Capitolo 22. The Heart Asks Pleasure First - Michael Nyman

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"Comunque io non capisco proprio."

"Cosa c'è da capire Emma?"

"Emi, questa girella per il porticato con un velo nero in testa per isolarsi e imparare a parlare. Seriamente? Non è credibile. Passami quella ciotola, va'." Mi afferrò la grande ciotola gialla che avevo tra le ginocchia, con i popcorn rimasti, per finirli di mangiare. Emma adorava sgranocchiare i piccoli resti di mais bruciacchiati o rimasti inesplosi. Il problema è che anch'io ero come lei e ce li contendevamo.

"Aspetta..." le dissi, indicandole lo schermo, per distrarla. Le sfilai di nuovo la ciotola e mi rintanai nell'angolo del divano, chiudendole il passaggio con le mie ginocchia fini piegate contro la mia testa. "Lei dice che si vergognava a parlare. Per questo si mette il velo sul viso e si esercita."

"Ma non poteva andare semplicemente da un logopedista?" sentii il peso di Emma spostarsi di nuovo su di me, e infilare una mano tra il mio braccio chiuso a conca sui popcorn e la mia coscia nuda. La lasciai fare, afferrando un cuscino su cui appoggiare i gomiti, e osservai Ada McGrath, la protagonista del film, venire circuita dal compagno mentre camminava alla cieca con il velo nero sul viso e si baciavano appoggiati alle assi in legno della loro nuova casa.

"Non credo che nell'Ottocento ci fossero i logopedisti, sai. Forse alla fine del secolo." Riflettei, cercando al volo conferma su Google...

"Vabbè, ci pensa lui a farle uscire la lingua. Guardate quant'è figo Harvey Keitel, ragazzi."

"Sono innamorati." Mi persi, come ogni volta, nel vortice tumultuoso della loro storia d'amore, nata dal brano The heart asks pleausure first suonato dalla protagonista, nel mezzo della spiaggia ventosa e umida neozelandese. Feci un sospiro, osservando l'ultima scena, immaginaria, di Ada agganciata col piede al suo pianoforte nel fondo dell'oceano, uniti per l'eternità. Adoravo quel film, lo conoscevo a memoria, eppure mi emozionavo sempre ogni volta che lo guardavo, costringendo i miei amici a rivederlo ogni tanto con me.

"Che finale enigmatico." Commentò Emma, bloccando l'immagine emblematica poco prima dei titoli di coda e pulendosi le lunghe gambe dalle briciole di popcorn: "mi inquieta ogni volta."

"È l'anima di Ada, intrappolata per sempre nel suo primo vero grande amore." Mi alzai anch'io, cominciando a togliere le bottiglie di birra svuotate, rimaste sul tavolo in una fila indiana deliziosa e disciplinata come i bambini all'uscita delle scuole elementari.

"Me l'hai già spiegato milioni di volte, ma continuo a vederci del macabro in questo."

"Si chiama metafora, Emma. Passami la ciotola, che le do una pulita dalle nostre ditate."

"Ma lei desidera veramente morire? Dai, rispiegamelo." La sentii seguirmi con passi saltellanti in cucina, mentre buttavo il vetro nella differenziata e sciacquavo la ciotola nel lavello.

"Non desidera morire, Emma." Cantilenai: "Lei ha scelto la vita, ha scelto George."

"Chi?"

"Harvey Keitel." Specificai il nome dell'attore che interpretava George.

"Scusa, io coi nomi..." mi fece l'occhiolino, strizzandomi un fianco: "Tra l'altro io sento solo sospiri in questo film, dialoghi poco o nulla. E culi ovunque."

"Ognuno ci vede quello che vuole, nel film, a quanto pare." Alzai gli occhi al cielo, mentre sgocciolavo la ciotola per poggiarla in alto, sulla piattaia, ad asciugare.

Il telefono sul ripiano di cucina cominciò a lampeggiare. La scritta Nicla sullo schermo. Poteva chiamare a qualsiasi ora, Nicla, anche alle undici di sera. Non aveva orari. Non aveva regole. Non aveva conformismi. Proprio come la nostra relazione madre-figlia. Osservai lo schermo, mentre Emma studiava la mia reazione.

"Vuoi rispondere, cazzo?"

"Sì, sì. Scusami." Lasciai la cucina con il telefono squillante in mano, mentre Emma restava ferma, in piedi a fissarmi. La sentii sussurrare:

"Vuoi che ti porti la sciarpa di Dino, così te la metti in faccia per sentirti isolata dal resto del mondo?"

La ignorai, chiudendomi in camera.

"Ciao, Nicla."

"Sono in Italia il prossimo mese. Comincia la programmazione di teatro. Saremo vicine."

"L'ho letto." Strinsi le labbra, osservando le foto con Dino, appese alle pareti. Lisciai i bordi delle cornici colorate, tirando fuori l'ultima domanda che avessi voglia di farle, ma che non potevo fare a meno di pronunciare: "pensi che... insomma... ci vedremo, mamma?"

Mentre attendevo la risposta, grattai distrattamente con l'unghia il chiodo rimasto appeso al muro, senza nessuna cornice, senza nessuna foto da sorreggere. Il bianco della parete disegnava un riquadro più chiaro nel posto che occupava quello scatto, tolto da Dino poco prima che partisse.

"Ti ho spedito gli inviti. Riceverai dei biglietti per ogni data che farò. Potrai anche portare qualcuno, se ti va, così avrai compagnia."

"Ma tu... Tu mi vedrai? Staremo insieme?" era questo il senso della domanda.

La lasciai interdetta. Mi lasciò in pausa, come lo schermo della mia tv in quel momento, poi finalmente rispose: "Sì, ti vedrò. Staremo insieme."

"Ok."

"E resterò anche questo Natale."

Certo.

"Va bene, notte, Nicla."

"Notte, ragnetto."

La sua voce calda e magnetica si spense tra le mie mani. Osservai il volto di Dino, un selfie che si era scattato dal tavolo di cucina: maglietta verde-pietà a maniche corte, mento appoggiato alla mano, espressione seria e quasi annoiata, ma quel guizzo di espressione seria che è pronta da un momento all'altro a farti una battuta. Capelli ricci schiacciati nel suo cappellino con tesa all'indietro, una collanina di metallo con ciondolo a forma di foglia a completare il tutto. Passai il dito sopra quel labbro arricciato, sopra il suo piccolo neo.

"Che ti ha detto?" sentii la voce di Emma alle mie spalle.

Accarezzai di nuovo la foto, aprendo completamente il palmo e nascondendo la faccia di Dino alla mia vista: "Ha detto che ci vedremo, si esibirà qui vicino, eccetera eccetera... queste cose qui."

Mi strinsi nelle spalle, e guardai oltre la sua spalla. Mi arrotolai i capelli, cominciando a torturarli sulle punte, osservandomele attentamente come se in quel momento fossero la cosa più importante del mondo.

"Emma, credi che riuscirò mai a capire mia madre?" chiesi, a un certo punto, osservando la mia amica sedersi lentamente sul mio letto.

"Non riusciamo a capire noi stessi, figuriamoci le nostre madri." Le fui grata di non essere quel tipo di persona che tira fuori esempi personali per argomentare un'opinione. Emma non tirava fuori sua madre, quando parlavamo di altre madri. Anche lei aveva i suoi problemi, le sue difficoltà, lei e sua madre erano decisamente due mondi paralleli, ma se non era pertinente alla discussione, non vedeva motivo di tirarla in ballo. Non era una qualità che trovavi in tutti.

"Che mi dici di quello, invece?" mi indicò Dino in una foto. Scossi la testa.

"Sta bene, ci siamo sentiti poco prima che arrivassi. Domani comincia a incidere le basi."

"Mh. Poi?"

"Che altro doveva dirmi?"

"Tipo che ti pensa, eccetera eccetera... queste cose qui?" mi imitò, sorridendomi e strappandomi un sorriso a mia volta.

"Quando è atterrato all'aeroporto ha detto che sono stata la prima persona a cui ha scritto."

"Wow." Commentò, ironicamente, lei, stiracchiandosi con le lunghe braccia sopra la testa. Le catenine che aveva al collo tintinnavano sopra la sua canotta nera.

"Ha detto che mentre era in aereo ha scritto un testo. Una canzone. Pensando a me, a noi due."

"Ok."

Poco prima di entrare nel gate, ricordo che Dino si era voltato verso di me. I suoi occhi si erano allargati in un'espressione da bambino: spaventati, sgranati di mille paure, emozionati e increduli. La sua bocca restava chiusa, il viso abbassato sul mio ad osservarmi. Gli avevo augurato buon viaggio, e lui mi aveva abbracciato così forte che mi era mancato il respiro. Mi ero sentita premere la testa contro il suo viso.

"Dino, mi manca l'ossigeno." Avevo soffocato dentro l'incavo delle sue clavicole scoperte, assorbendo allo stesso tempo il suo odore buono.

"Promettimi che chiami quei tizi, promettimelo, Mili."

"Te lo prometto se mi lasci uscire viva da qui." Avevo bofonchiato.

"Tienimi aggiornato." Si era staccato da me, tenendomi le mani. Mi aveva guardato, poi scosso di nuovo la testa e abbracciato di nuovo con uno scatto in avanti, provocandomi uno sbuffo: "Mi dispiace per tutto, Mili. Io ti prometto che troverò il modo per risolvere tutti i casini che ho in testa." Le sue parole sussurrate tra i miei capelli furono come una carezza calda, che accolsi stringendo gli occhi, quasi per trattenerla dentro di me.

"Va bene, Dino. Ora vai perché stai rischiando di perdere il volo."

"Ti scrivo." Mi aveva preso per le spalle, come per darsi la spinta a raggiungere l'ingresso del gate.

"Vai." Mi ero messa a ridere, mentre Dino correva all'indietro, senza smettere di guardarmi.

Appena aveva passato gli ultimi controlli, era sparito dalla mia vista, confondendosi con la folla degli altri viaggiatori. Una testa nascosta da un orribile cappellino di tela, la chitarra che sbatteva sulla sua schiena, che a poco a poco era sparita dietro le porte scorrevoli. E non mi ero accorta che le lacrime rotolavano a tutta velocità sul mio viso. Mi ero messa a ridere da sola, portandomi una mano alla tempia per come mi ero ridotta.

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