Capitolo 39. Primavera - Ludovico Einaudi

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"Fai finta di dormire. Così."

"Così?"

"Così, Emilia. Perfetto. Mento in alto. Non troppo in alto, sollevalo come se stessi volando."

"Volando e dormendo?" mi bloccai a mezz'aria, con le mani che reggevano un velo azzurro davanti alla mia testa. Il velo volteggiava spinto dall'aria vorticante di una ventola.

Il fotografo regolò il suo grande obbiettivo a due metri da me. Ero in piedi su un set totalmente bianco: pavimento bianco vetro, parete idem, bianco vetro. Il mio vestito era bianco e ampio, come una nuvola, ma non era quella l'inquadratura della foto che stavano cercando. Cercavano l'immagine iconica che mi rappresentasse al meglio. Cercavano l'originale di tutte quelle che stavano commercializzando in giro senza un vero e proprio consenso. L'hashtag del #velosulviso aveva mitragliato talmente bene le coscienze digitali che, un giorno che camminavo per strada, avevo persino visto delle maschere in una vetrina di un negozio che riproducevano lo stesso mio velo ma in formato ridotto, per far travestire i bambini o le bambine nel periodo di carnevale. Adesso, il mio agente Galli aveva dato uno stop a questa monetizzazione incontrollata della mia immagine senza nessuna autorizzazione.

Ci avevo messo del tempo a decidere che cosa fare. Avevo bisogno di raccogliermi ancora in me stessa, ancora per un po'.

In albergo, la mia camera era abbastanza spaziosa, giusto quel tantino per poter disporre, oltre al letto e a una mezza anta di un armadio, di un mobile a tre cassettoni con uno specchio grande nella parte più luminosa della stanza. Tutti i miei spartiti giacevano sparsi sul pavimento, disordinati come era un tempo il mio appartamento.

Una mattina, di quelle languide e tranquille, poco dopo la fine delle registrazioni, mi ero attardata davanti a quello specchio, osservandomi dietro il velo, pronta per uscire a prendere il mio caffè macchiato al solito, prevedibile, bar.

Avevo fissato i miei occhi verdi intensamente, nel riflesso. Occhi inespressivi, senza luce, senza il brillio a ricordarmi anche solo una piccola parvenza di ciò che ero prima. Mi ero portata le mani sugli zigomi, avevo premuto i polpastrelli sulla pelle, infilandoli dentro la maschera, e sollevandola piano. I miei capelli erano ordinati in un taglio poco sotto le orecchie, mossi ma morbidi, curati, da 'grande'. Vecchia, quindi, pensai. Non osservavo così spesso il mio taglio, ultimamente. Il mio sguardo si spostò dai contorni della mia figura verso il centro del viso. Il naso, identico a quello di Nicla, le labbra rosa acceso e piegate perennemente in una smorfia, trattenute dal mento stretto che impediva loro di allargarsi in un sorriso. Sollevai gli occhi, ripercorrendo gli strati della cicatrice sinistra, che aveva subito svariate modifiche dal primo anno dell'incidente. L'angolo dell'occhio era stato trattato ma continuava una piega discendente verso il basso, verso il padiglione ancora mancante dell'orecchio. Voltai il viso verso destra, senza distogliere lo sguardo da me stessa, portandomi una mano su quella parte di pelle, dura come cuoio. Le mie dita camminarono lungo la linea di demarcazione, che, dall'angolo dell'occhio, virava verso la mascella, e mentre mi passavo il dorso delle dita sotto il mento, mi misi di nuovo frontale.

Vero, non ero più la stessa. Gli altri non avrebbero potuto mai capirlo. Potevo però aiutarli. Potevo far loro capire che si poteva convivere con questo, era un volto diverso da quello di prima ma era sempre un volto. Scossi la testa, afferrando il velo per indossarlo nuovamente, prima di uscire.

Inutile provare ad autoconvincermi. Avrei tolto questa maschera per il servizio fotografico e nient'altro. lo avrei fatto solo perché nello studio del set sarebbero state presenti solo poche persone oltre al fotografo: Marco Galli e due collaboratori che avevo già conosciuto e pensavano solo alle luci giuste da regolare.

Guardai oltre l'obbiettivo, cercando di interfacciarmi con il fotografo. Lui annuì, alzando una mano e io mi misi di profilo, mostrando il lato destro: alzai il velo davanti a me, tenendolo con entrambe le mani, lasciando che il vento simulato lo sbatacchiasse in avanti, come se volesse sfuggirmi. Appena ricevetti il segnale dal tecnico, lo alzai sul mio viso e la direzione del vento cambiò diametralmente rotta, abbattendosi verso di me. Feci aderire il velo completamente sui contorni della mia pelle, dal mento in su.

"Perfetto! Vai. Così. Ferma ancora un po'." Mi disse il fotografo, e una serie di click in rapida successione mi immortalarono per sempre.

Lo stesso stilista dell'abito del servizio fotografico aveva disegnato il mio completo per quella sera. Un abito, bianco ghiaccio, che arrivava a metà coscia e i suoi bordi erano una cornice di spessi strass dorati, con una sola spallina intrecciata dietro le spalle. La spalla sinistra completamente libera, completamente scoperta. Non avevo nascondigli per la mia lunga cicatrice, che solcava la mia pelle come la scia che lascia un motoscafo su un mare tranquillo. La prima volta che l'avevo visto, anche lì, ero rimasta delusa. Ma Tomaso Alessi, che era con me e il mio agente, mi aveva afferrato per il gomito, costringendomi ad ascoltarlo:

"ERK, noi siamo umani. La nostra natura è questa, è l'imperfezione nella perfezione. Tu sei l'esempio lampante di questo. Vuoi tenerti il velo alla première? Tieni il velo alla première. Ma indossa questo abito."

"Guarderanno la cicatrice." Mormorai, abbassando gli occhi.

"Guarderanno il film." Specificò Alessi. Dubito che il suo fosse un mero incoraggiamento, anche se mi piace ancora pensare che fosse così. Che mi trattasse come una figlia, di quelle figlie che hanno bisogno di essere costantemente confortate.

"Entrerai al mio fianco. Siederai al mio fianco. Nessuno ti farà domande strane quando attraverseremo la passerella. E se te ne faranno, rispondi come ti pare, basta che tu faccia parlare del film. Se tentenni troppo, ci sarò io vicino a te e risponderò al tuo posto." Asserì, in modo indiscutibile.

Poco prima di lasciare la stanza dell'albergo, stetti un tempo imprecisato davanti alla portafinestra che dava sul piccolo balcone, con il telefono in mano. Mentre rispondevo ai messaggi di chi mi stava mandando gli auguri, mi passò sotto gli occhi l'immagine screenshottata di una foto presa online. Il messaggio era di Alex:

Beccato 🫥

E sotto il testo la foto di Dino. Era sfocata, come se fosse stata presa da un video. Capelli castani, mossi, lunghi fino alle spalle, le punte celesti, profilo teso, chitarra imbracciata, maglietta nera a maniche corte, jeans neri. Stava suonando al suo concerto, la didascalia sotto ImaprettyDino indicava New York come posizione condivisa. Era di qualche giorno fa. Alzai di scatto gli occhi al vetro, cercandolo oltre l'oceano che ci separava, trapassando la strada trafficata di Roma, sbatacchiando oltre le auto bloccate nei suoni di clacson e ambulanze che non riuscivano a passare tra i veicoli.

Cercai i suoi, da qualche parte. Immaginai di svegliarlo, di soprassalto, dopo una nottata, nel fuso orario che ci divideva. Immaginai i suoi occhi color nocciola riprendere a poco a poco a fuoco l'ambiente attorno a sé.

Vidi Dino, seduto su un letto disfatto a guardare un punto fisso con le labbra socchiuse, ritrovare il respiro regolare dopo l'incubo che l'aveva svegliato. Distolsi poi lo sguardo da quel vetro, immaginandomi che delle braccia calde e sensuali lo stessero rimettendo giù, sdraiato. Accanto a un'altra donna.

Alessi aveva ragione su una cosa. Avevamo attraversato la passerella sotto gli occhi degli altri ospiti, dei fotografi e dei giornali delle più importanti testate nazionali ed internazionali, senza imbarazzo né agitazione. C'erano talmente tante celebrità che il passaggio del regista fu solo uno dei tanti, il mio velo solo uno degli abbigliamenti stravaganti tra le altre attrici presenti. Solo in pochi avevano intuito che io non fossi un'attrice ma solo una compositrice. ERK.

Avevo visto un microfono peloso sotto il mio naso apparire all'improvviso, mentre camminavo a braccetto con Alessi.

"ERK, la tua musica farà impressionare il pubblico? Lo emozionerà?" mi disse una voce urlata nell'orecchio. Mi passai la lingua tra i denti, e presi fiato, annuendo e provando a ignorare i flash intermittenti e le telecamere puntate dritte su di noi.

"Sì." Rimasi con la gola secca e mossi le palpebre in alto e in basso ripetutamente, poi continuai a balbettare: "Sì... sicuramente." Presi coraggio e attinsi a una recondita abilità di svincolarmi da ulteriori domande su di me: "il film di Alessi è straordinario." Guardai il mio accompagnatore, che mi sorrise amichevolmente a denti stretti: "ho solo cercato di seguire la scia delle sue atmosfere per poterlo rappresentare al meglio, attraverso la mia musica." Mi strinsi nelle spalle, sentendo il brivido dell'aria gelida percorrermi la cicatrice. Prima che venissi accerchiata da altri giornalisti, sentii Tomaso spingermi in avanti, senza farsi vedere, salutando il suo pubblico e sorridendo a destra e a sinistra muovendo la testa.

Continuammo a camminare verso l'ingresso della sala proiezioni, prendendo il nostro posto nelle prime file, seguiti dagli altri membri del cast, attori e tecnici. Dietro di noi, i partecipanti alla première, per lo più autorità e altre celebrità invitate con lettera speciale.

Alessi, però, non aveva previsto quello che avrei sentito dopo, durante la proiezione.

Socchiusi gli occhi non appena le luci del cinema si spensero, e lo schermo gigante si accese. Il buco allo stomaco si aprì subito in una grande voragine, fin dalle prime scene. Non riuscivo a seguire più il film: quei tasti, quelle note, gli arpeggi degli archi che accompagnavano il mio pianoforte mi davano insieme gioia e dolore. Mi stava mancando il fiato e quella sala, seppure così grande, mi stava soffocando, stava diventando piccola, minuscola, impedendomi di respirare normalmente. Guardai Alessi con la coda dell'occhio: assorto nella visione della pellicola, sguardo serio e concentrato, mento appoggiato a una mano, in un silenzio tale che sembrava non respirasse nemmeno. Una statua di marmo accanto a me. Mi portai la mano alla gola sforzandomi di fissare lo schermo gigante della sala e vedendo solo nero, le pupille pizzicarmi forte dentro le cornee, le guance diventare gelide e dure. Non volevo disturbarlo, dovevo gestire questa cosa.

Dovevo imparare a gestirla.

Cosa mi stava succedendo ancora?

C'era la mia vita lì dentro.

C'era quel dolore che avevo buttato fuori, che avevo letteralmente rigurgitato. Provai a deglutire la saliva secca intorno alle labbra, sentendo la bocca fatta di gomma asciutta, la lingua gonfia. Iniziai a sudare dentro il velo, e mi sforzai di abbassare le spalle, che avevo contratto fino a stringerle forte in me stessa. Le mani stringevano i braccioli della poltrona, affondando le unghie dentro il velluto. Buttai indietro il collo per sciogliere la tensione che sentivo addosso.

Dovevo uscire da lì.

"Va tutto bene?" mi sussurrò Alessi, che si era girato a osservarmi preoccupato.

"Sì. Sì, devo solo uscire un attimo." Gli balbettai, senza fiato. Sentivo che stavo per vomitare. Mi allontanai dalla sala, accucciandomi per passare lungo le pareti, appoggiai le mani sui pannelli insonorizzati del cinema per cercare l'uscita, ma trovai subito un maniglione antipanico. Antipanico, pensai ironicamente. Sei venuto a salvarmi. Spinsi con le braccia la maniglia verde, e uscii nel corridoio del retro della sala proiezioni, cominciando a camminare appoggiata alla parete, iniziando a crollare nel momento in cui realizzai che non avevo la minima idea di dove mi trovassi. Mi accasciai a terra, tenendomi il collo con entrambe le mani, e appoggiando la schiena alla parete.

Uccisa da un attacco di panico. Mi dissi ironicamente. Sentii il fiato sempre più debole, socchiusi gli occhi aspettando di concludere quell'agonia. Ma forse non era neanche quello il mio giorno. Sentii una mano scrollarmi violentemente la spalla.

"Ehi, ehi!"

Mi riscossi da quella voce dura contro di me, e da tutti quei movimenti in avanti e indietro, mentre mi sentivo spostare dal muro al braccio di qualcuno.

"Cos..." la mia mano mi copriva il volto con un senso istintivo di protezione, ma lui me la tolse bruscamente. Mi scrollò la schiena, facendomi ondeggiare il collo come una bambola di pezza.

"Emilia, devi toglierti questo cazzo di velo."

"Andy..." bisbigliai stizzita, buttando indietro la testa. Piegai le gambe nude, facendole strisciare sulla moquette del corridoio.

"Sì, sono io. Ti ho vista uscire ed eri strana. Più del solito."

"Sto... io sto..." mi salirono le lacrime agli occhi. Non volevo essere vista così. Con la mano scostai la sua dal viso per coprirlo di nuovo.

"Ti manca davvero l'ossigeno, stavolta."

"Non respiro..." iniziai ad ansimare e buttai indietro le pupille.

"Appunto!" sentii la mia testa appoggiata alla sua spalla, il suo fiato scostarmi delle ciocche che spuntavano sotto le orecchie. Il suo corpo potente chino sul mio. Sollevai appena le palpebre, e incontrai i suoi occhi color ambra accesa e fissi su di me, con un'aria di estremo rimprovero: "ok. Emilia. Ok." si bagnò le labbra: "Vado a cercare aiuto, sei dello stesso colore di questo vestito."

"No... non..." gli tirai debolmente il bavero della giacca aperta, scorgendo la sua camicia bianca sbottonata. Avevo paura a restare sola. Ma non riuscivo ad articolare nessun'altra parola.

"Cerca di respirare."

Annuii, chiudendo gli occhi, mentre sentivo che si metteva più comodo, sul pavimento di quel corridoio, accanto a me, creando una specie di barriera di cemento armato fra me e il suolo. Il suo viso cercò il mio con uno scatto, impedendomi di distrarmi.

"Qual è il tuo film preferito. Dimmi il tuo film preferito. Escluso questo, s'intende."

Lo fissai incredula. Come era possibile che potesse chiedermi una cosa del genere mentre stavo affogando in me stessa.

"No... nessun film... serie. Serie tv." Ansimai.

"Ok. Qual è?"

"Sa..." roteai gli occhi, cercando di concentrarmi. "Sandman."

"Mai sentita." Scosse la testa, piegando la bocca all'ingiù, schifato: "e di che parla, Sandman?" sentivo che mi stava ancora sostenendo il corpo con il suo braccio, e si era addossato alla parete, dando un'occhiata in giro di tanto in tanto.

"Par... parla del dio dei sogni, che viene intrappolato." Presi fiato, riordinando le idee: "passerà molto tempo sulla terra a recuperare gli oggetti che gli hanno rubato, e comincerà ad ammazzare molta gente cattiva, fra cui anche uno dei suoi incubi che è scappato e che..."

"Che trama di merda."

"Ehi!" mi risollevai di scatto sulla schiena, sentendo le dita delle sue mani staccarsi dalla mia pelle. Strinsi le labbra, soffocando un lieve sorriso: "È tratta da una graphic novel molto famosa. Ed è bellissima." Mi accostai al suo viso facendogli una smorfia. Osservandolo da così vicino, mi accorsi per la prima volta di due macchioline di lentiggini che gli tingevano la punta del naso, dandogli un aspetto puerile e ribelle.

"Non mi fido molto del tuo giudizio, non chiedermi perché." Sbuffò, alzando un sopracciglio, ironico. Poi mi aiutò ad alzarmi, prendendomi per gli avambracci. Tenni il volto abbassato, scostandomi un attimo il velo dal collo, mentre sentivo che le sue mani facevano lo stesso, seguendo il movimento delle mie: "stai meglio, adesso." Mi disse, guardandomi dritta negli occhi con uno sguardo che non ti permetteva di concentrarsi su altro. Deglutii.

"Sì. Sì." Annuii ripetutamente, sentendo le guance riprendere colore in un attimo, la salivazione aumentarmi di colpo. Il respiro farsi più accelerato.

"Non ringraziarmi." Mi lanciò un'occhiata di sufficienza, facendomi la lastra dall'alto al basso, e poi di nuovo in su. Di nuovo quello sguardo strano. Fece per voltarsi e tornare in sala, ma io lo bloccai per il polso, rischiando di slogare il mio, nella presa.

Osservai il mio stesso gesto, stupendomi e incapace di spiegarmi a parole questo desiderio di trattenerlo a me. Lui mi esaminò a fondo, facendo un passo indietro, e restando in un silenzio interdetto. Io scossi impercettibilmente la testa.

Cazzo, io lo sapevo sì, cosa volesse dire.

"'Fanculo, Andy."

Mi lanciai verso di lui nel momento esatto in cui faceva lo stesso, verso di me. I nostri corpi si scontrarono con un colpo di fuoco, fruscio di abiti e bocche sbattute l'una contro l'altra, aprendosi l'una sull'altra, mescolando i nostri sapori, assaggiando instancabilmente ogni singolo strato di pelle che potessero raggiungere. Mi sentii mangiare da lui, mentre mi spingeva contro la parete, tenendomi la schiena con una mano, premendomi il fianco con l'altra, che cercava l'appiglio della mia pelle, aprendosi e chiudendosi, stringendosi e allentandosi continuamente, come se volesse afferrarmi tutta insieme, tutta in una volta. Le mie mani erano arpionate al suo collo, impedendogli di togliere la sua bocca dalla mia. Sollevai di scatto la testa, staccandomi dalle sue labbra inquiete, pronte ad accogliermi di nuovo per divorarmi. Ci guardammo, increduli l'uno di fronte all'altra, ancora intenti a respirare con affanno.

"Emilia..." mi portò una mano sulla guancia. Gliela fermai lì, con la mia: "Tu..."

"Lasciami stare." Chiusi gli occhi, ritraendomi dai suoi, magnetici, che stavano scavando dentro di me.

"Ti preoccupi troppo di quello che c'è qua." mi indicò la maschera, scuotendo la testa, e ansimando su di me. Strusciò il dorso della mano sulla mia guancia accaldata: "Tu non sei solo questa faccia. Sei tutto il resto. Sei altro. Sei molto di più." la sua mano scese lungo il collo, fermandosi sul bordo dorato del vestito. Presi un bel respiro, mentre tenevo quella grande mano su di me, sentendola calda e stranamente morbida, non come mi ero immaginata. Lo guardai, sentendo una lacrima rigarmi il volto, dissolvendosi dentro il tessuto del velo.

"Grazie, Andy." Intrecciai le dita sulle sue, ferme su di me, e le abbassai più in basso, sul mio seno, spingendo la sua mano ad aprirsi completamente per afferrarlo.

"Grazie... di cosa..." balbettò lui, restando un attimo immobile, osservando la sua mano manovrata dalla mia.

"Di farmi sentire così. Di farmi sentire una donna vera, in un corpo vero." Bisbigliai, allungando il collo verso il suo orecchio. Strinsi più forte la sua mano sul mio corpo, sentendo fondere i nostri respiri, e mi avvicinai alle sue labbra, parlandoci dentro: "fammi sentire che sono fatta ancora così."

"Sì." Non si fece attendere lui, spingendo la sua lingua dentro la bocca, strusciandosi con la mia, riprendendo quella danza ipnotica e annebbiante delle nostre labbra umide, mentre si guardava intorno in cerca di un luogo più appartato.

Il film era a metà del secondo tempo.

Noi avevamo appena iniziato il primo tempo. Dentro uno stanzino, Andy mi aveva spinto rapidamente verso un tavolo, togliendo bruscamente tutti gli oggetti appoggiati sopra. Erano caduti a terra senza che ci facessimo più di tanto attenzione. Mi aveva poggiato sul piano del tavolo tenendomi per le natiche, e sollevandomi il vestito, continuando a baciarmi sulla bocca, sul collo e sul mio petto scoperto, mentre con le mani cercava altri punti del mio corpo da accendere, sotto l'abito, dentro le mie mutande. Affondai il viso sul suo petto, sentendo la sua pelle accaldata e il suo odore selvatico, mentre gli sfilavo la giacca e gli aprivo la camicia, infilando le mani dietro la sua schiena. Era così piena e dura che le mie mani si arrampicavano su di essa come ragni che vi infilzavano le loro zampe per restarci aggrappati. Con un gesto repentino, Andy si sganciò i pantaloni, sfilandosi i boxer e tornando vicino a me, fissandomi negli occhi, i nasi che sbattevano l'uno contro l'altro. Era pronto. Anch'io ero pronta. Lo accolsi dentro di me con un desiderio che non credevo possibile fino a quando non lo sentii, pieno, invadermi il corpo dal basso ventre fino alla punta dei capelli. Era lento. Veloce. Poi di nuovo lento, poi di nuovo veloce. Lento, veloce, veloce, e lento. Veloce, veloce e lento. Dimenticai tutto, dimenticai le note, dimenticai il dolore, dimenticai la mia vita, mentre abbandonavo il mio corpo a questa energia che avevamo creato, sbattendo forte contro il tavolino, aggrappata a un altro corpo, vero, pieno di vita e di sapore. Respirai a pieni polmoni con una nuova boccata di ossigeno, sui suoi capelli dorati che erano sfuggiti al controllo e che solleticavano le mie labbra sul suo orecchio.

La bellezza di Andy era selvaggia e indomata, la sentivo abbandonarsi anch'essa su di me. Lo sentivo fremere, grazie a me, e ardere di eccitazione a ogni spinta. I nostri gemiti erano fusi insieme senza bisogno di cantare nessuna canzone e senza nessun rumore di sottofondo a coprire gli spasmi del nostro piacere. Eravamo soli, in una stanza immersa nell'oscurità, complice dell'imperfezione umana, nella perfezione dei nostri corpi uniti.

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