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Quella donna mi aveva tolto ogni parola e a suo cospetto non ero in grado di mettere su un discorso di senso compiuto, meravigliato dalla sua presenza. Era esistita veramente? Aveva vissuto o era stata l'ombra di un angelo? Sandro mi portò via da quel luogo, ridacchiando poiché si sentiva colpevole di avermi "rotto".

Tutto tranne rompermi: aveva fatto sì che potessi andare in un luogo totalmente diverso, che non avevo mai visitato prima di allora. Era singolare, che si differenziava dalle colline del Magio condottiero e dalla stanza vuota dove Atena aveva pianto, guardando tutte le vittime della guerra proprio sotto ai suoi occhi, senza poter far nulla per impedire la loro morte.
Quel mondo dove ero finito era mistico e misterioso, governato dallo sciabordio delle onde e dall'ululato del vento, che si trasformava in un fruscio tra i rami e le foglie dello sfondo.

Era magnifica perché era Venere o perché era lei? Non ne avevo idea, ma non mi importava, perché ne ero attirato e, se fosse stato per me, sarei rimasto ad osservare il dipinto per ore e giorni, fino a crollare stanco sul pavimento, per poi riprendere la routine una volta sveglio.

Era strano pensare quello? Avevo forse qualche malattia mentale che mi portava ad avere una così strana considerazione di quella donna che neanche più esisteva? Oppure no, esisteva: l'avevamo detto che era diventata immortale, per cui era come se fosse ancora lì, viva e vegeta, con l'unica differenza di avere nome  diverso. Sandro mi confessò di quante volte in passato aveva usato la donna come modello, per cui aveva imparato ogni suo tratto a memoria e l'aveva utilizzato in molti dei suoi dipinti, trasformandola nella donna ideale, più che reale.
Passavo ogni giorno dei successivi quattro anni a riportare alla mente le sue forme ben delineate, i suoi capelli morbidi che sapevo che prima o poi avrei afferrato, le sue gote imporporate. Non era un giorno se non ci pensavo neanche per un minuto.
Ero diventato pazzo, ero pazzo! Pazzo a causa del paradiso. Forse è questo il motivo per cui si proibisce agli umani di osservare il paradiso prima della loro morte: la luce li abbaglierebbe troppo e li farebbe ammattire, tanto da voler addirittura tagliarsi la gola pur di ritornare in quel luogo dalle mille bellezze. Così, però, avrebbero commesso il peccato del suicidio e sarebbero finiti all'inferno, persino se mai fosse esistito qualcuno senza male congenito, destinato ad affiancare la Vergine.

Io l'avevo visto il paradiso! E maledetto il diavolo che mi aveva condotto in paradiso, perché poi ho voluto tanto ritornarci, volevo commettere il furto di quella tela pur di mettere in pace la mia povera anima, ma così dopo la morte sarei stato condannato alla dannazione eterna  come traditore degli amici.
Avrei tradito Sandro, che aveva tanto cercato di lasciarsi il passato alle spalle e che alla fine si era arreso, chiedendosi cosa altro avrebbe potuto fare, se non andare avanti. Aveva così ragione, ma io non ero affatto il tipo che abbandona il passato, non avrei abbandonato quella donna immortale e non avrei abbandonato l'arte che la avvolgeva.

Non avrei abbandonato quell'arte.

Forse sì, forse la amavo, la amavo! Ma era perché amavo l'arte: dunque per me lei era l'arte?
Probabilmente la ritenevo tale perché non avevo idea di cosa significasse la parola arte, per cui le avevo affibbiato un soprannome a cui non sapevo dare io stesso spiegazione: ero così disperato che era diventata la mia ancora di salvezza.

Chissà quanto avrei dato soltanto per osservare quei fluenti capelli muoversi al soffio di un vento che riuscivo ad avvertire anche io.

Un pomeriggio mi sedetti sul mio letto, incrociando le dita delle mie mani, chiudendo gli occhi e piegando il collo verso il soffitto e mi chiesi perché non avessi smesso di pensarci per così tanto tempo e cosa mi tenesse stretto a lei, come se mi avesse afferrato con una corda, così come si fa con le bestie a caccia. Ero caduto nella sua trappola mortale e volevo tornare a vedere il paradiso il prima possibile. Sbagliava Dante: il paradiso non era luce, era fatto da quel mare ritratto nella tela, composto dalle lacrime degli angeli tristi per tutti i dannati. Versavano lacrime anche per me, uomo ancora troppo giovane per capire di lasciare il passato al passato.

Cosa c'è di sbagliato nell'amare? La domanda l'avevo posta io stesso quattro anni prima e continuavo a pormela.
Cosa c'è di sbagliato ad elogiare quella donna che personificava la bellezza?

Volevo averla accanto a me, solamente questo era quello che desideravo, sebbene sapessi che dovevo ancora aspettare tanto, tanto tempo prima della morte, per poterla vedere coi miei stessi occhi.
Mi domandai se non era una grande offesa, quella che stavo facendo: quella musa non era mia, certo che no, ero infatti subentrato postumo alla sua morte da donna, per cui non avevo alcun diritto di volerla al mio fianco.

Che diritto io avevo in quel mondo dove tutto quanto procedeva senza di me? D'altronde non ero un artista, non avrei lasciato alcuna mia traccia sulla terra, per cui non c'era alcuna ragione secondo la quale io potevo esistere assieme a quel mondo.

Il suo volto me lo ricordavo in ogni suo singolo dettaglio ed avevo un foglio di pergamena sulla scrivania, accanto a tutte le carte che avevo da compilare per gli altri clienti. Mi alzai da lì e afferrai quel pezzo di carta, assieme ad una matita, ben affilata poiché la utilizzavo raramente, prediligendo l’inchiostro nel mio lavoro.
Chiusi gli occhi e feci rigirare la matita tra le mani, mordendomi il labbro. Tracciai le prime linee, con l'intenzione di farle rimanere in quella forma, senza trasformarle in qualche soggetto.

Non ero capace! Non valeva neanche la pena provare mai a far mutare delle linee.

Infatti non ero io a muovere la mano, forse era l'anima della Venere che desiderava farsi disegnare da me.
Sagoma degli occhi, forma del viso, accenno delle spalle e accenno dei capelli, pupille e riflessi negli occhi; il suo corpo che toccava la terra, il braccio che le copriva le nudità, le dita che afferravano una rosa, che lei era intenta ad annusare; lo stomaco solleticato dall'erba di quel campo dove lei si era posta. Era lei, era lei la Primavera, che portava la vita dopo la morte. Possibile che un soggetto già passato a miglior vita, era stato in grado di far risorgere un uomo ancora vivente? Ed era così bella, in tutte le sue forme delicate, con quello sguardo che mi toglieva il fiato, sebbene non fosse perfetta come la modella originale.

In quell'attimo, appena finito di disegnare la donna dopo tante ore seduto allo scrittoio, mi resi realmente conto che ce l'avevo finalmente accanto a me, così come la mia mente l'aveva desiderata.
Non era uguale a quella di Sandro, né tantomeno uguale alla Simonetta conosciuta da Giuliano, infatti non era lei che desideravo.

Non intendevo rubare la Simonetta del passato, perché non era di lei che mi ero innamorato, ma soltanto della sua idea ed ero stato in grado di disegnarla poiché avevo contemplato la bellezza nell'iperuranio e l'avevo copiata così come la mia mente aveva desiderato di fare.

Quanta bellezza, quanta genuinità! Era mia, era mia l'idea della bellezza, era mia quella strada per arrivare all'iperuranio! Maneggiai la pergamena con cura tramite solo quattro dita, un paio per lato, e la spostai prima da una parte poi dall'altra, in modo da osservarla da tutti i punti di vista.

Risi felice proprio come un folle, tanto matto che avevo bisogno di un urgente ricovero: mi aveva fatto impazzire la bellezza e l'arte e non mi riconoscevo più, non ero per nulla quell'uomo che compilava tristemente carte, rimanendo al posto suo. Contento balzavo per la stanza, dato che avevo avuto finalmente modo di avere tra le mie stesse mani il mezzo per creare l'arte.

Cos'era l'arte? Ogni forma, ogni singola forma. Era arte me che ridevo felice, arte il tonfo dei miei piedi sul pavimento che avveniva in velocemente, arte il cinguettio degli uccellini provenienti da un luogo al di fuori della finestra, che allegri cantavano la mia vittoria; arte era quel colore particolare del cielo miscelato alla luce del sole e mi sentivo ancor più folle a credere che nessun altro tra gli artisti si era mai accorto di averlo sotto il naso; arte era il campanile che intravedevo in lontananza, poiché si sorreggeva sebbene tutte le intemperie, e che era stato realizzato con cura immane; arte era il ricordo, tutti i ricordi colorati che si succedevano in veloce sequenza, quasi a formare una sorta di luogo dove tutti quanti erano custoditi, come fossero una collezione; arte era quel pizzicore del caldo che avvertivo sulla mia mano posta sotto i raggi del sole; arte era prigionia nella mia casa come era libertà nel mondo per intero. Arte era passato, era rimpianto, era maleducazione, era insoddisfazione, era imbarazzo, era tutto! Era quella luna che a quell'ora non riuscivo ad intravedere, ma che sapevo ci fosse oltre le nuvole e sapevo che aspettava trepidante di rincontrarmi; arte era la felicità, era creare pigmenti dei vari colori, era sorriso, erano i fiori, erano quei bambini che allegri saltavano per strada e giocavano con una palla in cuoio, erano quegli uomini che stavano andando a lavorare; arte era quel filosofo e scrittore fallito la cui vocazione era morta prima ancora che potesse cominciare, arte era quella collina da dove si poteva osservare il tramonto degli astri; arte era il futuro che, assieme al fato, sghignazzava per la stoltezza degli uomini; arte era tutto, tutto! Da Simonetta alla Venere, da Giuliano a Marte, dal me di prima al me di quel momento. Come potevo essere stato tanto cieco per non capire quale fosse la battaglia nella quale dovevo combattere? Dovevo soltanto rendermi conto di chi fossi e quale fosse la mia arte, dove trovarla e sapere che farmene: ero proprio un artista cieco, perché l'avevo sempre avuta sotto i miei occhi e non mi ero mai accorto che fosse qualsiasi cosa.

Era bastato una donna immortale e la sua anima per farmi rendere conto che non dovevo cercare di mettere su elmo e armatura al fine di mostrarmi un uomo valoroso, ma dovevo soltanto essere me stesso ed essere la mia arte. La timidezza faceva parte della mia natura? Cosa importava, andava bene così! Tendevo a portare il capo verso il basso per abitudine? Cosa importava! Volevo ancora compiere il mio sogno, ma non avevo il coraggio a causa delle decisioni che avrebbe preso mio padre, che mi rendeva impaurito del fatto che non avrebbe più potuto considerarmi suo figlio? Era quel che mi toccava di meno. Sì! Ero pazzo, pazzo di gioia: quella era stata la mia più grande idea, come se fossi un matematico che ha appena scoperto un importante assioma a cui nessuno prima ci aveva fatto caso.

Chi altri si era reso conto della verità, se non me? Mi sentivo tanto un filosofo, mi sentivo compiuto, avevo la certezza di essere arrivato a quel mondo delle idee, a cui tanto si era aspirato, prima di tutti quanti.
Mi presi un secondo per respirare e per mettere a posto tutti i tasselli che avevo per quegli attimi scomposto, sapendo che dovevo analizzarli con cura: prima di tutto avrei comunicato che non mi importava più fare quel dannato lavoro e poi avrei lasciato quella casa, mia prigione, nella quale l'afflizione era diventata la vera padrona. Poi dovevo correre da Sandro e condividere quello che avevo capito, dicendogli che volevo tanto entrare una volta per tutte nella sua bottega e inseguire il mio sogno.

Il destino e il fato non esistono, è chiaro! O se esistono, servono solo per essere contraddetti e per agire di testa propria.

Quelle divinità, che ironiche osservavano lo scenario umano, attendevano soltanto un colpo di scena, ma non si aspettavano che qualcuno decidesse di uscire dal palcoscenico, facendo loro smettere di ridere e cominciare a preoccuparsi. Io avevo capito il loro gioco, avevo capito tutto! Sandro sarebbe stato felice di sapere della mia conversione alla dottrina della vita, soprattutto dopo che io e lui non ci eravamo incontrati per qualche settimana, a causa dei nostri impegni. Non ero stato neanche richiesto da Lorenzo, per cui non avevo motivo per farmi ritrovare a Palazzo Medici, assieme a tutti gli altri, sebbene alcuni non fossero più assidui frequentatori dei nostri ritrovi.

Giunto nella zona medievale della città, dove le donne stendevano e sbattevano i tanti panni dalle loro finestre, mi precipitai a bussare alla porta della bottega del mio amico, che aveva casa al piano di sopra, ma appena mi avvicinai sentii la voce di Sandro chiamarmi in lontananza, in particolare da sopra al tetto.

«Sandro?» lo chiamai confuso, guardandomi attorno.

«Sono qui sopra!»

Alzai il capo, e lo vedi seduto sul muro che separava la sua casa da quella del suo vicino, con un grande masso tra le gambe.
«Che cosa ci fai lì?»

«Aspetto che il mio vicino esca. Ha un sacco di telai in casa e ogni giorno, dalla mattina alla sera, fa un fastidioso rumore che fa tremare tutte le mie pareti, non permettendomi di dormire. Quando ho provato a dirgli di smetterla, ha malamente risposto che in casa sua può fare quel che vuole: quindi adesso ho messo un masso più grande della sua testa qui sopra in bilico fino a quando non si renderà conto che deve smetterla, altrimenti si ritroverà qualcosa di rotto qui fuori. D'altronde, anche io in casa mia posso fare quello che voglio, non ho ragione?»

«Sei perfido, messere.» scoppiai a ridere scuotendo il capo, rendendomi ancora una volta conto di quanto fosse ironico e burlone quell'uomo. «Scendi, ti devo parlare.»

«Anche io, a dir la verità.» mise il masso dalla sua parte del muro e si affacciò verso di me. «Coraggio, devo ritornare fuori per minacciare il mio vicino di spiaccicarlo con un sasso.»

Scossi il capo, avvicinandomi alla porta ed aspettando che mi facesse entrare.
Non ero mai andato nella sua bottega e mi resi conto che era molto più confusionaria di come me l'ero immaginata: i pennelli erano sparsi persino per terra e c'era una tela bianca al centro della stanza, in attesa di essere macchiata da qualcuno. Quel giorno non c'era nessuno ad apprendere i trucchi del mestiere, né qualche giovane intento a creare i pigmenti del colore. Era come se quel luogo fosse chiuso per quel giorno e come se forse lì dentro ero anche un intruso o addirittura un ladro.

Mi girai verso di lui, che contemplava per l'ennesima volta tutte le cianfrusaglie che c'erano e che per lui erano disposte con disordinata sacralità.
«Ogni quanto metti a posto qui dentro?»

Lui si grattò il mento, guardando in alto e riflettendo: «Credo sia passato qualche mese dall'ultima volta. Dovrei farlo quando non c'è nessuno, ma in tali situazioni approfitto per riposarmi o per parlare con un amico.» sorrisi compiaciuto, tornando a guardare i pennelli sparsi qua e là.

«Volevo parlarti proprio di questo, comunque. Ti ricordi quella proposta che mi avevi fatto? Riguardo la bottega e il fatto che per me ci fosse sempre posto, anche se sono un po' vecchiotto per cominciare ad imparare.»

Sandro sgranò gli occhi, poggiando una mano sulla mia spalla, fiero delle mie decisioni. «Ma è magnifico! Non è mai tardi per imparare, non si sarà mai vecchi abbastanza. E poi sei ancora giovane biologicamente ed hai un sacco di cose da fare prima di essere considerato anziano.»

Io annuii, per poi sorridergli nella sua direzione. «A tal proposito, ho detto a mio padre di non voler più fare il notaio, anzi: gliel'ho urlato in faccia! E lui mi ha cacciato fuori di casa, ma non mi importa per nulla.» saltellai entusiasta, ma mi fermai quando mi resi conto che Sandro non stava facendo lo stesso e che, al contrario, mi guardava con confusione. «Perché non sei felice come lo sono io...?»

«Hai seriamente fatto questo?»

«Volevo cominciare a seguire l'arte e ad intraprendere un nuovo stile di vita che mi facesse essere felice una volta per tutte! Mi hai consigliato tu stesso di essere diretto e lasciare le mie paure alle spalle... no?»

«Sì, hai ragione, ma...» iniziò, visibilmente preoccupato. Alzò le mani tentando di dire qualcosa, ma ogni volta esitava, per cui camminò sorpassandomi e arrivando davanti alla finestra, guardando altrove. «Ma non era quello che volevo ti succedesse. Insomma, ti meriti di seguire le tue passioni, sei un bravo ragazzo, proibirtelo sarebbe scorretto, ma così facendo ti sei condannato ad una vita di miseria.»

Mi avvicinai a lui, in confusione. «Cosa...?»

«Serviranno anni prima che tu possa guadagnare qualcosa come artista, perché prima devi formarti correttamente e solo dopo ne sarai veramente in grado.»

«Non è importante! Mi guiderà il mio amore per l'arte, vorrei tanto disegnare Venere così come la disegni tu!»

Sandro allora si girò dalla mia parte, con sguardo grave e quasi severo. «Parli di Simonetta?»

«Parlo dell'anima di Simonetta!» risposi sempre con fare euforico, allargando le braccia. «È tanto bella, credo di essermene realmente innamorato! Vorrei disegnare divinità come lei: ridisegnare Venere, ridisegnare Atena. Ho immaginato addirittura Dioniso l'altro giorno e mi chiedevo se sarei mai stato in grado di renderlo reale su un pezzo di carta. Ma tu puoi aiutarmi! Puoi farmi un grande artista, tu puoi-» fui interrotto proprio da Sandro che scuoteva il capo rammaricato. «tu... non puoi?»

«Mi chiedo se quello che sto facendo nel ritrarre figure mitologiche serva a qualcosa. Savonarola, quel predicatore che l'altro giorno, a San Marco...»

«Non crederai forse alle sue parole per filo e per segno...» gli chiesi con timore, notandolo mordersi il labbro.

«Non credo alle sue parole, giuro. Soltanto che...»

«Sandro, per favore. Lo stesso Lorenzo non è d'accordo con le sue predicazioni!»

«Perché anche gli oppositori della famiglia Medici sono d'accordo con lui: sta conquistando un sacco di gente.»

«Te compreso, a quanto sto vedendo.»

«Ha parlato dell'Apocalisse sull'ambone di quella basilica...» disse a tono grave e basso, che esprimeva molto timore.

«Sandro...» sussurrai dopo secondi di silenzio, afferrandogli la mano quando capii che tremava dalla paura.

«Sento di aver sbagliato a dipingere del profano, corpi semi nudi e divinità antiche.»

«Quello che hai fatto è meraviglioso, hai fatto un lavoro stupendo e Dio ti premierà per la tua dedizione nel realizzare la tua arte.»

«No, tu non capisci!» alzò la voce, allontanandosi da me. «Tu non capisci... non ti rendi conto di quello che ho immaginato, del timore che provo.»

Volevo tanto proteggerlo, dicendogli incessantemente che nulla di quello che credeva sarebbe mai diventato reale, ma provare a convincere un uomo impaurito è ancora più difficile di convincere un uomo dal pensiero razionale.

«Hai ragione, non capisco.» gli dissi, guardandolo negli occhi, tanto che lui smise di indietreggiare, perché fui io a farlo al suo posto.
Non valeva la pena stare lì, a cosa serviva?

«Achilleo, ti prego, fermati. Non avevo intenzione di dire cose a te scomode, ma cerca di metterti nei miei panni.»
Rimasi sul ciglio della porta, con la mano sulla maniglia, fermato sul procinto di andar via.

«Non intendo biasimarti, ma prova tu a metterti nei miei panni: aspettavo da tutta la mia vita il momento in cui mi sarei convinto a superare tutte le mie paure per appropriarmi delle mie passioni, ma poi mi viene ancora una volta ribadito che non posso. Non posso. Non per colpa tua, ma è l'insieme delle cose che mi fa rendere conto di questo. Volevo solo essere un artista come tutti voi come avevo desiderato, tutto qui.»

«Ma puoi... puoi sempre diventarlo! Ci sono tante botteghe qui a Firenze. Parlerò io per te, chiederò a chiunque tu voglia di diventare tuo maestro. Ti prego, non abbandonare l'arte a causa mia e dei miei dubbi...»

Scossi il capo, ridacchiando amaramente. «Io voglio essere il tuo, di allievo: non lo capisci? Non capisci che voglio soltanto far sì che non sia mai successo nulla in tutti questi anni e che io sia ancora un giovane ragazzino che ti incontra per la prima volta nella bottega del Verrocchio? Non ti rendi conto che ho bisogno soltanto del tuo di aiuto per elogiare correttamente l'arte?»

«Hai detto che non è colpa mia, se mi parli così vuol dire che mi hai mentito.»

«Infatti non è colpa tua: è soltanto mia, perché ho creduto per una volta che io potessi essere l'unico padrone del mio destino, ma sono finito per innamorarmi stupidamente di una donna che neanche esiste più.»

Chiusi la porta, andando via da quella casa.
Non avevo vinto quella battaglia contro me stesso, non l'avevo mai vinta e mai sarebbe successo. Ero troppo debole e per sempre lo sarei stato.

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