre Grazie. Venere era proprio lì, davanti a lui, che continuava a fissarlo intensamente, quasi come se lo giudicasse: era un giudizio tutt'altro che severo, ma comprensivo.

Era più che bella, era unica. Sandro era riuscito a dipingere ciò che era ineffabile. Non era stato bravo, non poteva avere un tale giudizio. Non era stato affatto bravo! Era stato il dipinto a farsi dipingere dalla sua mano ed ha preso vita. Era stata la Venere a presentarsi su quella tavolozza in legno ed era stata lei a dare ordini a tutti di disporsi in quella sequenza singolare. Era stata lei ad ordinare a Cupido di scagliare quella freccia.

Cupido non l'aveva ancora lanciata, però! Simonetta era già innamorata di Giuliano, ma l'Amore se ne è accorto troppo tardi e si è distratto: l'avrà usata per ferire profondamente i due e per sbaglio li ha segnati con il dolore di dover vivere separati.
E se fosse stata Venere a dare ordine di togliere loro la vita per permettere ai due di amarsi? Avevo brividi lungo tutta la schiena, avvertivo la voce melodiosa della ragazza dietro di me, anche se non l'avevo mai udita: con la sua gola stava componendo una magnifica e sublime melodia, le cui note si potevano identificare dallo sguardo che lei stava lanciando verso Mercurio: cantava la melodia dell'Amore prima ancora che la divinità le avesse dato uno spartito da seguire.

«Achilleo, va tutto bene?»

Mi resi conto che Sandro aveva pronunciato il mio nome circa tre volte prima che mi potessi rendere conto che ero entrato nel regno dei sogni.
I dipinti troppo grandi mi facevano questo effetto, finivo sempre per sognare ad occhi aperti e credere di stare nella scena stessa.

«Va tutto bene. Questo è il dipinto che hai appena fatto? Mi sembra che abbia una bella collocazione, se devo essere sincero.»

«È certo, l'ho scelta io anni fa quando lo consegnai. Non è questo il dipinto, quello nuovo dovrebbe essere nella sala qui accanto, penso.»

Lui cominciò a camminare nella stanza accanto, mentre io davo un'ultima occhiata a quella giovane donna davanti a me e al contempo le mie gambe seguivano il mio amico.
«Ah, comunque metà dei crediti vanno a Poliziano. Dovresti farti amico anche lui, sai, non è male. Anzi, non è affatto male ed è tanto intelligente, solo che a volte è cocciuto. Anni fa fece lite con Lorenzo perché la moglie non voleva che lui fosse il precettore anche del loro secondogenito. Poi ha mandato una lettera chiedendo di ritornare, forse perché aveva capito che doveva farsi due domande se Clarice non intendeva affidargli anche un altro figlio. Dopo questo episodio si è comportato meglio, almeno con lei, ma spesso fa delle scenate con le nuove conoscenze.»

«Mi sa che gli sto antipatico, a dir la verità.»

«Dimostra che non lo meriti. Sei bravo, non lo meriti per davvero.» Ridacchiai per il complimento: «Grazie. Che ha fatto Poliziano per ispirarti quel dipinto?»

«Ah, già: ha scritto un poema bellissimo e cavalleresco. Si chiama "Stanze per la giostra", che ha iniziato nel 1475. Purtroppo però ha dovuto rivedere la stesura del libro l'anno dopo, alla morte di Simonetta, e ha dovuto lasciarlo incompiuto per rispetto verso il nostro amico.»
Sapevo benissimo che aveva lasciato la sua opera a metà anche per l'enorme dolore: nessuno l'avrebbe biasimato, anzi.

«E sai una cosa? Cos'altro c'era da fare se non andare avanti. È stata tragica la loro storia, ma tacere per sempre e cercare di non far ritornare alla mente quei brutti ricordi era impossibile, per cui li ho resi semplicemente immortali. Sai come ho chiamato il dipinto?»

Scossi il capo, perché non me l'aveva ancora detto, ma era così ovvio il suo titolo che quasi mi diedi dello stolto per non averci pensato prima.
«L'ho chiamata "Primavera". Perché si sa che dopo la morte nasce la vita.»
Era proprio vero che gli artisti riuscivano ad avere una visuale più ampia degli stessi filosofi.

«Sei tanto colpito da lei.» constatò poi, notando che avevo ripreso a guardare la figura di Simonetta dalle morbide curve. «Sono sicuro che appena vedrai la mia opera più recente rimarrai ancor più estasiato.»
Non avevo intenzione di muovermi da lì, dato che volevo che quel momento proseguisse per sempre e intendevo osservare ancora e ancora lo sguardo d'amore della giovane donna, ma il fatto che Sandro l'avesse notato mi aveva provocato un senso di disagio.

«Non vorrai dirmi che è anche in questo dipinto...»
Lui fece cenno col capo e poi segno col dito, incitandomi a seguirlo ancora una volta.

Aveva ragione, ero rimasto tanto sbalordito da non riuscire a pronunciare una singola parola, come se mi fossero state rubate. Quella che avevo davanti era una figura meravigliosa, dalla bellezza ineffabile, che Sandro era riuscito a rappresentare con tutta la sua bravura e abilità.

Era lei, nelle sembianze di Venere, su una conchiglia; al suo fianco c'erano Flora, con un manto di fiori, e i Venti. La natura, in quel dipinto, era ancora una volta lo strumento musicale per suonare quella melodia celeste ed ero più che certo che quella donna, dai lunghi capelli dorati e dagli occhi con sguardo sognante e distratto, facesse invidia a tutte le altre divinità messe assieme, perché nessuna di loro era mai stata in grado di piegare ogni astro nella propria direzione in modo da creare una nuova dimensione, danzante a ritmo di voci melodiose.

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