Capitolo 10. If Darkness Had a Son - Metallica

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Il sibilo di una sirena mi fece sobbalzare sul sellino. Strinsi gli occhi stringendo il manubrio, affrettandomi a raggiungere il marciapiede con le mie due ruote, mentre l'ambulanza alle mie spalle mi superava, sfrecciando a tutta velocità in direzione dell'ospedale. Sabato. Giornata frenetica anche per una piccola città come la mia, in cui all'ora di chiusura dei negozi, qualsiasi bipede si riversava verso il centro senza un vero perché. Quel giorno non avevo programmi particolari, facendo eccezione per una serata all'insegna del divano, del Glovo, un riassetto generale non tanto della mia casa quanto della mia testa, con l'aggiunta di film mentali. Mi risistemai gli auricolari nelle orecchie e ripresi la mia pedalata verso casa, con If darkness had a son dei Metallica che picchiava dentro la testa come martellate.

Ripensai alle parole di Emma, quella sera, in cui mi trovò imbambolata fuori dal pub con ancora il telefono di Alex in mano. Ero uscita a fumarmi circa due o tre sigarette di fila senza sosta, osservando ripetutamente il volto di Dino, sorridente e scanzonato, bellissimo, con la mascella leggermente tesa, come se le sue labbra stessero per pronunciare qualcosa. Emma mi aveva riscosso con le sue mani secche e strette sulle spalle, costringendomi a guardarla: "Emi, ripigliati e chiamalo."

"E cosa gli dico?" avevo mormorato con stizza, escludendo quell'eventualità.

"Per cominciare gli chiedi chi è quella troia che si è avvinghiata a lui, poi puoi anche domandargli come procede il tour."

"La tocchi piano." Commentai, sfuggendo alle sue dita che si erano riappropriate del telefono del nostro amico, toccando il tasto laterale per abbuiarne lo schermo.

"Inutile girarci intorno, secondo me."

"Voglio sapere cosa ne pensa Alex."

Alex, nel frattempo, ci aveva raggiunte fuori, dopo aver pagato la sua bevuta e, nel prepararsi una sigaretta aveva detto la sua: "Emilia, fai una cosa. Dormici su, domani vi sentite e fai finta di nulla. Un uomo se si sente aggredito si chiude a riccio."

"Perfetto!" sbuffò, Emma, con disapprovazione, dandogli una leggera spinta, facendogli quasi cadere la sigaretta dalle labbra. Alex la strinse al volo tra i denti, barcollando all'indietro. "Gli ho appena consigliato di fare esattamente il contrario."

"È per questo che servono due migliori amici." Ribatté lui, tornando su di me che li stavo guardando, cupa, con le mani sui fianchi. "Ti diamo due opzioni, poi tu scegli la tua."

"O un mix delle due." Si intromise, Emma: "Tipo: ehi come stai razzadistronzoconquellatroia? Avete firmato il contratto con la Sony?" e sfoggiò un sorriso da psicopatica, che sparì dentro due labbra serrate nel giro di un secondo.

Alla fine, avevo veramente deciso di sentirlo, la sera stessa. Era stato un disastro, e la conversazione si era interrotta più volte per le eco di ritorno che mi restituiva il suo telefono dall'altra parte. Sentivo solamente una gran confusione, e la sua voce andava e veniva. Soprattutto, la connessione instabile mi faceva risentire la mia stessa voce ripetere le domande un attimo dopo averle fatte. Era stata solo una gran fatica. Ricordo pochi sprazzi:

"Mili, qui è incredibilmente pazzesco. Ci sono milioni di cose che devo raccontarti, ho conosciuto... aspettate un attimo, arrivo!" pausa indefinita "Ci sei? Mi senti?"

"Sì, Dino, volevo... "

"Quando abbiamo suonato al concerto di beneficienza, i Negramaro ci hanno chiesto di aprire il loro prossimo tour, roba bomba, credimi! Devi venire anche tu con noi. Come le vere groupie." scoppiò a ridere, conscio della mia avversione a questo genere di cose.

"Se riesco ad organizzarmi, mi piacerebbe davvero. Ma non sono una groupie." Bisbigliai, con il cuore che mi si stava lentamente sgretolando dentro il petto.

"Tu che mi racconti? Che si dice di nuovo?"

"Io... " mi bagnai le labbra, appoggiata al portone di casa, con le chiavi in mano. Scossi la testa ripetutamente: "Dino ho bisogno di... " Una risata mi aveva interrotto, di nuovo. Potei udire Dino chiacchierare lontano dal telefono, prendere il tempo per poter restare ancora con me. Ancora per pochi minuti.

"Scusa, Mili. Sto cercando un angolo dove ripararmi dal casino, che qui sembra carnevale. Ho voglia di sentire la tua voce senza interferenze. Ho voglia di toccarti. Di sentire il tuo profumo addosso a me."

Restai in silenzio, tappandomi gli occhi con la mano libera. Lui continuò, come spinto da una specie di flusso di coscienza, come se stesse parlando da solo: "Sto assaporando un tipo di vita che non so se mi appartiene davvero. Girano un sacco di soldi, Mili, soldi che non sono mai riuscito a vedere nemmeno sommando tutti i miei anni di vita. Non ho nulla in tasca, tutto quello che ho lo spendo per la mia musica, e sento di potermi perdere. Però, non lo so...quando parlo con te, mi sento meglio. Ragazzi vi ho detto di aspettarmi! Sì, anche a me, grazie." Nel frattempo, parlava con altre persone.

Cosa gli vuoi rispondere a uno così? Ero diventata una specie di confessionale, per lui? La telefonata mi aveva lasciata confusa e arrabbiata. Decisi di non pensarci più, fino al suo ritorno.

Entrai in casa, spingendo la bicicletta contro la parete dell'ingresso, mezza scrostata nel punto dove batteva il manubrio e cominciai a spogliarmi. Kobe si avvicinò disinvolto, cominciando a strusciarsi contro le mie gambe; Oreste rimase sulla soglia della cucina, osservandomi dubbioso: avrebbero mangiato, finalmente?

Mi diressi in bagno, sedendomi sulla tazza del water con il telefono in mano, decisa a preparare il mio ordine al Mc Donald's con tanto di coca-cola extra large, perché quella sera volevo farmi proprio del male. Una notifica su WhatsApp mi fece abbandonare momentaneamente quell'intenzione. Aprii il messaggio:

Natale sì

Era di Nicla, salvata semplicemente 'Nicla' nella rubrica. Annuii ripetutamente, leggendo anche la data sul display, il 26 settembre. Mi affrettai a rispondere:

E papà?

La sua risposta si fece attendere il tempo di una partita a Candy Crush. Le dita dei piedi mi ballettavano sopra le mattonelle lucide del mio bagno blu:

Sa già tutto.

Perfetto. Avremmo avuto un bel pranzo di famiglia allargata mancato anche quest'anno. Ogni anno si ripeteva la stessa scena, come in un loop inquietante: Nicla si aggiungeva alla tavolata del pranzo di Natale con mesi di anticipo, poi, esattamente il giorno 24 dicembre alle ore 23 avvisava con un messaggio che non avrebbe potuto partecipare per un evento o un altro aggiunto alla sua agenda, densa di impegni. Non ce ne facevamo un problema. La sua presenza destava sempre molta agitazione, soprattutto in Teresa, la vera padrona di casa Koll, che armeggiava abilmente tra i fornelli quando si trattava di nutrire marito e prole, ma quando si trattava di Nicla...

Trascorsi il resto della serata sgranocchiando patatine mosce e fredde inzuppate nella maionese, mentre Rick Grimes, gravemente ferito, faceva esplodere un ponte per evitare agli zombie di attraversarlo, mettendo in pericolo la sua gente e la società che tanto si era impegnato a costruire. Mi sdraiai sul divano, osservando distrattamente il bicchierone di coca-cola poggiato sul basso tavolino di vetro, che lentamente si stava sgassando e scaldando, diventando semplice acqua scura con un alto tasso di zuccheri. Qualche messaggio di Emma e le sue battutine taglienti mi manteneva sveglia, ma a un certo punto, presi coraggio, spensi la tv, sollevai entrambi i miei gatti dal mio corpo accaldato, li spostai delicatamente al lato opposto del divano e uscii dalla sala per raggiungere la camera da letto, sfiorando con delicatezza e apatia la porta chiusa della seconda camera da letto, divenuta rifugio di cimeli ed altri oggetti simili, mai utilizzata, nemmeno come stanza-studio.

Chiusi gli occhi in un sonno sereno, senza impostare la sveglia per il giorno dopo, senza nessuna voce a gorgogliarmi addosso. Il pensiero volò verso Alex, e alla sua vita totalmente diversa dalla mia, fatta di strilli, notti insonni, bavaglini, pannolini sporchi, ordini, varie rotture di coglioni che gli impedivano, a conti fatti, di viversi la sua vita pienamente, o forse era solo una mia impressione, dato che mi basavo solo su ciò che mi raccontava.

Mi venne in mente all'improvviso il ritornello di Come mai degli 883 e non riuscii a togliermela di dosso per un po', girandomi e rigirandomi nel letto con mugolii gutturali infastiditi. Mi tappai le orecchie, come se questo potesse servire a qualcosa. C'era un solo modo per togliersi dalla mente il motivo musicale che ti assaliva la notte quando cercavi di addormentarti. Cantarlo o suonarlo. E quella sera feci così, a cominciare dal mettermi seduta sul letto, sforzandomi di cantarla piano fino alla fine. Perché solo, e dico, solo se raggiungevi la fine del pezzo, alla fine questo se ne andava.

Le notti non finiscono

All'alba nella via

Le porto a casa insieme a me

Ne faccio melodia

Poi, come continuava? Cazzo.

Continuai con un Na-na, Na-na imprecisato e nasale, ricordando le note, mentre la mia voce impastata e totalmente priva di impostazione riempiva quel silenzio notturno. Chiusi per l'ennesima volta gli occhi. Mi sentii leggera e potei godere del silenzio della mia stanza, tanto disordinata quanto avvolgente, come il cuscino ergonomico che ospitava tutta la mia testa e i miei pensieri. Pensieri che ora lasciavano quelle pareti per abbandonarmi definitivamente tra le braccia di Morfeo. Possibile che ogni sera avessi bisogno di ascoltare una canzone, magari cantata da qualcuno?

Mi apri?

Osservai la luce accecante del mio iPhone, rileggendo a intermittenze quelle due parole. Sbattei gli occhi più volte, ritrovando il respiro regolare, dopo l'aritmia provocata da quegli strilli prolungati del campanello di casa. Non è possibile, mi dissi, sono le tre di notte.

"Ma che cazzo... " allontanai da me le lenzuola con delle pedate stanche, e uscii dal letto, annodandomi velocemente i capelli in alto sulla testa e controllando la mia faccia al grande specchio del cassettone, dopo aver acceso la luce che mi aveva immediatamente bucato le pupille con l'intensità di mille spilli. Il viso leggermente gonfio stava lentamente riprendendo la sua forma abituale e spigolosa, così mi affrettai a raggiungere la porta di ingresso.

"Che cazzo sto facendo." Mi ripetei in un sussurro, ancora tramortita dal sonno brutalmente interrotto.

Non appena aprii la porta, la faccia stravolta di Dino mi invase il campo visivo. La gioia e la sorpresa di trovarmelo davanti con tutto quell'impeto fu spazzata via in un soffio dal post del Jerry Thomas, apparso nella mia mente come un nitido e fastidioso ricordo.

"Mi dispiace averti svegliato. Pensavo di arrivare prima." Abbassò il mento sui due borsoni ai suoi piedi, e si grattò dietro la nuca, arruffando i suoi ricci ribelli davanti alla fronte.

"Cosa... Dino, cosa ci fai qui?" arretrai di qualche passo, permettendogli di entrare, e schivando il suo abbraccio appena accennato. Lo osservai trascinare le pesanti borse in casa mia, insieme alla sua chitarra adeguatamente rinchiusa dentro la sua custodia, lasciandole abbandonate nel corridoio che separava le varie stanze. La mia bici aveva compagnia, stasera.

"Ti avevo detto che saremmo rientrati domani. E in effetti è così, gli altri partiranno domani, cioè stamattina, tra poche ore. Ho voluto portare queste, per non lasciarle in macchina, l'ho parcheggiata qua sotto. Ma non si sa mai. Le lascio un attimo qui, ok?" Mi sorrise, riprendendo fiato dopo quella mitragliata di parole, con occhi stanchi ma vispi, indicando la sua preziosa chitarra.

"Hai fame?" chiesi, non sapendo che altro aggiungere a questa follia. Gli detti le spalle, resistendo all'impulso irresistibile di avvicinarmi a lui per baciarlo, e raggiunsi la sala, raccogliendo quel che restava del mio Mc Menu, coca-cola compresa.

Sentii i suoi passi seguirmi, cauti, mentre entravo in cucina, scostando la porta scorrevole con il fianco, e accendendo la luce del lampadario con il gomito teso. Poggiai i sacchetti di cibo sul tavolo, voltandomi di scatto per versarmi un bicchiere d'acqua.

"Grazie." Mormorò. Lo ignorai, sedendomi di fronte a lui, e preparandomi una sigaretta. Dino non toccò cibo, e mi osservò, guardingo: "Ok. A Emilia non piacciono le sorprese." Buttò lì, per smorzare la tensione, con un'alzata di spalle.

"Già." Osservai le sue mani cercare le mie, ma le ritrassi istintivamente, immaginando di sentire i fianchi di quella Josie sul suo tocco. Mi accesi la sigaretta, lasciando il fumo sospeso sul tavolino.

"Cosa posso fare per rimediare?" Dino si guardava intorno, disorientato.

Ora o mai più. Afferrai il telefono, cercando su Facebook la pagina di quel locale, scrollai velocemente sulla galleria delle immagini. Poi lo allungai verso di lui, facendolo scivolare sulla superficie liscia del tavolo di legno e osservai la sua reazione. La sua espressione cambiò di colpo: i suoi occhi si abbassarono sullo schermo del mio telefono cercando una risposta che in quel momento le sue labbra non trovavano.

"Che cosa è questa?" mi chiese poi, sollevando di nuovo gli occhi su di me, aggrottando le sopracciglia.

"Stavo per farti la stessa domanda."

"Mili, non ricordo."

"Ok, puoi uscire subito da casa mia."

"Aspetta, che vuoi dire? È una foto, cazzo! Una fottutissima foto con una stracazzo di fottutissima sconosciuta!"

Balzai in piedi, puntando l'indice sul suo viso: "Abbassa la voce, siamo in un condominio e hai già fatto abbastanza casino."

"Davvero mi stai cacciando per questa?" sventolò la foto sul telefono davanti ai miei occhi.

"Chi è." Chiesi, piatta.

"Non lo so."

"Stronzate."

"Ti ho detto che... ok, allora." Si strofinò le mani contro il viso per riscuotersi, restando seduto e buttandosi indietro sulla sedia, riordinando le idee: "eravamo in questo locale. Stavo raggiungendo Fabio e gli altri al lounge riservato e poi... " fece una pausa, sventolando in aria oggetti immaginari. Seguii le sue mani con lo sguardo, increspando le sopracciglia, restando immobile, continuando a non capire "mi sono fermato a salutare delle persone che erano venute a sentirci. Tutto qua."

"Tutto qua."

"Tutto qua." ripeté, annuendo, tirando la mascella e guardandomi dritta negli occhi. Poi si morse il labbro prima di continuare: "Il fotografo ci ha chiamato mentre attraversavo la sala, per scattarci una foto."

"A voi due."

"A noi due."

"E la mano?"

"Quale mano?" Dino era visibilmente agitato. Si stava trattenendo dallo scattare in piedi per lanciare qualcosa contro il muro, lo potevo visualizzare mentalmente. Potevo vedere quelle mani frenetiche afferrare un qualsiasi oggetto e scagliarlo lontano da sé. Deglutii. Pensai che, adesso che mi ero svegliata del tutto, potevo lasciar perdere, avevo tutto quello di cui avevo bisogno per lasciar perdere anche lui. Quella vita, quel sogno che stava inseguendo, le serate annebbiate da alcol e chissà cos'altro, non facevano per me.

"Chi è quella ragazza?"

"Te l'ho già detto, una che ci è venuta incontro per salutarci."

"È venuta da te a salutare te. Ti ha leccato il collo."

"Emilia, mi dispiace. Mi ha leccato il collo?" Si interruppe, sollevando il mento e guardando il soffitto confuso, ma poi riprese: "Ti ripeto." Sbatté le mani tese sul tavolino, l'una davanti all'altra, creando due barriere: "Non sono responsabile delle azioni degli altri. Lo sono delle mie, però." Le sue gambe ballettavano agitate sotto al tavolo.

"Delle tue."

"La smetti di ripetere le mie parole?"

"Te la sei scopata?"

"Cosa?" Dino allargò i suoi grandi occhi color nocciola, e il suo corpo smise di fremere di colpo: "No, che cazzo."

"Che cosa vuoi da me, Dino?" sussurrai. Non gli credetti, e dalla mia voce lo capì.

Restò in silenzio, osservandomi prendere di nuovo posto a sedere al tavolo davanti a lui con un rumore secco, senza staccargli gli occhi di dosso.

Ci fu un attimo di silenzio, carico di tensione, in cui ci fissammo seri.

Poi all'improvviso le gambe della sua sedia strusciarono con uno cigolio rapido e nervoso. Scattò in piedi.

"Tu hai una vaga idea di quello che ho fatto per venire qui stasera?" cominciò a urlarmi contro, mentre io lentamente mi alzavo per fermargli le braccia, intimandogli di smettere di gridare così. Ma Dino si divincolò, continuando a urlare e ad agitare le braccia in aria: "Sono venuto via prima, ho cambiato due treni regionali perché avevo pochi euro in tasca per prendere il Freccia, e per il resto della strada ho fatto l'autostop. Non ho neanche avvisato i miei genitori! Non vedevo l'ora di vederti per poterti raccontare tutto quello che stiamo facendo. Tu! Per una cazzo di foto di merda!" mi indicò. Poi si voltò, tornando nel corridoio e trascinando la sua roba alla porta di ingresso. Osservai i due borsoni strisciare blandi sul pavimento sotto le mani di Dino, che blaterava. "Non so cosa sto facendo con te e a quanto pare nemmeno tu. So solo che quello che abbiamo è qualcosa di... di... lascia perdere. Vado via." Lo raggiunsi prima che provasse ad aprire la porta.

Gli bloccai il polso, costringendolo a tornare su di me:

"Che cosa vuoi da me, Dino?" ripetei, con la voce incrinata.

Dino tentennò, evitò il mio sguardo.

"Voglio stare con te." Disse, infine, abbassando gli occhi lungo il muro al suo fianco.

Gli tolsi la cinghia della custodia dalle mani, poggiando delicatamente la chitarra a terra, e salii con le punte dei piedi sopra le sue scarpe, cercando la sua bocca increspata. Bruciava. Bruciava tutto lì in quelle quattro mura. Che cosa sto facendo? Mi chiesi per l'ennesima volta, mentre le sue braccia esitavano a circondare il mio corpo. Non deve correre così. È un folle. Gli sganciai con un gesto secco il bottone dei jeans, mentre lui provava a fermarmi, ancora offeso.

"Resta qui."

Dino, finalmente, si arrese.

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