43- Piacer figlio d'affanno

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17 maggio

Il bus affittato per la gita era in viaggio verso Atene, la penultima tappa del viaggio, nonché la meta più agognata da tutti gli studenti. L'emozione era forte in ognuno di loro: dopo aver sudato e pianto sul vocabolario di greco, fantasticato attraverso i miti su eroi e divinità e ammirato sui libri di storia dell'arte la maestria e il genio degli artisti ellenici, avrebbero finalmente coronato il sogno di vedere dal vivo l'Acropoli. Se avessero dovuto cercare un solo motivo per cui valesse la pena frequentare il liceo classico, questo era senza ombra di dubbio la gita in Grecia.

Emilia era stremata. Dopo aver parlato con Andrea, aveva chiesto ai professori di poter tornare prima in hotel, ma per quasi tutta la notte non aveva dormito. Si era rigirata nel letto come un'ossessa, incapace di prendere sonno, sudando come se stesse correndo e aveva trascorso la giornata in uno stato catatonico, trascinandosi a fatica tra un sito archeologico e l'altro. Solo sul bus era riuscita a dormire un po' e, quando aveva riaperto gli occhi, erano già a pochi chilometri da Atene. In lontananza si scorgeva l'acropoli, che dominava dall'alto tutta la città.

Seduta accanto a lei c'era Rebecca, che durante il viaggio aveva ascoltato musica dalle cuffiette, e dietro Denisa e Alessia, che avevano dormito per tutto il tempo e si erano svegliate anche loro poco prima dell'arrivo a destinazione.

Su Andrea nessuna aveva posto domande. Avevano intuito che la sera precedente fosse successo qualcosa, dato che Emilia aveva abbandonato in fretta e furia la festa senza dare alcuna spiegazione, ma ai primi accenni di curiosità la ragazza aveva risposto con vaghezza e imbarazzo, quindi avevano preferito lasciarla in pace e aspettare che fosse lei a tirare fuori l'argomento.

Denisa si stirò, mugugnando, poi si sollevò, poggiando i gomiti sullo schienale del sedile di fronte, su cui era seduta Emilia.

Rebecca si tolse gli auricolari e guardò divertita l'amica. "Dormito bene?".

"Da dio" rispose Denisa, la voce ancora impastata. "Mamma mia Emilia, non puoi capire cos'è successo ieri".

La ragazza strabuzzò gli occhi. "Oddio, ho paura".

Denisa schiaffeggiò il braccio di Alessia, che ancora vegetava in uno stato di dormiveglia. "Dai su, devo raccontarlo io per caso?".

"In questo momento sono devastata". La ragazza si rannicchiò su sé stessa e richiuse gli occhi. "Lasciami dormire".

Denisa la guardò sprezzante, poi tornò a rivolgersi alle altre. "Va bene, vorrà dire che lo racconterò io. Ieri Ale si è fatta il barista del locale in cui eravamo".

"Nooooo". Emilia spalancò la bocca e si sporse dal sedile per dare alcuni colpetti in testa ad Alessia. "Dai, raccontami, scema".

Come un orso arrabbiato svegliato dal proprio letargo, Alessia riaprì gli occhi e fulminò le ragazze con lo sguardo. "Siete davvero tremende".

"Scusami, tu dai il tuo primo bacio e non me lo vuoi raccontare?" rispose Emilia con disappunto. "Questa me la segno".

"Allora". Alessia si sedette composta e agitò le braccia con fare teatrale. "Ero appena appena brilla, e volevo bere ancora, solo che non avevo più soldi, quindi sono andata a provarci con il barista. Lui inizialmente era un po' trattenuto, mi fa: "Guarda che lo vedo che sei minorenne", io gli ho detto che avrei compiuto diciott'anni tra due giorni, ma lui non sembrava convinto, così gli ho fatto vedere la carta d'identità. Lui allora si è sciolto un po', abbiamo continuato a parlare mezzo in inglese mezzo in un mix di italiano e greco, poi gli ho detto: "Ma se ti do un bacio me lo offri un drink?" e lui, raga mi stavo sentendo male, mi ha risposto: "Non sono così stronzo da poter accettare uno scambio del genere, anche se un bacio te lo darei volentieri perché, cavolo, sei bellissima" ".

Emilia continuò a tenere gli occhi spalancati, il sorriso che trasudava entusiasmo e impazienza. "No va beh, e poi?".

"Poi io sono scoppiata a ridere, ho fatto un po' la finta timida, e intanto il flirt si è fatto più serio, così gli ho chiesto: "Ma devi stare qua tutta la sera o puoi concedermi qualche minuto?". Lui è stato un attimo lì, poi ha detto qualcosa al collega ed è sceso dal bancone. Siamo andati fuori, ci siamo allontanati un pochino dagli altri, lui si è fumato una siga, abbiamo parlato ancora un po', e poi niente raga, abbiamo iniziato a limonare di brutto".

Emilia allungò un braccio e batté il cinque all'amica. "Ale, sei il mio nuovo idolo".

La ragazza scoppiò a ridere e, abbassando la voce, con aria di mistero, aggiunse: "Mi ha anche fatto un ditalino ed è stato fighissimo. Peccato che fossimo in mezzo alla via, perché, ve lo giuro raga, me lo sarei scopato, era troppo bono".

Le altre scoppiarono a ridere e Alessia portò le braccia dietro la testa, un'espressione soddisfatta dipinta in volto. "Questa gita mi sta dando molte soddisfazioni, chissà se ad Atene becco qualche altro bel figo".

Denisa le rivolse uno sguardo scettico, poi si allungò verso Emilia e le sussurrò all'orecchio: "Prima di farsi questo tipo continuava a chiedermi dove fosse Elia".

"Che cosa blateri?".

"Niente Ale" si difese la ragazza, lasciandosi cadere contro lo schienale del sedile. "Aggiungevo solo dettagli sulla serata".

Alessia aggrottò la fronte. "Va beh".

"Ragazzi, siamo quasi arrivati!". Il professor Raise si levò in piedi e agitò le mani in aria. "Siamo già in ritardo, quindi quando il bus si ferma vi voglio subito giù e belli in forma per salire".

L'intimazione dell'insegnante si trasformò in breve tempo in un ordine.

Una volta scesi dal bus, si mise a capo del gruppo, sollevò un ombrellino giallo, e diede inizio alla salita all'acropoli.

"Dai ragazzi, datevi un andi" urlò, più avanti rispetto agli altri di almeno dieci metri. "Avete diciott'anni, suvvia! Io ne ho il triplo e, insomma, guardatemi".

"Questo si fa palesemente di coca" esclamò Alessia, ormai senza fiato. "Devo farmi dire come si chiama il suo pusher, anch'io voglio stare sempre a mille come lui".

Denisa si aggrappò a Rebecca come un peso morto. "Sono d'accordo".

Emilia aveva il fiato così corto da non riuscire a pronunciare nessuna parola. Si limitò a ridacchiare, agognando il momento in cui avrebbero raggiunto la cima.

"Ci siamo ragazzi" esclamò Raise, dopo mezz'ora di scalata.

Una lunga scalinata si diramava verso l'alto, circondata da colonne imponenti, che accolsero trionfalmente gli studenti del D'Azeglio. La stanchezza che avevano lamentato fino a quel momento iniziò a lasciare il posto alla meraviglia.

"Sto per piangere, raga". Alessia era nervosa e sventolava una mano davanti al viso. "Ci credete che siamo sul serio qui?".

Rebecca si guardò attorno con aria sognante. "Io no, non riesco ancora a crederci".

Giunte sulla cima delle scale, si ammutolirono di colpo.

Il Partenone, il tempio dedicato alla dea Atena, si ergeva in tutta la sua imponenza e maestosità, figlio di una civiltà di pensatori ormai estinta, ma il cui fascino restava eterno. E attorno all'acropoli si estendeva Atene, con le sue case bianche che capitolavano giù dalle colline circostanti e inciampavano l'una sull'altra, fino al Pireo, il porto della città, mentre il sole calava tingendo di arancione il cielo, che era così pieno di sfumature da sembrare un quadro impressionista.

"La storia dell'acropoli di Atene inizia in epoca micenea, con la costruzione di un mégaron" spiegò la guida, la stessa donna che li aveva accompagnati a Olympia e in tutti gli altri siti archeologici precedentemente visitati. "Vive degli sviluppi durante la tirannide dei Pisistratidi, ma è l'epoca di Pericle a segnare un punto di svolta. In questo periodo, infatti, vengono costruiti gli edifici più importanti, tra cui il Partenone".

La visita durò una mezz'oretta e, quando fu terminata, la guida esclamò: "Ora vi lascio girare un po' da soli. Se siete curiosi di scoprire qualcos'altro, io sono qui".

I ragazzi si sparpagliarono in fretta, senza nemmeno sentire il professor Raise che urlava: "Tra un quarto d'ora vi voglio di nuovo tutti qui", e corsero a scattare fotografie, scovando i punti più panoramici e iconici.

Approfittando della massa di turisti, Emilia si mescolò ad essi e si allontanò dalle amiche, andando ad affacciarsi da un muretto che dava sul Pireo.

Chiuse gli occhi per alcuni istanti, cercando di allontanare tutte le voci che riempivano l'aria, poi li riaprì e osservò la città, concentrandosi su dettagli insignificanti. Era un esercizio per tentare di allontanare dalla mente la miriade di pensieri negativi che la affollavano: erano successe tante cose negli ultimi giorni e si sentiva sopraffatta ed esausta.

Quella splendida vista le fece finalmente riprendere fiato. Sola al cospetto di una città di mezzo milione di abitanti, pensò a quanto fossero insignificanti i suoi problemi, i suoi drammi, i suoi pensieri, la sua stessa vita. Quella riflessione le diede conforto, accogliendola in un abbraccio dolceamaro che era tutto ciò di cui aveva bisogno al momento.

"Ehi".

Emilia ne aveva riconosciuto i passi sulla ghiaia, ancor prima di sentire la sua voce.

"Ehi".

Si voltò verso Federico, in piedi accanto a lei, con lo sguardo rivolto verso il panorama.

Restarono in silenzio per alcuni istanti, le voci attorno a loro sempre più distanti.

Emilia avvertì lo stomaco annodarsi. Nonostante la vicinanza fisica, Federico le parve distante e irraggiungibile, bello quanto le statue che riempivano i musei di quella terra.

"Come stai?" domandò il ragazzo, interrompendo il silenzio.

Emilia fece spallucce. "Sono stata meglio, diciamo".

Federico le rivolse uno sguardo curioso. Quegli occhi indagatori sembravano capaci di penetrarle nel cranio e leggerle ogni pensiero, ogni sensazione, ogni debolezza.

"Io e Andrea abbiamo chiuso" aggiunse, distogliendo lo sguardo.

"Davvero?".

Per la prima volta da quando lo conosceva, Emilia scorse nella sua voce una nota di sincero stupore.

Calò un altro momento di silenzio, molto più gravoso del precedente. Si scambiarono alcune occhiate, dense di non detti e punti interrogativi, ed Emilia tremò di fronte alla possibilità che sarebbero potuti rimanere tali per sempre.

"Federico, a me piaci tu". Lo disse di getto, senza riflettere troppo sulle conseguenze di quella rivelazione. Sapeva che probabilmente se ne sarebbe pentita, ma iniziava ad essere stanca dei segreti. "Mi piaci veramente tanto e sono tre anni che mi tengo dentro questa cosa".

La voce le si ruppe e Federico schiuse la bocca. "Tre anni?".

"Sì". Non riusciva a guardarlo in faccia. Sapeva che, se l'avesse fatto, non sarebbe stata in grado di continuare. "Tu nemmeno sapevi della mia esistenza, ma io ti morivo dietro e desideravo così tanto poterti anche solo rivolgere la parola".

"E guardaci ora". Gli occhi di Federico le si posarono addosso e da quel momento non guardarono altro che lei.

"Fede, tu sei il fidanzato della mia migliore amica". Emilia nascose il volto tra le mani, la voce rotta e il respiro affannoso.

Il ragazzo si rabbuiò. "Se solo ti avessi conosciuta prima".

Cadde di nuovo il silenzio. Quegli istanti parvero immobili ed eterni come il Partenone alle loro spalle.

"È una tortura".

Emilia sollevò lo sguardo e incrociò gli occhi azzurri di Federico. "Cosa?".

"Averti così vicina e non poterti baciare. Quanto vorrei fregarmene di tutto e tutti e farlo. Sei così bella che, anche se ci troviamo in uno dei luoghi più spettacolari del pianeta, io non riesco a guardare altro che te".

Emilia non riuscì né a sorridere né a rispondere. Quelle parole erano le più belle che qualcuno le avesse mai dedicato, ma al contempo erano una coltellata.

"Piacer figlio d'affanno" aggiunse Federico, come se le avesse letto nella mente, citando Leopardi.

Fu l'ultima cosa che riuscirono a dirsi.

Pochi istanti dopo, piombarono come avvoltoi i loro amici, facendoli sobbalzare.

"Perfetto, ci siamo tutti" esclamò Denisa, entusiasta. "Che ne dite se ci facciamo una foto di gruppo?".

Emilia incrociò lo sguardo severo di Ruben. Mentre gli altri erano assorbiti dalla foto e cercavano qualcuno che gliela scattasse, il ragazzo le si avvicinò e la tirò in disparte.

"Almeno non farti vedere da sola con lui" le sussurrò a un orecchio, mantenendo un'espressione impassibile.

"Stavamo solo parlando" rispose Emilia, con durezza. "E comunque tu non sei un cazzo di nessuno per starmi addosso così, come un poliziotto. Perché non parli con Fede, eh?".

"Perché so che, anche se gli dico qualcosa, lui non si ferma".

Lo stupore si dipinse sul volto di Emilia e Ruben aggiunse: "Non ho stima per nessuno di voi due, ma se mi dicessero che tra voi qualcuno vuole ancora bene a Denisa, sicuramente non penserei a Federico".

"Emi, Rub, su, venite a fare la foto".

Emilia guardò prima Denisa, poi di nuovo Ruben, incapace di spiccicare parola.

"Giuro che ti lascerò in pace, però pensa a quello che ti ho detto".

Detto ciò, il ragazzo si unì al gruppo, accalcatosi di fronte a uno studente della quinta B che reggeva in orizzontale il telefono di Denisa. Emilia aveva desiderato per tutto il liceo un gruppo di amici come quello, dove potersi finalmente sentire parte di qualcosa, e non un'emarginata come lo era sempre stata nella sua classe; un gruppo con il quale condividere momenti divertenti, ma anche nel quale rifugiarsi in quelli di sconforto. Eppure quel gruppo nascondeva così tanti segreti da rendere tutti coloro che ne facevano parte soltanto degli estranei. Era una consapevolezza dolorosa.

"Su, Martucci, manchi solo tu" esclamò Alessia, allungando una mano verso di lei.

Tutto ciò che Emilia desiderava era mettersi a urlare.

Invece si unì al gruppo e al momento dello scatto si stampò in faccia il sorriso più falso che avesse mai fatto in vita sua.


Spazio autrice:

Ahh... Eccoci. Non vedevo l'ora di pubblicare questo capitolo, perché è uno dei miei preferiti e so che scatenerà reazioni opposte in ognuno di voi, quindi sono curiosissima di leggere le vostre opinioni hahahaha.

Grazie per aver letto (e scusatemi per il ritardo), ci risentiamo venerdì❤️

Baby Rose

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