|Chapter 7|

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"Cos'è quello?" Domandai a Jonathan, indicandogli la piccola casupola che avevo intravisto dietro le sue spalle. "Sembra una piccola... Casa?"

Si voltò nella stessa direzione del mio sguardo, incamminandosi da quella parte e trascinandomi con sé dicendo: "Non lo so, ma ho proprio voglia di scoprirlo."

Sembrava che si fosse completamente dimenticato della piccola discussione di poco prima, contento di trovare una distrazione da tutto quello che ci era capitato.

Giungemmo dopo circa cinque minuti, notando subito che l'erba lì era molto più alta - ci arrivava all'incirca ai fianchi - e meno verde. Essa era più secca, come se quell'area non fosse stata curata come la flora circostante.

"Senti anche tu questo odore?" Mi chiese Jonathan annusando ulteriormente l'aria, esaminandola come se fosse una macchina creata apposta per quello. "È un odore acre, mi pare sia zolfo." Si avvicinò ulteriormente all'edificio, il quale da vicino sembrava tutto tranne che piccolo: sarà stato lungo nove metri e largo tre, mentre le pareti erano composte da pannelli di metallo arrugginiti, come se fossero lì da chissà quanto tempo; il tetto era addirittura fatto di legnetti e foglie.

"Che cosa c'è dentro?" Gli domandai, stringendo più forte per un attimo la sua mano.

"Non lo so, perché non entriamo?" Mi domandò retoricamente lui, tirandomi ulteriormente con sé per poter entrare.

"Hey, aspetta un attimo!" Lo fermai, afferrandolo per un braccio con la mano libera. "Non sappiamo minimamente che cosa ci possa essere là dentro; sei proprio sicuro di voler entrare?" Gli chiesi, mollandogli la mano e mettendomi di fronte a lui.

"Nulla indica che ci possano essere pericoli là dentro, quindi perché non andare a vedere." Mi superò, stringendomi il braccio per qualche secondo come a invitarmi a entrare con lui. Alla fine scossi la testa e alzai lo sguardo al cielo, allungando il passo per raggiungerlo.

L'odore acre mi invase subito le narici, sollecitando talmente tanto il senso olfattivo che percepii persino dolore; l'interno sembrava avvolto da una nebbia sottilissima e quasi invisibile, mentre la ruggine faceva apparire il tutto più vecchio e marcio di quanto in realtà non fosse.

"È zolfo, non ci sono dubbi." Disse sovrappensiero Jonathan, guardando con attenzione ciò che avevamo intorno.

"Zolfo?" Replicai, non sapendo bene a cosa si stesse riferendo.
"L'odore che c'è nell'aria." Mi rispose, specificando poi: "All'inizio non ero sicuro che fosse zolfo, ma adesso ne sono abbastanza certo."

Mi limitai ad annuire cominciando a fare il giro della stanza. Mi avvicinai al muro, trovandovi una strana macchina appoggiata che si riusciva a intravedere attraverso la nebbiolina; era da quando eravamo entrati che aveva attirato la mia attenzione, per questo ero così decisa nell'esaminarla il prima possibile. Era un contenitore grigio, bianco e nero, alto probabilmente quattro metri e largo due, con una porta - posta per tutta la lunghezza della parte frontale - aperta. Mi avvicinai per vedere com'era fatto all'interno: tutte le pareti erano ammortizzate, in modo tale che, qualsiasi cosa fosse stata ospitata là dentro, non avrebbe avuto nessun danno o scomodità. Sembrava strano che qualcosa di così altamente tecnologico e avanzato si potesse trovare lì, su un'isola sperduta in un capannone vecchio probabilmente come il mondo. La cosa che più mi incuriosì però, fu il forte odore che proveniva da quella macchina; quella fragranza acre, simile alla pipì di gatto che Jonathan aveva individuato come zolfo, era molto più forte e intensa lì vicino alla strana struttura.

"Jonathan," Lo chiamai, ricevendo un segno da parte sua. "Hai visto anche tu questa macchina?"

"Ce ne sono cinque in tutto il capannone." Mi rispose lui avvicinandosi a me, mentre io mi voltavo e vagavo con lo sguardo nella stanza; altri marchingegni identici erano poggiati lungo le pareti, immersi nella sottile nebbiolina che ancora circondava il posto. "E credo di sapere chi ci fosse dentro." Aggiunse, poggiandomi una mano sulla spalla per farmi voltare verso di lui.

"Chi?" Replicai, trovando strano il fatto che ne avesse parlato come se ci fossero state altre persone all'interno dei macchinari.

"Sì, credo proprio che ci fossero altre persone qui." Si avvicinò alla macchina di fianco a me, la più vicina. "Oltre al fatto che ricordano le incubatrici dei film di fantascienza, l'odore di zolfo è la prova che qua sono state create delle persone." Mi spiegò spostandomi verso l'entrata, in modo da poter uscire il prima possibile. Comprendevo la sua ansia di andare via da quel posto, aveva cominciato a invadere anche me: se lì c'erano delle macchine così avanzate da poter creare delle persone - come aveva presupposto Jonathan -, allora voleva dire che, con molta probabilità, non eravamo soli su quell'isola.

"Come fai a dire che sono state create delle persone? È assurdo, roba da film di fantascienza come hai detto tu, ma quella non è la realtà." Tentai di convincerlo, anche se molto probabilmente stavo cercando di convincere me stessa che niente di ciò che stavamo vedendo era vero.

"Lo zolfo è un elemento importante per il nostro corpo, serve a vari enzimi e proteine per esempio." Mi spiegò afferrandomi un braccio, tuttavia senza stringere forte. "Credo che i mostri che abbiamo incontrato stamattina, seppur disgustosi, siano frutto di una tentata creazione umana."

All'improvviso sentimmo dei rumori fuori dal capannone, per questo motivo rimanemmo in silenzio e con le orecchie ben attente all'ascolto. Sentimmo dei passi e delle voci che si stavano avvicinando, di sicuro erano di persone umane. Senza proferire parola Jonathan mi guidò verso il fondo del capannone, accompagnandomi e facendomi segno di rimanere nascosta dietro a una macchina, mentre lui si nascondeva dietro a quella sulla parete opposta. Il cuore mi batteva all'impazzata, il sudore freddo mi provocava mille brividi in tutto il corpo e sentivo la bocca asciutta, arida come il deserto. Eravamo partiti con la convinzione di essere soli su quell'isola e nonostante avessimo incontrati quegli umanoidi 'umani', non ci saremmo mai aspettati d'incontrare qualcuno che fosse esattamente come noi: un uomo o una donna in carne e d'ossa, frutto di nessun esperimento. La scoperta di altre persone - oltre a noi - ci spaventava a morte perché non sapevamo se avremmo potuto fidarci, oppure se ci avrebbero ucciso alla prima occasione. Le voci divennero più chiare per questo mi sporsi per sbirciare, stando attenta a non espormi troppo. Erano due uomini, i quali stavano discutendo in modo molto evidente sul perché la porta fosse aperta; nonostante fossero contro luce, riuscii a riconoscere uno dei due stranieri, per questo motivo percepii l'aria mancarmi nei polmoni per un paio di secondi. L'uomo incappucciato a destra era colui che mi aveva salvata dopo l'incidente aereo.

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