Capitolo 12. Paper Bag - Fiona Apple

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Uno Steinway. Nero. Verticale.

Il mio pianoforte aveva subito due traslochi. Ciononostante, era forte e bello. Rappresentava per me quello che gli altri bambini chiamano dudù, il cencino, la mussola, che li accompagna dalla nascita fino a tutta l'infanzia, a volte anche oltre. Quel panno morbido, che porta l'odore della mamma, l'odore di casa e di rifugio, che ti tiene al sicuro dai mostri e che ti permette di dormire sonni tranquilli.

Il pianoforte era il mio dudù.

Ero una persona adulta, non dovevo dormirci insieme, non dovevo continuamente portarmelo addosso. Però sapevo che era lì, e che sarebbe stato sempre lì, con me. E sì, ne ero particolarmente gelosa.

Forse non amavo parlarne, come non si parla delle nostre ossessioni infantili, ancora inesorabilmente attaccate alle nostre abitudini 'da grandi'. Forse non amavo tanto pensarci. Però stava con me, mi proteggeva dai mostri notturni e i suoi tasti suonavano, nella mia testa, anche se restavano immobili. Erano rimasti fermi per anni. Certo, non mi dimenticavo di spolverarlo regolarmente, tenere pulita e ordinata quella stanza, l'unica, prima dell'uragano di Dino, che aveva sempre avuto ogni cosa al suo posto. Ma prima di quella mattina l'idea di riprendere a suonare non mi aveva ancora sfiorato la testa.

Non avevo più suonato davanti a Dino.

Però avevo suonato da sola, altre volte, grazie a Dino.

Ero una classicista, non una jazzista come papà. Interpretavo i brani, leggevo velocemente le note sugli spartiti con la stessa facilità con cui leggevo un libro, o una rivista, e in modo quasi automatico le mie mani si spostavano sui tasti seguendo l'armonia. Aveva ragione Dino. Ero un tipo da Mozart, o da Bach. Una brava esecutrice.

Ma c'erano giorni in quel periodo, pomeriggi particolarmente onirici e vuoti, in cui mi sedevo davanti al pianoforte, lo fissavo, come se ci stessimo parlando. La mia mano destra si poggiava sui tasti, cominciavo a muovere le dita, un po' a caso, un po' a sentimento. E la sinistra entrava dopo, timidamente, cercava di accompagnarla, ma restando sempre un passo indietro. Seguiva un motivo, una sensazione, quello che il mio corpo chiedeva. Poi smettevo di botto, alzandomi e cambiando stanza, lasciando la nobile arte di papà rientrare nei ranghi, da cui saltuariamente però faceva capolino. Era nel il mio DNA, in fondo.

Non ricordo il momento preciso in cui avevo chiuso il coperchio dei tasti per non rialzarlo più.

Si attraversa tutti quella fase inquieta, di pseudo consapevolezza e convinzione di sapere tutto, tipica dell'adolescenza. La mia era stata caratterizzata dall'avversione per Teresa e per tutto ciò che rappresentava. Tutte le mie energie in quel periodo erano concentrate ad attaccare lei, non esisteva altro, non esisteva la musica, solo lei. Aveva portato via papà da Nicla, lo aveva fatto in modo silenzioso e subdolo, era stato un crudele dispetto, uno strappo alla mia infanzia felice. Teresa era diventata inspiegabilmente e contro ogni ragionevole logica il motivo della mia infelicità. Quando fino a pochissimi anni prima era stata il mio sole, il mio rifugio caldo la notte, sotto le coperte. Ovviamente così credevo, che fosse la mia strega cattiva, e mi ostinavo a trattarla così male che la maggior parte delle volte la vedevo lasciare la stanza, coprendosi gli occhi per non farsi vedere piangere. Melanie restava in silenzio, esterrefatta da tanta spietatezza. Papà non riusciva a placare quei miei scatti d'ira immotivata: aveva provato con le buone, il famoso dialogo padre-figlia, aveva provato con le cattive, Ti tolgo telefono e uscita con gli amici per un mese se continui, ma con scarso successo. Devo aver detto tante di quelle cose brutte, io, spocchiosa e brutta adolescente grezza, con gli occhi verdissimi e arrabbiati, lingua tagliente come un rasoio, le braccia sottili che si agitavano come le zampe di un ragno. Non le ricordo nemmeno, quelle cose, perché poi, di colpo, è passato tutto. E Teresa lo sapeva che sarei tornata da lei. Era svanito il rancore, come la nuvola di fumo che quel giorno di novembre stava svanendo davanti ai miei occhi, mentre, dopo aver ancorato la mia bici al solito palo all'angolo, stretta nel cappottino di lana, alzavo la saracinesca del negozio. È passato il rancore, ma il pianoforte è rimasto chiuso.

Fino a questo momento.

Erano passati più giorni di quanto previsto, molti giorni, e Dino era ancora a casa mia. Avevamo spostato insieme dei mobili per fare spazio alle sue cose. La casa si stava riempiendo di colori nuovi, di libri, di quadri, di dischi che mancavano alla mia collezione. Lavoravamo entrambi, durante il giorno, lui a scuola e io a Grandi Sogni; quindi, approfittavamo del poco tempo libero rimasto per sistemare nel migliore dei modi quei pochi metri quadri a nostra disposizione. Il tutto sotto un'attenta supervisione dei gatti, i quali accolsero l'ingresso di Dino con un'aria di sufficienza, ignorandolo tutte le volte che provava ad accarezzarli, o sfuggendogli con una zampata fitta di artigli, le rare volte che provava a prenderli in braccio.

Dino suonava sempre la sua chitarra, nella Stanza della Musica, ormai l'avevamo nominata così. Suonava e scriveva i suoi pezzi. Li cancellava, accartocciava tutti i fogli facendone un mucchio disordinato alle sue spalle, e li riscriveva da capo. Spesso mi sorprendevo attaccata alla porta chiusa, ad ascoltarlo, assaporando quegli arpeggi che restavano impressi per sempre nei suoi spartiti. Adoravo il modo in cui toccava la sua chitarra, e quando toccava me, immaginavo di essere anch'io il suo strumento. O almeno, mi piaceva pensare che per lui fosse così.

La parete vicino al mio comodino era stata riempita di foto. Prima era solo una, un selfie di noi due, scattato dal suo cellulare: una foto sgranata in cui io ero uscita pure con gli occhi chiusi e la bocca semiaperta. Poi si erano aggiunte le foto fatte alle macchinette automatiche, quelle dei baci, quella sulla Big Bench davanti alla costa frastagliata del lungo mare, con Dino in piedi, le mani sui fianchi e un sorriso che scopriva tutti i suoi denti bianchi, come Peter Pan, ed io seduta a gambe incrociate con i capelli arruffati in una cipolla storta, le mani sotto il mento, come la classica Trilly imbronciata. Sono i nostri ricordi, mi aveva detto.

Troppo veloce, avevo pensato.

Ero stata travolta da questi cambiamenti senza neanche accorgermene. Come quando ascolti un'opera lirica, ti perdi in essa, nella storia che racconta, e non ti accorgi che la fine è già arrivata, devi alzarti in piedi e lasciare il teatro. Non volevo arrivare a quella fine.

Gli avevo fatto promettere di scrivere tutti i suoi pezzi, di svilupparli, di aggiungere i testi. Lo incoraggiavo, perché conoscevo il suo talento, la sua voce. Lui mi sorrideva, incerto. Non sapeva scrivere, mi diceva. Però poi ci provava lo stesso.

Aveva paura di tradire i Fabio.

"Per ogni pezzo che scrivo, tu scrivi la tua pagina di successo." Aveva aggiunto, un pomeriggio, spingendo il pollice su una corda e creando un arpeggio.

"Forse. Se te lo meriti..." avevo ribattuto.

"Per il tuo concerto di Natale."

"Ah ah ah!" risi, poco convinta, scompigliandogli i capelli e uscendo di casa, non senza prima sentire il suo Non ho specificato di quale anno, però... borbottato.

* * *

"Signora Teresa, queste costolette di maiale sono la fine del mondo. Non c'è nessuno che le fa gustose e succose come lei!" esclamò, a bocca piena, la mia infallibile amica Emma, invitata a un pranzo domenicale dedicato alla famiglia Koll. Il freddo bussava alle finestre della grande sala da pranzo, creando piccole condense agli angoli dei vetri, quando incontrava l'aria calda dell'interno della casa.

"Emma, come sei dolce. Grazie, faccio quel che posso. Finisci queste ..." le disse Teresa, mentre mi passava vicino con il vassoio ancora pieno di costolette e sugo profumato: "Perché non ti unisci a noi per il pranzo di Natale? Vieni con la tua famiglia."

"La ringrazio." Emma si pulì la bocca unta con il tovagliolo, prima di continuare. Giò, nel frattempo, mi aveva afferrato una ciocca di capelli e iniziato a ciucciarla: "Ma in famiglia siamo a pranzo a un ristorante vicino Bolgheri, siamo una vagonata di gente e non credo riuscirei a farli entrare in casa vostra, magari passo nel pomeriggio, ok?" poi si allungò verso mio nipote, spiaccicandomi contro la sedia, toccandogli le guanciotte paffute e mormorandogli con un repentino cambio di voce mielosa, da cartone animato: "Chissà cosa porterà Babbo Natale a questo patatino. Chissà?"

"Vieni Giò, andiamo un po' a nanna, ora." Melanie si alzò lentamente dal tavolo, raggiungendo il suo bambino e prendendolo in braccio.

Mi alzai automaticamente anch'io, raggiungendo mia sorella, mentre Alex e papà chiacchieravano delle ultime partite del campionato. L'uno interista, l'altro milanista, ma andavano d'accordo come due degni rivali.

"Ti do una mano, Melanie."

"Grazie Emi, non preoccuparti. Alex!" lo chiamò, isterica, dalla stanza da letto, dove aveva adagiato suo figlio per cambiarlo. Poi tornò su di me, con aria stanca, le occhiaie scure le rigavano gli occhi: "Non lavora solo lui, e deve capire che i genitori li facciamo insieme, non solo uno. Cioè io." Si lamentò.

"Che c'è, tesoro?" Alex si affacciò alla porta, poggiando la mano sullo stipite.

"Portami l'acqua e le coppette per favore, fai qualcosa anche te, dai. Muoviti!" sbuffò. Non gli dette nemmeno il tempo di raggiungere la borsa del passeggino che subito gli urlò: "Eri a fumare? Puzzi di fumo, Cristo santo!"

"Ehi." Le poggiai la mano sulla spalla, costringendola a guardarmi negli occhi: "Ti aiuto io, lascialo un po' stare." Provai a calmarla.

Melanie borbottò, cominciando a slacciare nervosamente il body di suo figlio, e trattenendo l'agitazione il più possibile nella voce: "Non ti ci mettere anche te."

"Lo tratti male. Non è giusto." Bisbigliai: "L'ho visto anche a pranzo, oggi. Non gliene passi una."

"Cosa sei tu? Mia sorella o sua sorella?" accarezzò la testa spelacchiata di Giò che aveva cominciato ad aprire la bocca verso il suo petto. Le presi dei cuscini su cui appoggiare la schiena, e con un gesto secco, si alzò il maglioncino largo e informe, scoprendo un seno gonfio e turgido, per cominciare ad allattarlo, nervosamente e con le lacrime agli occhi: "Non ne posso più, Emi. Mi faccio schifo. Sono grassa, ho i capelli sempre sporchi di vomito. Non perdo quei dieci chili che ho preso nemmeno se smetto di mangiare. Non dormo più di trenta minuti alla volta. E lui continua la sua vita, il suo lavoro, come se niente fosse. Credimi, è frustrante sentirsi così."

Mi sedetti accanto a lei sul letto, mentre le circondavo i fianchi morbidi accarezzandola con la mano.

"Mi dispiace. Cosa posso fare per aiutarvi? Magari vi porto un po' in giro il bimbo, così voi vi prendete un po' di tempo per stare da soli."

"Sarebbe del tutto inutile." Borbottò, infine lei, cocciuta.

"Eccomi." Appena vidi entrare Alex, li lasciai soli. Non potendo fare a meno di sentirli bisticciare sottovoce, lei mentre allattava Giò, lui mentre riempiva il bicchiere d'acqua per lei.

Tornai in sala, sedendomi accanto a papà. Lui, senza smettere di chiacchierare con Emma, mi circondò le spalle con il braccio, stringendomi a sé. Gli poggiai la testa sulla spalla, mentre osservai Teresa portarci i caffè e sedere a tavola con noi.

"Non mi avevi detto che avevi ripreso a suonare il pianoforte." Si girò a un certo punto mio padre, con una punta di curiosità, facendomi sollevare di scatto la testa per guardarlo. Lanciai poi un'occhiata a Emma, che aveva alzato le sopracciglia in un'espressione colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio.

Mi strinsi nelle spalle, sfuggendo al suo sguardo e preparandomi una sigaretta: "Non ho fatto nulla di che. Almeno non si sciupa." Minimizzai. Papà mi sorrise, incuriosito.

"Mi piacerebbe conoscerlo il ragazzo che ha risvegliato in te questa improvvisa voglia di suonare."

"E non solo..." si lasciò scappare, Emma, nascondendosi in un colpo di tosse forzato. Le tirai contro il bavaglino di Giò, rimasto sganciato a tavola.

"Emma, per favore." La rimproverai, sistemandomi le pieghe immaginarie della camicia che indossavo sotto il maglione. Tolsi qualche truciolo di tabacco dalla stoffa.

"Già, Emilia. Perché non inviti anche lui a Natale?" intervenne Teresa, scostando qualche briciola di pane sulla tovaglia, lontano da sé. Voleva praticamente il mondo intero, tranne Nicla. Ma non lo avrebbe mai ammesso.

"Idea pessima." Esclamai: "Non se ne parla."

"Perché, Emilia? Sarebbe fantastico conoscere finalmente il famoso Dino, di persona." Commentò, Emma, guardandomi significativamente negli occhi, e parlando a denti stretti, per sottolineare le sue ultime parole.

"Vi prometto che lo conoscerete. Ma non certo il giorno di Natale. Ok? Ora, tu" indicai la mia amica: "Usciamo a fumare in giardino, vieni."

"Ma io non fumo." Si lamentò, lei, incrociando le braccia al petto, comoda com'era in quella poltroncina di velluto della sala da pranzo.

"Però mi fai compagnia." La sentii sospirare rumorosamente, spostando la sedia da sotto il suo sedere, e accommiatandosi da mio padre e da Teresa con una mano morbida lungo il fianco, come l'estremo saluto prima di salire sul patibolo.

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