Capitolo 6. In Between - Linkin Park

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"C'è una cosa che forse dovresti sapere." Cominciai.

Tirai forte la cintura di sicurezza, sbattendo il polso sul mio naso, senza spostarla di un millimetro.

"Che c'è? È successo qualcosa?" Dino si allungò su di me, aiutandomi a liberarmi dalla trappola mortale della sua Panda 4x4. Le cinture erano bloccate e noi eravamo fermi sulla strada, con l'auto in folle.

"Aspetta." Lo spinsi indietro al suo posto, provocandogli uno sbuffo, trovando il blocco alla mia sinistra e chiudendomi dentro quelle cinghie. Sospirai. "Certo che le auto sono veramente scomode." Abbassai lo specchietto per controllarmi la faccia. Ma non c'era nessuno specchietto dalla mia parte. Era la vecchia auto da caccia di suo nonno, niente fronzoli, niente optional se non il requisito fondamentale di poter viaggiare comodamente a 90 km/h con solo la seconda marcia inserita. Spinsi di nuovo il parasole del passeggero al suo posto e mi voltai verso di lui, che fece spallucce, mentre mi prendeva la mano e la appoggiava sul cambio insieme alla sua per fare manovra. Osservai quel gesto così inspiegabilmente dolce, scostandomi delle ciocche dietro la fronte.

"Non me l'hai detto l'altro giorno. Mi sembrava ci fossimo divertiti qui dentro." Cercò il mio sguardo, indagando il lieve rossore che mi stava comparendo sulle guance. Che naturalmente era dovuto al caldo soffocante di quell'abitacolo.

"Perché non ti ho permesso di legarmi. Come stai facendo adesso." Allontanai leggermente la cintura di sicurezza dal mio petto per evidenziare le mie parole. Mentre Dino stava per rispondermi, il rumore del clacson ci fece sobbalzare.

"Ma che fate! Vi muovete o no, idioti!" una voce dentro l'auto dietro di noi ci sbraitò dal finestrino.

"Ok, andiamo." Sussurrai. Mentre pronunciavo queste parole, vidi la mano di Dino sganciare velocemente la sua cintura, facendo per uscire dall'auto, a fare non so cosa, ma io gli bloccai il polso, costringendolo a guardarmi. "Dino, andiamo." Ripetei.

"Sì, hai ragione. Non ne vale la pena." Senza voltarsi, alzò un braccio verso l'auto rimasta bloccata ad aspettarci, a mo' di scuse e ci allontanammo, con un rombo scoppiettante sotto i nostri piedi.

Mentre imboccavamo le quattro corsie, accesi la radio, sintonizzandola su Radio Freccia, l'unica in grado di riprodurre dei suoni musicalmente accettabili. Chissà cosa avrebbe voluto fare Dino al tizio che ci aveva urlato. Guardai fuori dal finestrino mentre cantavo A song for the lovers di Richard Ashcroft. Magari prenderlo a pugni?

"Cosa era?" chiese Dino, guidando attento, e guardando la strada semideserta davanti a sé, illuminata dai fari.

"Cosa era cosa?"

Mi lanciò un'occhiata distrattamente, mentre appoggiavo il mio astuccio del tabacco sulle gambe per prepararmi una sigaretta.

"La cosa che dovrei sapere."

Fui indecisa se dirglielo o no, in un certo senso speravo non ce ne sarebbe stato bisogno. In fondo erano passati anni, secoli, e non c'era nessuna ragione per affrontare l'argomento proprio quella sera.

"Sai che non ricordo?" mi accesi la sigaretta, facendo cadere piccoli trucioli di tabacco sulla mia pelle scoperta dai pantaloncini.

"Certo."

"Sul serio. Magari non era importante. Mi vengono in mente tante di quelle cose. Dovrei cominciare a portarmi un blocchetto per gli appunti."

"Va bene, Mili." Lasciò perdere lui, mentre attraversava il lungo viale alberato che costeggiava l'area industriale. Il capannone era proprio davanti a noi, nel mezzo di una lugubre e malinconica strada provinciale, di passaggio, soprattutto di transito di mezzi pesanti per le fabbriche che, anno dopo anno, erano nate nella zona e si erano allargate a vista d'occhio.

La nostra Panda si fermò proprio accanto a una Giulietta nera e perfettamente luccicante, sotto l'unico lampione acceso nel raggio di cento metri. Altre due auto si erano accodate a noi e sentii un pizzico di formicolio alla pancia. Erano loro. Aspettai che Dino scendesse dall'auto, per imitarlo, seguendo lui e gli altri ragazzi che gli erano venuti incontro per salutarlo, con pacche amichevoli sulla schiena. Restai leggermente in disparte, appoggiandomi alla Panda, e osservai il backstage di uno dei miei gruppi locali preferiti in assoluto.

C'era Eduardo, detto Eddie, che finalmente riconoscevo dal vivo senza tutti quei piatti e tamburi che gli coprivano gambe e mezzo busto, mentre lavorava sulle sue percussioni. Aveva un viso rotondo e il naso all'insu, occhi azzurri che si stringevano sempre in tante grinze e in quel momento un sorriso simpatico si era allargato verso di me. Aspirai forte l'ultimo tiro di sigaretta e, nel gettarla a terra per schiacciarla sotto il mio sandalo, guardai Ricardo, il bassista, che era subito venuto a presentarsi, stringendomi la mano e guardandomi, serio, dritto negli occhi. Poche chiacchiere, solo fatti, recitava l'espressione sul suo viso. Assecondai le sue intenzioni, annuendo impercettibilmente e immaginandomi di fare il saluto militare, al cospetto di tanta formalità. Ricardo era nato a Barcellona, e per un fortunato caso del destino era venuto a vivere qui con la sua famiglia, aveva conosciuto Eddie grazie a degli amici in comune che avevano in Spagna, e con pochissime difficoltà e un'abile velocità mentale, tanto rapida quanto lo erano le sue dita sulle pesanti corde del suo strumento, aveva imparato l'italiano e si era perfettamente integrato nel gruppo. Dimentichiamoci tutti gli stereotipi che si hanno sugli spagnoli. Di spagnolo, Ricardo aveva sicuramente il nome e qualche nota strascicata sul vibrato delle sue parole, le rare volte che lo sentivi parlare. Per il resto, a cominciare dalla mono-espressione che gli si stampava sul viso come una perfetta maschera di cera, tutto di lui faceva subito pensare a una spia russa, e di quelle veramente micidiali.

"Dino? Hai portato la babysitter, stasera?" e poi c'era lui. Fabio. Grande dispensatore di battute infelici come questa.

"E tu, Fabio? La tua badante aveva il giorno libero oggi?" ribattei, con il suo stesso tono, mentre tutti si voltavano verso di noi, e Fabio scendeva dalla sua Giulietta nero fiammante con l'I-qos accesa tra le dita, ciondolante e svogliato, scostandosi i lunghi ciuffi castani dalla fronte con un fulmineo scatto della testa. Per un attimo ci guardammo in silenzio. Non cambiai posizione. Con la coda dell'occhio, notai Dino spostare lo sguardo da me a lui con un'aria interrogativa, mentre era intento ad aiutare gli altri con l'attrezzatura da montare dentro il locale. Fu Fabio a rompere la tensione, scoppiando a ridere e facendo dei passi verso di me.

"Come stai, amica mia." Mi cinse in un abbraccio umido e appoggiò appena il mento sulla mia fronte, distaccandosi velocemente.

"Sono venuta a sentirvi. Tu come stai?"

"Bene!" mi dette subito le spalle, con un gesto plateale, e la folata della sua lunga vestaglia a fiori gialli mi sferzò le guance. Fabio si avviò verso l'ingresso della sala prove, sfilando lo stick della sigaretta ormai esaurita e provando a centrare il bidone accanto alla porta scorrevole del magazzino, voltandosi poi verso di me in un sibilo divertito: "Abbiamo un po' da fare stasera." Mi fece l'occhiolino, invitandomi ad entrare. Dino era sulla porta, intento a districare dei cavi.

Intento ad aspettare che lo raggiungessi.

"Vi conoscete." Disse senza guardarmi, ma con i suoi grandi occhi marroni abbassati sulle spire dei vari canon-jack attorcigliati sulle sue dita.

"Di vista." Glissai. "Non siamo proprio amici."

"Allora siete, proprio, cosa?"

"Solo conoscenti, siamo coetanei. Ci siamo sempre visti in giro qua e là, amici in comune, la scuola. Questo tipo di cose." Restai a un passo da lui, evitando anch'io di guardarlo, ma tendendo l'orecchio verso le voci degli altri ragazzi. Un pedale e qualche nota distorta del mixer vibrò nell'aria, soffiando dalla porta insonorizzata lasciata socchiusa. Stavano aggiustando gli equalizzatori.

Eddie si affacciò timidamente, calandosi il berrettino di paglia sulla fronte leggermente imperlata di sudore.

"Dino, abbiamo bisogno di te."

"Arrivo." Sollevò gli occhi su di me, le sue lunghissime ciglia formarono due archi deliziosi. Gli sorrisi.

"Non vedo l'ora di sentire le vostre prove." Bisbigliai, toccandogli il naso con la punta del mio.

Chiusi la cigolante porta della sala alle mie spalle, mentre osservavo il piccolo ambiente davanti a me. Non c'era molto spazio dove poter stare, mi limitai a rimanere appiccicata alla parete, per evitare di calpestare qualche cavo arrotolato a terra o rovinare altri strumenti. Ognuno di loro era intento a compiere un'operazione perché tutto avesse inizio. Lo presi come una specie di piccolo concerto privato.

Dino era appoggiato al muro insonorizzato da pannelli fonoassorbenti, il piede sopra il pedale, l'altro che controllava la loop station. Le mani si muovevano delicate e sicure sulle corde della sua chitarra, controllando l'accordatura e ogni tanto mettendo mano al mixer. Mentre guardavo con attenzione tutti questi passaggi scrupolosi, mi sentii osservata da un paio di occhi divertiti. Fabio stava fumando un'altra I-qos dalla parte opposta della stanza, troneggiando sul pancale dove aveva la sua asta col microfono, il gomito appoggiato sul leggio e un tallone addossato alla caviglia dell'altra gamba. La sua chitarra era elegantemente adagiata all'angolo sul suo supporto. Era il suo piccolo palco, il suo piccolo grande regno. Cosa aveva fatto per conquistarsi quella posizione? Mentre tutti gli altri si richiudevano in spazi microscopici?

"Che c'è?" gli dissi, aprendo le braccia, indicando gli altri con il mento.

"Sto aspettando i miei ragazzi." Sorrise, scoprendo leggermente i denti in una smorfia sfottente.

"Hai controllato i volumi, Fabio?" gli chiese conferma Eddie, mentre gli indicava i cavi, e contemporaneamente procedeva a sistemare i suoi piatti nei punti giusti.

"Ah, già. Devo fare questo." scese con un balzo dal suo palco con il cavo in mano. Inserì lo spinotto nella presa. "Fatto." Disse. E tornò al suo posto, slacciandosi la vestaglia e scoprendo la sua canotta bianca, che fasciava il torace esile e nervoso.

"Tu, Emilia, sei comoda?" mi chiese Eddie, in toni concilianti. Annuii, poco convinta.

Ricardo mi indicò un punto accanto a lui. Seguii il suo sguardo, mentre mi parlava. "Se Bea non si presenta neanche stasera, puoi sederti lì, se vuoi."

Bea. La tastierista.

"Posso? Sicuri?" esclamai.

"Almeno stai seduta." Aggiunse Eddie. Mi piaceva Eddie.

"Va bene, grazie, ragazzi." Attraversai in punta di piedi la stanza, sentendo quattro paia di occhi verso di me. Presi posto sul panchetto, ignorando l'impulso di passare le dita sulla tastiera. Di accenderla per sbaglio modificando delle impostazioni che, sicuramente, Bea aveva già predisposto in precedenza.

Avevo paura di sfiorarne i tasti.

Tenni i pugni chiusi tra le mie cosce, sforzandomi di non attirare ulteriormente l'attenzione.

"Con Bea, poi, ci parlo io." Sentenziò Fabio, risoluto, sputacchiando il fumo lieve della sua sigaretta. "Se ci diamo un'ora, quella deve essere. Ci vuole rispetto. E questo vale per tutti" indicò gli altri con l'holder dell'I-qos. Dino annuì, mordendosi il labbro.

"Dai, cominciamo. Abbiamo aspettato anche troppo."

Le bacchette di Eddie batterono quattro volte l'una contro l'altra. Dal primo brano, la voce calda e bassa di Fabio invase la stanza: conoscevo a memoria le parole del loro pezzo inedito Il mio orgoglio, la mia promessa, mi sforzai di non canticchiarla con le labbra per non scimmiottare le varie groupie che si sparpagliavano sotto il palco ad ogni loro serata. Passai lo sguardo verso ognuno di loro, mentre la loro musica mi ricopriva ogni cellula del corpo. Il basso di Ricardo volteggiava nel mio ventre e sotto le suole dei miei sandali. Guardai Dino, che avvicinò le sue labbra morbide al microfono per cantare la parte del ritornello. Lo fece come se stesse per baciarsi con la sua stessa canzone, mentre seguiva le terze delle note principali, cantate da Fabio. Resistetti all'impulso di saltargli al collo, e mi concentrai su Eddie, che sollevava e abbassava il mento, sicuro sul ritmo da dare. Era tutto decisamente perfetto. Mi sentii come se fossi proiettata direttamente nel loro mondo, fatto di suoni meravigliosamente messi insieme da quattro menti che in quel momento erano divenuti una sola cosa. Allungai distrattamente le mie dita sulle cosce muovendole al ritmo dei brani, seguendo mio malgrado i suoni silenziosi dei tasti bianchi e neri davanti a me, come se fossimo dei vecchi conoscenti, come se li vedessi muoversi da soli.

Osservai Dino e quella inspiegabile capacità che aveva di muoversi in qualsiasi spazio con uno stile inconfondibile e tutto suo. Ogni tanto potevo notarlo spostare gli occhi su di me, mentre cantava, come per controllare che lo guardassi. Ma subito dopo si concentrava sul lavoro da fare. Lavoro, passione, amore, dolore. C'era tutto, lì dentro, quella sera.

"Ok, ragazzi, pausa." Fabio sistemò il microfono sull'asta, raccogliendo degli spartiti caduti ai suoi piedi. Li osservò per qualche istante, mentre gli altri bevevano finalmente un sorso d'acqua. Mi preparai un'altra sigaretta, proprio mentre la porta della sala si apriva nervosamente.

"Non si può fare qualcosa per queste guide? Cascano a pezzi, la ruggine mi è volata sugli occhi!" urlò contro il soffitto la ragazza che aveva appena fatto irruzione, con la sua borsa a tracolla nera di tela, lisa fino a scoprire i fili giallognoli delle cuciture. La buttò a terra con un sospiro, mentre Dino richiudeva accuratamente la porta con uno scatto sordo, ignorando i suoi lamenti. Fabio evitò di alzare lo sguardo su di lei.

Bea. Capelli totalmente decolorati, color lilla, legati in una coda scomposta che lasciava libera qualche ciocca su quel visino delicato. Occhi cerchiati di eyeliner nero che le davano un'aria adulta, ma non doveva superare i vent'anni. Mi fissò restando in piedi, poco dopo essersi accorta della mia presenza. Finii velocemente di rollare la mia sigaretta, senza staccarle gli occhi di dosso.

"Dino, ho dato un'occhiata a questi brani. Sono semplicemente pazzeschi, sai?" Fabio sventolò gli spartiti davanti a sé, continuando ad ignorare l'ultima arrivata. "Non credo però che riusciremo a portarli al concerto a Roma."

"Perché?" chiese Eddie, sfilandoglieli di mano. "Ho ascoltato le demo, per me sono fattibili."

"Io ho provato sulle tonali, ci sto lavorando già da ieri." Mormorò Ricardo, sbattendo le dita sul basso.

"Si, lo so, lo so. Di voi mi fido, è di lei che mi fido meno." Indicò Bea con il suo dito inanellato.

Bea fece spallucce e un broncio arrabbiato: "Vi chiedo davvero scusa. Quel cazzo di treno aveva due ore di ritardo anche stasera. Mi dispiace tanto, non sono riuscita ad avvisarvi perché avevo il telefono morto. Sto seriamente pensando di lasciare l'università solo per questo motivo." Sbuffò, facendo qualche passo nella mia direzione, e inclinò il viso facendo cenno al suo panchetto: "Ti dispiace?" mi alzai, decisa ad uscire per fumarmi una sigaretta.

"Bea, lei è Emilia." Le fece Dino.

"Ciao, piacere, sono Bea." Mi tese la mano frettolosamente, senza guardarmi, e usando l'altra per accendere la sua preziosa tastiera. Nel frattempo, si era seduta al mio posto, scivolando tra il panchetto e il suo strumento, mentre io ero rimasta in piedi ad osservare quei gesti meccanici e minuziosi. Mi lasciò la mano solo per poggiarle entrambe sui tasti e provare degli accordi, così da poter regolare i suoi volumi. "Cosa mi sono persa?" guardò gli altri, indicando me con il mento.

"Sono venuta qui ad ascoltarvi. Siete veramente bravi." Mi abbassai su di lei, costringendola a guardarmi. "Tranquilla, mi ero solo seduta qui non trovando altri posti." Aggiunsi.

Bea mi osservò per un attimo, corrugando le sopracciglia e facendo schioccare la lingua: "Ma io ti ho già vista da qualche parte, vero?"

"Emilia lavora al negozio di musica in centro." Precisò Dino. Ma Bea scosse la testa.

"No, no. Io non vado per negozi a perdere tempo, compro solo online." Si passò la lingua sul pollice per sfogliare il suo quaderno di appunti poggiato sopra il leggio della tastiera. Mi guardò di nuovo, due iridi azzurre e sfolgoranti che bucavano l'infinito sotto il neon della sala. "Tu non sei...? Dai, non mi viene il nome." Schioccò le dita ripetutamente.

"Vado a fumare, mentre ci pensi, ok?" mi avviai alla porta, scuotendomi il tabacco dalla maglietta, mentre, camminando vicino a Dino, la sua mano mi aveva accarezzato delicatamente la scritta sulla mia maglietta, Main Character, aiutandomi a pulirla dal resto della sigaretta.

"La pausa è finita." Sentenziò Fabio, dall'alto della sua pedana.

"Non scappare, ok? Siamo un po' su di giri, ma forse l'avevi già capito da un po'." Mi sussurrò Dino all'orecchio, abbassandosi su di me. Gli spostai il manico della chitarra con la paletta che si era piantata sul mio sterno.

"E dove vuoi che vada? È buio pesto qua fuori, non so nemmeno dove siamo."

"Dai." Eddie fece ruotare le bacchette, prima di partire con il ritmo, ma Bea lo interruppe di nuovo con un gridolino.

"Sei la figlia di Nicla!" questa ragazza stava facendo di tutto per non piacermi. E stava facendo tutto da sola.

Strinsi gli occhi al sentire pronunciare il suo nome da una voce così stridula.

"Nicla? Quella Nicla?" chiese Ricardo, con una nuova luce negli occhi.

"Sei la figlia di Nicla Rogers?" parlava piano, Dino, come un sussurro che solo io potessi sentire veramente. La cosa non sfuggì però alle orecchie di Fabio, che strepitò trionfante sopra la sua voce:

"Esatto, lei! Non lo sapevi, Dino? A quanto pare conosco Emilia molto meglio di te! Adesso possiamo procedere?" sollevò le sopracciglia per chiudere definitivamente l'argomento.

"Sì, è vero, sei tu! Ecco perché avevi un'aria familiare. Le somigli. Nicla è tua madre!" aggiunse Eddie, con un colpo di piatti. Sbattei gli occhi, senza sapere cos'altro aggiungere. Mi nascosi dietro la spalla di Dino, sfuggendo al suo sguardo, e nel frattempo cercai un modo per uscire da quella conversazione che cominciava a soffocarmi già sul nascere. Cos'altro sapevano di me? Non facevo parte di quel mondo, impossibile avermi mai visto assieme a lei.

"Sì, mia madre. Canta molto bene, è tutto vero."

"Cazzo, ma è giovanissima, potreste sembrare due sorelle. L'ho vista l'altro giorno in tv al concerto di Berlino."

"Già, eravamo entrambe molto giovani quando sono nata."

"Pazzesco! Dev'essere stato davvero figo crescere con una pietra miliare della musica lirica come lei."

Feci una risatina e ripetei: "Sì, davvero figo." Sfilai l'accendino dalla tasca dei pantaloncini, e mentre uscivo dalla porta per gustarmi finalmente la mia sigaretta in pace, non potei fare a meno di notare lo sguardo sbigottito di Fabio che ordinava ai ragazzi di ricomporsi per proseguire con le loro prove.

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