29- Quella notte, a San Salvario

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30 aprile

"Ma lui è un pazzo, ti giuro, ha fatto partire 'sta cosa dei cori alle finestre in seconda e nessuno l'ha mai più fermato".

Simone scoppiò a ridere. "Non l'hanno mai sospeso?".

"No" rispose Alessia. "Ormai i suoi cori sono parte integrante della scuola".

I ragazzi risero di gusto. Seduti attorno a un tavolo rotondo, nel cortile di uno sfizioso bar in centro, avevano trascorso tutta la serata a raccontare le vicende più esilaranti della loro vita al liceo, ripescando aneddoti iconici su professori, compagni di classe e persino sui bidelli. Sopra le loro teste penzolavano delle lucine colorate, i cui capi erano intrecciati ad alberi di agrumi.

"Chi è già questo?" domandò Ruben.

"Michele Ariaudo, è in classe con noi". Alessia guardò Emilia, che non riusciva a smettere di ridere.

"Ogni tanto applaude anche ai prof quando passano in cortile" esclamò Emilia. "Ve lo giuro, non ci sta dentro".

"Però almeno è simpatico, uno dei pochi nella nostra classe".

Simone guardò gli altri negli occhi, uno ad uno. "Cavolo, che peccato esserci conosciuti solo quest'anno. Siamo sempre stati nella stessa scuola, ma non abbiamo mai saputo dell'esistenza gli uni degli altri".

"È vero" rispose Alessia. "Io prima conoscevo solo questo caso umano e quel pirla di Sabatucci".

Indicò con un gesto della mano Emilia, che rispose alzando il dito medio, e Rebecca intervenne abbracciandole entrambe ed esclamando, tra le risate: "Ragazze, state buone, per favore".

Emilia aveva sempre sognato di avere un gruppo come quello, delle amiche con cui confidarsi senza sentirsi giudicata e degli amici divertenti e spontanei come Ruben e Simone. Ma, nonostante le bellissime sensazioni provate quella sera, non riusciva a placare uno strano malessere che le metteva in disordine lo stomaco. Si sentiva malinconica, come se non fosse presente nel contesto, ma stesse guardando un ricordo del passato. Come se quel gruppo già non esistesse più.

Rivolse un'occhiata di sottecchi a Denisa. Sembrava distratta. Si guardava attorno come in attesa di qualcosa, l'espressione imbronciata e le braccia incrociate.

"Che hai?" domandò Simone, ridendo.

"Niente, perché dovrei avere qualcosa?".

Federico le colpì la coscia con una mano. "Voleva andare alla festa al Giovi, ma non ha trovato le prevendite".

"Oh, sempre a ubriacarti, tu" commentò Simone e Denisa tentò di tirargli un calcio sotto il tavolo.

"Siete due stronzi, lasciatevelo dire".

Emilia guardò Denisa, poi Federico e il sorriso le morì sulle labbra.

Lui ricambiò lo sguardo, sollevando appena un angolo della bocca.

"Comunque, non vorrei dire, ma si è fatta una certa" esclamò Ruben, coprendo la bocca con una mano, per nascondere uno sbadiglio.

"Concordo". Denisa guardò il telefono. "Raga, sono le due, siamo qua da tipo quattro ore".

Simone si distese sul tavolo, allungando le mani verso la ragazza. "Vero che mi dai un passaggio?".

"No, Simo, ci sono le ragazze".

"Ma come, io abito lontanissimo, non posso tornare a piedi".

Ruben gli spettinò i capelli. "Dai, poverino, guarda con che faccino te lo sta chiedendo, non vorrai mica averlo sulla coscienza se qualche pazzo lo rapisce, no?".

Denisa sbuffò. "Bene, allora stai sul tettuccio, perché i posti sono già tutti occupati".

Federico guardò Emilia.

"Emi, ma se tu tornassi con me e Ruben?".

La ragazza sbarrò gli occhi.

"Non sentirti obbligata, eh, il posto per te c'è" aggiunse Denisa.

Ruben circondò le spalle di Federico con un braccio. "Ma va, ti scortiamo io e Boca, sei in una botte di ferro".

Emilia rise e, con lo sguardo fisso su Federico, rispose: "Però è vero, noi tre possiamo tornare a casa insieme, tanto abitiamo vicini, Simone abita molto più lontano ed è solo".

"Emilia, sei una santa". Simone le rivolse un sorriso raggiante e la ragazza esclamò: "Che esagerato".

"Va beh, allora direi che possiamo andare" rispose Denisa, afferrando la borsa con un movimento rapido e facendo tintinnare i braccialetti che indossava.

I ragazzi si alzarono e si diressero al parcheggio, dov'era posteggiata la piccola Fiat bianca di Denisa. La ghiaia scricchiolava sotto i loro passi.

"Che bolide, cazzo" esclamò Simone, prendendo posto vicino al conducente.

"No no, schioda". Alessia riaprì la portiera e restò ferma a braccia incrociate.

Il ragazzo sbuffò e si alzò svogliatamente. "Mi scusi, non volevo".

"Quello è il mio posto, sempre".

Denisa fu l'ultima a infilarsi in macchina. Salutò Federico con un bacio veloce ed Emilia li fissò, con un nodo allo stomaco.

"Ciao ragazzuoli, ci vediamo".

"Ciao sfigati" esclamò Ruben, agitando una mano in aria.

La macchina lasciò il parcheggio con rapidità e i tre di San Salvario rimasero da soli.

Il rumore del motore si fece sempre più lontano, lasciando il posto a un silenzio quasi surreale. Ogni cosa taceva. Non si sentiva un passo, non un filo di vento a muovere le foglie degli alberi.

"Bene". Ruben interruppe quella quiete battendo le mani. "E anche questa ce la siamo levati dai coglioni".

Federico ed Emilia si scambiarono un'occhiata confusa e scoppiarono a ridere.

Si incamminarono verso San Salvario, senza che Ruben smettesse di parlare.

"Se non esco dall'esame minimo con 80 penso che potrei avere un infarto prematuro".

"Sei sempre il solito esagerato, oh, non cambi mai" ribatté Federico.

"Guarda che sono serio".

Federico sollevò le sopracciglia, poco convinto, e infilò le mani in tasca.

"E tu Emi, come stai?" domandò Ruben. "Che fine ha fatto il tuo ragazzo?".

"È alla festa di Claudia Tira".

"Ahia, mi hanno detto che è pieno di figa".

Emilia scosse il capo, ridendo, e Federico tirò un pugno sul braccio dell'amico. "Ma che hai stasera che sei più pirla del solito?".

"Era una battuta, su, dai".

"Vai tranquillo" rispose la ragazza. "Sono abbastanza sicura che, se Andrea si facesse una, Saba verrebbe a dirmelo subito".

"Ma Elia non è il migliore amico di Andrea?".

Emilia sollevò il mento, boriosa. "Non scherziamo, io sono la migliore amica di Elia. Per lui avrò sempre la priorità su Andre".

I ragazzi scoppiarono a ridere e raggiunsero le sgangherate vie di San Salvario.

Attraversarono strade che sembravano tutte uguali, camminando su marciapiedi scoscesi e accanto a case dalla vernice scrostata. I lampioni emettevano una luce smorta e giallognola, rendendo l'atmosfera sinistra e intima al contempo.

"Raga". Ruben rallentò e indicò con un cenno del capo un parco giochi. Sfilò dalla tasca dei pantaloni una bustina di erba e sorrise malizioso.

"Ti dà fastidio se ci fermiamo a fumare?" domandò, rivolto a Emilia.

La ragazza fece spallucce. "Ma no, tanto non ho fretta di tornare a casa, mio padre fa la notte".

"Cazzo, il padre sbirro" esclamò Ruben, entrando nel parchetto.

I ragazzi si sedettero su una panchina, mentre Emilia restò in piedi di fronte a loro, con le mani abbandonate nelle tasche della giacca di jeans, di qualche taglia più grande.

L'odore di erba umida venne sostituito da quello acre del fumo.

"Che pace" mormorò Ruben, stendendo le gambe.

Il parco era buio, la luce del lampione più vicino arrivava appena, e nel nero della notte brillava come una lucciola lo spinello che i due ragazzi si stavano passando.

Emilia avvertì una stretta allo stomaco; quella notte aveva il sapore della nostalgia, come le ultime sere d'estate.

"Ruben, Federico ti ha mai chiesto cosa ne pensi della teoria di Schopenhauer sulla felicità?".

Federico si irrigidì. Restò immobile a fissare Emilia, che gli rivolse un sorriso di sfida, continuando a camminare avanti e indietro.

"No" rispose il ragazzo. "Ma intendi quella roba che la vita è solo dolore e noia e non puoi suicidarti e cazzi e mazzi?".

"Proprio quella".

Ruben chiuse gli occhi e sollevò il capo, mentre dalla sua bocca usciva una nuvoletta di fumo.

"Sinceramente penso che sia una delle tante minchiate che dice Schopenhauer. Secondo me non esistono solo dolore e noia, esiste anche la serenità, che è forse più importante della felicità".

Emilia sorrise.

"Tu che dici?".

"Non mi sono fatta un'opinione" rispose la ragazza, le mani in tasca e lo sguardo rivolto al cielo. Torino era troppo inquinata per poter scorgere le stelle, tutto ciò che vedeva davanti ai suoi occhi era una massa buia e uniforme.

"Scommetto che Boca, invece, è un fatalista di proporzioni cosmiche".

Federico scoppiò a ridere. "Non criticare le mie idee sulla vita". Allungò la canna verso Emilia. "Vuoi?".

"No, grazie" rispose la ragazza. "Mio padre mi fa fuori se sente odori strani".

"Ehh, gli sbirri sono come i loro cani" esclamò Ruben. "Non puoi sfuggire al loro fiuto".

Emilia rise, scuotendo il capo. "Non ci vuole una scienza per identificare l'odore di erba, eh".

Il ragazzo lanciò la canna nel prato e la spense pestandola con un piede, ignorando la risposta dell'amica.

"Signori, per me possiamo andare".

Mentre camminavano, Emilia tirò fuori dalla tasca il cellulare e controllò le storie di Instagram. Visualizzò quella di Elia e trovò una foto con Andrea, la festeggiata e alcuni ragazzi della squadra di calcio.

"Pericolo in vista?".

Emilia colpì Ruben con una mano. "Ma smettila, Andrea non mi tradisce".

Ciò che la ferì di più nel pronunciare quella frase fu la consapevolezza di quanto fosse veritiera.

"Se lo dici tu" rispose Ruben, sardonico.

Iniziò a camminare all'indietro, poi si voltò e saltellò sul marciapiede.

Emilia scoppiò a ridere e Federico le rivolse un sorriso.

Si fissarono per alcuni istanti, come ipnotizzati.

"Raga, io sono arrivato" urlò Ruben, fermo davanti a un portone. "Volete che vi accompagni fino da Emilia?".

Federico fece spallucce. "Ma no, tranquillo, poi dovresti rifarti tutta la strada indietro, non ne vale la pena".

"Va beh, come volete". Infilò le chiavi nella serratura del portone del palazzo e agitò una mano in aria. "Ciao belli, ci vediamo lunedì".

"A lunedì" rispose Emilia e aspettò con Federico che Ruben fosse entrato. Nessuno dei due disse una parola.

"Che fai, non mi accompagni?".

Federico accennò una risata e annuì. "Andiamo".

Proseguirono in silenzio, fianco a fianco sul marciapiede stretto, immersi in quella luce sbiadita che annullava tutti i colori, come se fossero stati catapultati in una fotografia d'epoca, ingiallita dal tempo. Emilia non riusciva a togliersi di dosso la malinconia che la accompagnava dall'inizio della serata, come se fosse stata privata di qualcosa e quel qualcosa le mancasse terribilmente.

"Ti è rimasto proprio impresso Schopenhauer, eh?".

Emilia trasalì.

"È una teoria interessante la sua" rispose, sforzandosi di sembrare impassibile. "Mi ha dato da riflettere".

"Mi fa piacere".

Sul volto di Federico si dipinse un sorriso smaliziato ed Emilia si costrinse a distogliere lo sguardo. Non avevano più trascorso del tempo da soli e sapeva quanto fosse pericoloso averlo così vicino, senza nessun altro attorno. Quando era con lui la sua razionalità iniziava a vacillare e questo la terrorizzava.

"Fede".

"Sì?".

"Devo chiederti una cosa".

Il ragazzo la guardò, sorridendo. "Quello che vuole, mademoiselle".

Emilia rise, sperando che cambiare argomento allentasse la tensione creatasi. "Tre anni fa ti sei candidato come rappresentante per la prima volta".

"Mmh mmh".

"E ti ricordi che ho scritto quel famoso articolo".

"Sì?".

"Ecco, hai altri ricordi importanti di quel periodo? Tipo del giorno in cui ci sono state le presentazioni delle liste".

Federico aggrottò la fronte. "Oddio, così su due piedi non mi viene in mente nulla".

"Qualcuno ti ha versato del caffè sulla camicia bianca".

"Oh cazzo". Il ragazzo spalancò la bocca, come se avesse appena assistito alla rivelazione del secolo. "Quasi non mi ricordavo più di quella cosa. La ragazza è qualcuna che conosciamo? Alessia?".

"In realtà sono stata io".

Federico si fermò di colpo. "Scusa?".

"Sì, ero proprio io" rispose Emilia, ridendo. "Pensavo che il mio volto ti fosse familiare, infatti ho tirato un sospiro di sollievo quando, le prime volte in cui ci siamo parlati, ti sei comportato come se non mi avessi mai vista prima".

"Ti giuro che non mi ricordavo proprio, ma stai scherzando?".

"Sono serissima, Fede, probabilmente il ricordo era così traumatico che il tuo cervello ha eliminato la mia faccia".

Federico scoppiò a ridere e riprese a camminare.

"Ma no, è impossibile che io abbia dimenticato un volto come il tuo".

Emilia sentì lo stomaco attorcigliarsi, ma si sforzò di non mostrare imbarazzo. "Secondo me è andata così, invece".

"Mi stai psicanalizzando?".

"Può darsi".

Continuarono a ridere finché non raggiunsero il condominio in cui viveva Emilia.

Accanto al pesante portone in legno ad arco, sul muro scrostato, campeggiava la scritta A.C.A.B., disegnata con una bomboletta spray molto prima che Emilia e suo padre si trasferissero lì.

La ragazza indietreggiò di qualche passo, per poter osservare Federico in faccia.

"Grazie per avermi accompagnata, cavaliere" esclamò, continuando a tenere le mani in tasca, con un sorriso imbarazzato dipinto sul viso.

"Di nulla, principessa, è un onore averla portata a casa sana e salva".

Scimmiottò un inchino ed Emilia scoppiò a ridere.

Restarono in silenzio alcuni istanti, senza interrompere il contatto visivo.

Emilia maledisse sé stessa. Aveva evitato per tutta la sera di incrociare lo sguardo di Federico, perché sapeva che aveva su di lei un effetto ipnotico. Lui la guardava soltanto, eppure sembrava che stesse portando avanti un intero discorso. Le esprimeva serenità, desiderio, ma anche timore e dubbio, e al contempo sembrava cogliere in lei ogni risposta.

I loro occhi parlavano silenziosamente e al contempo facevano un rumore insopportabile.

"È arrivato il momento di scusarsi ufficialmente" disse la ragazza, dopo alcuni istanti. "Scusa se ho quasi rovinato la tua carriera politica ancor prima che iniziasse".

Federico si avvicinò. "Tranquilla, adesso che quella disgrazia ha un volto e un nome, so contro chi ingiuriare quando la ricordo".

"Che stronzo" esclamò Emilia, colpendolo sul petto e annullando la distanza che li divideva. "Non puoi legarti al dito una cosa successa tre anni fa".

"Invece sì che posso".

Si chinò verso la ragazza e le infilò una mano nella giacca, posandola sulla sua vita.

Emilia sentì le gambe cederle.

"Ti ho già chiesto scusa" mormorò, il fiato caldo di Federico sul viso.

"E se ti dicessi che delle semplici scuse non bastano?".

La ragazza trattenne il respiro.

E, prima che potesse dire qualsiasi cosa, Federico la baciò.

Ebbe la sensazione che il cuore le stesse esplodendo nel petto. Lo sentì battere all'impazzata, mentre il cervello era inibito, incapace di trasmettere ordini al corpo. Restò immobile, assaporando le labbra di Federico per degli istanti che le parvero infiniti.

Quando egli si staccò, con dolcezza, si sentì mancare il fiato.

Restò immobile a guardarlo. Si concentrò su ogni suo lineamento, sulle guance incavate, sugli occhi forse troppo grandi, ma di un azzurro in cui temeva di perdersi.

Il ragazzo le carezzò una guancia con il dorso della mano.

"Devo andare" mormorò Emilia.

Federico annuì e la ragazza si avviò al portone.

Infilò le chiavi nella toppa e gli rivolse un ultimo sguardo, prima di entrare nel cortile.

"Emilia?".

La ragazza si voltò, la bocca schiusa e gli occhi spalancati.

Federico sorrise.

"Sei davvero bellissima".


Spazio autrice:

Bella rega, dopo 29 capitoli e tre anni di disagio, Emilia è finalmente riuscita a dare un bacio alla sua crush di sempre (Emilia, insegnaci come hai fatto). Ovviamentr questo, come potrete ben immaginare, complicherà tutto... Ma niente spoiler, pian piano scoprirete ogni cosa!

Purtroppo, nonostante mi sia piaciuto tantissimo scrivere questo capitolo, mi rendo conto che mancano molte descrizioni d'ambiente e che alcune metafore sono un sacco scontate, quindi se avete qualche consiglio scrivetemelo pure qua sotto o in chat, li accetto sempre volentieri.

Un bacio, ci vediamo venerdì🧡

Baby Rose

P.S. Su Pinterest ho trovato questa foto che secondo me rappresenta appieno la scena del bacio. Non l'ho messa a inizio capitolo perché non volevo spoilerarvi il contenuto haha.

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