Capitolo 23. How to Build a Home - Cinematic Orchestra

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Incastrai gli auricolari nelle orecchie prima di qualsiasi cosa e accesi la musica dal mio iPhone. Raccolsi le mie cose per metterle nella borsa, e tenni per qualche istante il mio quaderno pentagrammato, con Emilia all'interno, davanti agli occhi. Decisi che avrei portato il brano in negozio, un'ultima volta, prima di registrarlo e spedire la demo ai produttori che aveva conosciuto Dino. Glielo avevo promesso ed era già passato quasi un mese dalla sua partenza, un mese in cui avevo cercato qualsiasi pretesto per stare chiusa nella stanza della musica, a suonare brani pescati da vecchi spartiti, ad esercitarmi. A isolarmi, con la sciarpa di Dino sul viso, immaginando di avere un pubblico ad ascoltarmi. L'odore della sua pelle era quasi svanito del tutto ed era stato sostituito dall'odore dei miei capelli, un non-odore, che non sentivo e che non riconoscevo come veramente mio. Il tempo scorreva molto lentamente, specialmente quella mattina di fine giugno, con la luce accecante di una giornata che pareva non avesse mai fine. Montai in sella alla mia bici, con la borsa a tracolla alle mie spalle, e imboccai la strada verso il centro, fermandomi all'incrocio.

Poggiai entrambi i piedi, chiusi in un paio di Converse lise e lisce sulle suole, per cambiare canzone prima di controllare la strada.

Rimisi un piede sul pedale scivolando leggermente in avanti e arretrai all'improvviso mentre frenavo sul manubrio e stringevo la mano tra il freno e il filo dell'auricolare, che vi arrotolai intorno distratta.

Mi voltai prima a destra, controllando che la strada fosse libera, poi a sinistra. Attesi che l'auto passasse e spinsi col pedale le ruote in avanti.

Cosa dicono?

Che prima di morire vedi passare tutta la tua vita davanti?

Non lo so.

Io non lo so cosa ho visto. Non ricordo cosa ho visto.

Forse perché non sono morta.

Forse perché ho battuto così forte la testa da ricordare vagamente un rumore sordo della mia tempia strusciare sull'asfalto rovente.

L'asfalto stava bruciando tutto.

In quella mattina di giugno, papà stava leggendo un giornale in veranda, prima di uscire a fare una passeggiata sul lungo mare. A lui piaceva vestirsi di lino e camminare a piedi scalzi sulla sabbia. Penso che, se fossi morta, avrei visto me stessa camminare sulla spiaggia mano nella mano con lui, come quando ero molto piccola. Avrei visto i miei piedi affondare sulla sabbia, sotto il mio peso. E l'acqua scorrermi fino alle caviglie prima della risacca.

Una scarpa era rimasta sull'asfalto. Aveva rotolato, inquieta, seguendo una strana traiettoria sulla linea bianca tratteggiata che divideva i due sensi di marcia.

Dino aveva attraversato la porta scorrevole dello studio di registrazione. Potevo immaginarlo, potevo vedergli la schiena, con le spalle un po' curve, intimorito. Con un cappellino grigio-amarezza ben calcato sulla testa. Avrebbe ricevuto delle pacche sulle spalle. Era il momento di registrare la voce.

In quella mattina di giugno, Teresa stava portando mio nipote Giò al parco, spingendo il passeggino, mentre Melanie era a lavoro. Non aveva fatto in tempo a imparare a camminare, che il piccolo Giò aveva deciso che nella vita si doveva correre. E da subito. Si doveva stare al passo con i bambini piccoli, noi grandi. Adorava salire sull'altalena, arrampicarsi sui castelli gioco del piccolo parco vicino casa. E Teresa adorava fare la nonna, quelle mattine. Si era messa gli occhiali da sole che gli aveva regalato papà, per ripararsi dal riverbero del sole.

Una ragazza si era messa la mano sulla fronte per ripararsi dalla luce accecante del cielo, osservandomi sulla strada, non poteva credere ai suoi occhi. Aveva cominciato a urlare.

Quella mattina di giugno, Alex stava attendendo che l'erogazione del caffè alla macchinetta automatica fosse pronta e conclusa. Quando Melanie lo aveva chiamato, aveva ancora il caffè fumante vicino alla bocca. Si era versato tutto addosso, scottandosi. Per questo, al pronto soccorso, era entrato di corsa e tutti lo avevano guardato, curiosi: aveva una grossa macchia marrone sul davanti della camicia leggera azzurra.

Papà rispondeva al telefono. Avevano recuperato i miei documenti dalla borsa. La mia borsa era aperta, tutti i fogli dello spartito di Emilia sull'asfalto rovente. Emilia era sull'asfalto, come una bambola di pezza. Non una persona reale, strusciata per qualche metro sulla strada.

Papà rientrava in casa, spargendo i fogli del giornale sul patio, in un fruscio che aveva rotto il silenzio di quel giardino idilliaco: mentre era al telefono, cercava le chiavi dell'auto, le cercava in tutte le tasche dei pantaloni, passava una manata brusca sul tavolo di cucina. Cadeva un vaso. Che ansia che ha la gente, quando ha fretta.

Nicla è stata la prima a essere chiamata da papà. Potevo immaginare la sua mano affusolata afferrare il telefono, non so perché, ma immaginavo una cornetta del telefono di quelli antichi, magari in avorio, di quelli con i fili ancora attaccati all'apparecchio. Non riuscivo a immaginare il volto, solo le labbra tese, le mascelle delicate e contratte. Le orecchie in ascolto.

L'ambulanza entrava in ospedale. C'ero io lì dentro.

Dopo Nicla, era stata chiamata Teresa. Teresa aveva chiamato Melanie. Melanie aveva chiamato Alex, che si era versato il caffè addosso. Alex aveva chiamato Emma mentre sbatteva la porta dell'ufficio e usciva di corsa, rischiando un ulteriore casino, tipo di rompersi un femore cadendo dalle scale, perché odiava gli ascensori. Diceva che aveva paura di rimanerci bloccato o, peggio, di trovare l'ascensore difettato con un sistema inceppato, che gli staccava tutti i fili e che lo faceva precipitare nei sotterranei del palazzo, rompendogli, appunto, entrambi i femori.

Emma aveva risposto al telefono fissandosi l'apparecchio tra la testa e la spalla, mentre decorava le unghie di una cliente. In un attimo, la cliente era stata sbattuta fuori dal negozio con solo tre unghie decorate e il gel ancora fresco. Emma era andata a lavarsi i denti nel piccolo lavabo del negozio. Chissà perché era stata la prima cosa che aveva pensato di fare.

Aveva chiamato Dino.

Ma Dino non aveva risposto subito. Non l'aveva visto, il suo telefono, lampeggiare come impazzito. Stava registrando, era felice ed emozionato. Il telefono lo aveva ripreso in mano solo la sera. Una miriade di chiamate perse.

Emma non è una che si arrende.

In sala d'attesa, a poco a poco, si erano riuniti i miei amici e la mia famiglia.

Ero fuori pericolo, me la sarei cavata con qualche costola rotta. Una spalla ricucita. Molte cicatrici.

Papà piangeva, in piedi, con le mani a coprirsi la faccia: era sollevato, spaventato, terrorizzato.

Potei vedere come se fossi stata lì con loro l'entrata dell'ospedale, le porte aprirsi al passaggio dell'ennesimo utente.

Una donna alta, eterea, i capelli biondi coperti da uno scialle di seta e altri tessuti preziosi, un tailleur chiaro, occhiali scuri e grandi che le coprivano il volto. Indossava dei mocassini.

Gli occhi puntati su di lei.

Lei che camminava dritta ed eretta come se non fosse umana: c'era una sola persona che stava cercando con lo sguardo nascosto dalle lenti. Papà. Si era abbassata lentamente gli occhiali. Chissà cosa si erano detti. Quali parole avevano usato per parlarsi, dopo tanti anni che non si vedevano l'uno di fronte all'altra.

Nicla.

Forse lei aveva chiesto di vedermi.

Avevo sentito dei rumori ovattati, proprio appena mi ero risvegliata dall'anestesia. Una voce dolce. Non capivo niente di quello che diceva.

Delle mani morbide che si intrecciavano alle mie in modo impercettibile, delicate ma presenti. Poi la vidi.

"Mamma." Sussurrai col movimento delle labbra.

Proprio mentre mi svegliavo, una scarica di scosse percorse tutto il mio corpo. Il dolore era arrivato come un pugno.

"Sh. Riposati, ragnetto."

Non riuscivo a respirare, il mio corpo era bloccato, stava bruciando. Stava bruciando la mia pelle. Provai a sollevare una mano, ma il gemito della ferita alla spalla mi bloccò. Mi pesava la testa. La sentivo completamente fasciata da garze ben strette e potevo vedere solo con un occhio.

Ero riemersa dalla morte, era cominciata la mia seconda vita.

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