Capitolo 20: Matt

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Take Flight - Lindsey Stirling


Quella maledetta donna mi aveva cambiato d'abito, visto che il mio era a brandelli e mi aveva rinchiuso in una stanza, anche se a detta sua potevo uscire quando volevo.

Poco dopo l'inizio della mia reclusione, fece apparire tre demoni minori, ovviamente mandati da lei per tenermi d'occhio, che iniziarono a essere gentili e fin troppo affabili nei miei confronti.

"Non conosco i tuoi gusti, quindi ti ho mandato un po' di tutto." mi aveva detto con tono melenso quella donnaccia.

Perfida strega!

Appena se ne era andata, quei tre avevano tentato di farmi un massaggio, coccolarmi e tutto ciò che la loro mente depravata suggeriva loro. Di sicuro erano stati istruiti da lei, segno della premeditazione delle sue intenzioni. Non c'era niente di vero nelle sue parole e se non fossi stato senza speranze o alternative non avrei mai prestato orecchio alle sue velenose e false lusinghe.

Mi stava torturando, dopotutto, era ciò che facevano in quel posto: giocavano con la mente delle loro vittime, per indurli a peccare e commettere nefandezze contro il loro stesso Padre e creatore. Quello era un luogo orribile e terrificante, tutto era manipolazione e falsità, si usavano gli istinti più bassi di un uomo per assoggettarlo, si usava ciò contro cui cercava virtuosamente di combattere per farlo cadere in un vortice di dannazione ed eterno pentimento.

Ero rimasto chiuso lì dentro, in balia di quei demoni senza scrupoli per quelle che sembravano essere delle ore, facendo una gran fatica a respingerli, sia verbalmente, che a spintoni. Ma alla fine erano riusciti a mettermi le mani addosso ed avevano iniziato a torturarmi con baci, carezze, sussurri, lusinghe. Era così che l'Inferno aveva adescato così tante anime e Nephilim, facendo credere loro di essere speciali, di essere migliori dello stesso Dio e che quindi non servisse prestare ascolto alla sua parola e condurre una vita retta. Si restava abbindolati da quei modi melensi e accattivanti, creati con il solo scopo di sedurre un uomo e farlo cadere.

Ero talmente scosso che neanche mi accorsi dell'arrivo del demone della superbia.

Quando lo vidi, appoggiato a braccia conserte allo stipite della porta, con un ghigno sarcastico stampato in faccia, mi resi conto che doveva essere lì ad osservarmi già da un bel pezzo, ormai. La sua espressione, soddisfatta e lasciva, lasciava ben intendere quanto si stesse divertendo.

In effetti, le mie condizioni non erano delle migliori, ero in difficoltà... grosse difficoltà. Il gilet se ne stava ormai abbandonato sul pavimento; la camicia era completamente sbottonata e scesa su un lato a lasciarmi scoperta la spalla e parte della schiena; i pantaloni... piuttosto gonfi e slacciati. Ansimavo ed ero stordito e sospettavo che non fosse solo colpa del trattamento a cui i demoni mi avevano sottoposto per ore, la stanza doveva essere satura di lussuria, per essere sicuri che cedessi a loro senza ribellarmi troppo.

Sentivo la pelle sensibilissima al punto che, quando uno dei tre ragazzi iniziò a mordicchiarmi i pettorali, l'altro l'addome e a solleticarmi la schiena, e il terzo a dedicarsi alle mie parti basse, lasciandomi baci sopra gli indumenti, le ali mi spuntarono fuori involontariamente. Questo a causa della scarica di sensazioni che cercavo di reprimere e che, non avendole mai provate prima d'ora, non riuscivo a gestire.

Lo sentii ridere, mentre si spostava dalla porta. I tre demoni si voltarono a guardarlo, continuando ad attorniarmi e a passare le loro mani ovunque su di me.

«Sparite!» ordinò lui secco, continuando a fissarmi con intensità e con quello che mi parve desiderio. Non era carnale la sua brama, ma più simile a quella di un predatore. Mi sentivo come un giovane falchetto caduto dal nido, nonostante i miei duemila anni di non morte. Non sapevo come fare a tornare a casa ed intorno a me strisciava un serpente che ad ogni giro stringeva un po' di più le sue spire, senza lasciarmi alcuna via di fuga o scampo.

I tre, probabilmente, avevano avuto la mia stessa sensazione. Non se lo fecero ripetere due volte e si dileguarono immediatamente, sparendo in una nuvola di fumo nero, lasciandoci da soli.

«Ammetto che sono piacevolmente sorpreso che tu abbia accettato l'offerta di Kora.» ghignò con un tono affabile, continuando a girami intorno per osservare e godere del mio stato scomposto.

«Non mi avete lasciato scelta.» gli sibilai, ancora confuso e con il fiato corto, dando ancora di più l'impressione di un aquilotto con le piume arruffate, che prova a fare la voce grossa quando si trova palesemente in svantaggio.

Lo odiavo, profondamente. Tutta quella situazione era nata solo ed unicamente per colpa sua. Mi aveva tentato, ed io ero caduto a terra senza più possibilità di rimettermi in piedi.

«Noi? Oh, suvvia. La scelta è stata unicamente tua. Nessuno ti ha portato qui all'Inferno con la forza.» rispose ridacchiando, avvicinandosi a me. «Sei qui per tua volontà, per ciò che sei, anche se vedo che ancora fatichi ad accettarlo.» osservò, passandomi gli occhi addosso e leccandosi le labbra.

«È solo colpa tua! Di quello che mi hai fatto fare!» non sarei mai più potuto tornare a casa o dai miei amici: ero una delusione, una vergogna, un abominio.

Se mi avessero visto in quello stato... non volevo immaginare i loro volti disgustati mentre estraevano le spade di luce per porre meritatamente fine alla mia esistenza. Dio mi aveva messo alla prova ed avevo fallito, non ero degno di essere un suo soldato.

«Io non ti ho fatto fare proprio nulla. Era solo ciò che avevi sempre voluto, ma che rifiutavi di fare, e che rifiuti tutt'ora.» disse, fermandosi di fronte a me. «Non ho neppure utilizzato i miei poteri su di te, né ho lasciato che lo facessero i miei fratelli. Non te ne sei reso conto? Tutto quello che provi e senti è dentro di te, lo è sempre stato. Io ti ho solo fatto capire la verità mostrandoti chi sei davvero.»

«Sta zitto!» gli urlai contro e mi si gonfiarono le penne per il nervoso.

Lui mi guardò ridacchiando, osservando le mie ali, tenute mezze scomposte. «Mmm... interessante, le tue ali, in queste condizioni, sono estremamente eccitanti lo sai?» domandò con un tono di voce da mettermi i brividi: non capivo a cosa si riferisse, se al loro essere arruffate o al loro colore.

Lo sdegno e l'ansia per quel pensiero ebbero solo l'effetto di farmele arruffare di più. Se avessero cambiato colore non avrei più potuto avere il perdono di mio Padre. Ma chi volevo prendere in giro? Non avrebbe mai perdonato un sodomita, nessuno dei miei fratelli lo avrebbe fatto.

Gli restituii un'occhiataccia, volevo che andasse via e mi lasciasse solo con le mie pene, a scontare il mio peccato, ma lui non sembrava affatto intenzionato a lasciare la stanza.

«Oh, andiamo! Sei sempre stato incompreso e hai sempre vissuto all'ombra degli altri, nascondendo chi eri davvero. Piangerti addosso adesso cosa cambia?» mi prese in giro, fermandosi di fronte a me e facendo per accarezzarmi il volto. «Non hai fatto niente di sbagliato, Matt.»

Spostai la sua mano con forza. «Non mi toccare.» gli abbaiai contro. Voleva solo umiliarmi ancora e ridere del suo operato.

La mia reazione, però, sembrò solo divertirlo ancora di più.

«Mi sembrava che l'ultima volta ti fosse piaciuto.» sussurrò mellifluo, leccandosi le labbra. «Perché credi che sia qui, angioletto?»

«Non mi importa, vattene!» volevo solo restarmene da solo e punirmi per ciò che avevo fatto.

Si fece più vicino e mi afferrò i polsi con decisione, facendomi rendere conto di quanto fosse decisamente più forte di me. Se non fossi stato così occupato ad autocommiserarmi avrei potuto reagire, ficcare quella sua dannata faccia da demone contro un muro e... mi vergognai all'istante dei pensieri che la mia mente mi stava suggerendo. Da quando lui aveva rivelato la mia natura, non riuscivo più a reprimere quelle fantasie. Mi sentivo frustrato e sofferente e questo mi rendeva debole e ciò che era peggio era che lui lo vedeva chiaramente.

«Non lo farò, mio piccolo angioletto. Non ho intenzione di andarmene e lasciarti qui a piangerti addosso.» sibilò, avvicinando il suo volto al mio. «Sono il demone della superbia, se non ti ritenessi degno di attenzioni non sarei qui. Non mi diverto certo a prendere in giro un angelo stordito dalle sue stesse emozioni.»

Dalle mie stesse emozioni e dalla lussuria di cui era satura la stanza. Non ero certo nato ieri, sentivo ovunque odore di peccato, o forse era solo ciò di cui volevo convincermi per illudermi ancora di poter giustificare le mie debolezze.

«So benissimo che ti ha mandato la tua padrona. Che cosa volete da me?»

«Ammetto che mi ha chiesto anche lei di venire da te, ma non è stato di certo quello ad avermi fatto decidere di venire qui. Ciò che lei vuole non è affare mio. Faccio ciò che lei mi ordina, per soddisfarla nel modo migliore possibile, e non come quei mentecatti che ha attorno a sé.» rispose con un certo astio. «So cosa voglio io, però... per te.»

«Umiliarmi e bearti di questo.» sibilai amaramente.

«No, non è questo che voglio. Se volessi solo umiliarti ti avrei già preso, sbattuto su quel letto, possedendoti con la forza e probabilmente ti sarebbe anche piaciuto. Ti avrei umiliato e ti saresti sentito tale tu stesso.» disse stringendomi i polsi «Ma non è questo ciò che voglio. Voglio renderti chiaro ciò che sei davvero e che, semplicemente, tu lo possa accettare» sussurrò languido, abbassando lo sguardo sulle mie labbra e lasciandomi i polsi. «Sei arrabbiato con me, ma al contempo sei eccitato dalla situazione e ti senti sbagliato per questo.» sorrise divertito, sfiorandomi il petto e prendendo a girarmi intorno. «Non dovresti.»

Sussurrava al mio orecchio, sfiorando delicatamente la mia pelle e le mie ali, da cui sembrava terribilmente attratto.

Mi sentivo molto più che sbagliato. Da dove venivo io, essere come me era un crimine contro Dio, un'aberrazione. Avevo provato a frenare la mia natura, a tenerla nascosta, vergognandomi costantemente di ciò che ero e ciò che provavo, con il terrore che qualcuno potesse scoprirlo e farmela pagare per questo.

Serrai la mascella, avevo lo stomaco stretto in una profonda morsa di disagio, tristezza e vergogna. Le piume delle mie ali si abbassarono, seguendo il mio umore.

«Matt, ascoltami. Non c'è nulla di sbagliato in quello che sei tu, o in quello che un qualsiasi angelo, o demone, possa provare.» disse, poggiando una mano sul mio volto alzandolo verso il suo, con decisione, restando alle mie spalle. «Tutti in Paradiso fingono di essere perfetti, puri e impeccabili, eppure nascono Nephilim e Dio non fa nulla. Lì sopra, lo sai anche tu, ci sono giochi di potere. Fingono sorrisi solo per accoltellarsi alle spalle a vicenda.» sussurrò, accarezzandomi la mascella mentre parlava e scandiva ogni parola.

«Quello che fanno gli angeli è solo nascondere la verità a se stessi e agli altri, tu lo sai meglio di me. Il fatto stesso che si dica che siamo noi, esseri demoniaci, a peccare e mentire quando, in fin dei conti, accettiamo la nostra natura e siamo sereni con noi stessi, ti dice che forse non ti è stata detta tutta la verità, ma solo quella necessaria a controllarti.» sorrise, leccandosi di nuovo le labbra. Mi passò le dita sul collo per poi scivolare con una mano lungo il mio petto, diretto verso i miei pantaloni. «Credi che i tuoi piccoli e stupidi amici siano tanto diversi da te? Che siano liberi dal peccato?»

Iniziavo di nuovo a sentirmi stordito. Il battito del mio cuore immortale aveva ripreso ad accelerare ed il respiro a farsi pesante. Sentivo le tempie pulsare ed il viso accaldato. La pressione tra le mie gambe aumentava mentre il demone si faceva strada sui miei indumenti intimi.

«Ma non sono delle aberrazioni come me...» i miei amici mi avrebbero voltato le spalle se avessero saputo, sempre che non avessero provato a cancellarmi.

«Oh beh, potrebbero essere anche peggio, in un certo senso.» disse, strofinando una mano sul rigonfiamento tra le mie gambe. «Mark aspira a diventare un arcangelo, ed è disposto a farvi fuori tutti per diventarlo. Decisamente pecca di superbia e gola. Ha cercato di uccidere Joan, mentre lei gli dichiarava il suo amore.» rise divertito come non mai, tanto dai suoi ricordi, quanto dal mio stato alterato. «Poverina! Non deve essere stato facile il suo rifiuto mentre cercava di ucciderla, e poi beh... c'è Luke, il bel tenebroso Luke, che se la fa con una Nephilim che prima o poi verrà cancellata.» sospirò teatrale, infilando la mano nei miei boxer per far sì che mi concentrassi sul pensiero di Luke, senza più Hope al suo fianco, completamente libero. «Il buon Luke che, quando ha dovuto scegliere tra te in quelle condizioni o la Nephilim, non si è neanche voltato a guardarti.» mormorò, mordicchiandomi l'orecchio.

«Lei è... era... la nostra missione.» mi corressi in fretta, nonostante lo stordimento.

Dovevo vergognarmi per aver pensato, anche solo per un attimo alla possibilità che le potesse accadere qualcosa. Hope era la mia migliore amica, le volevo bene, più che se fosse stata davvero mia sorella, avrei dato la vita per proteggerla e non c'era demone che potesse farmi pensare il contrario, quella era l'unica cosa di cui al momento ero sicuro. Lei sarebbe stata l'unica che avrebbe potuto accettarmi così com'ero, che non mi avrebbe fatto sentire un mostro.

«La missione viene prima di ogni altra cosa... Luke ha fatto la scelta giusta...» ero sincero nell'affermare che fossi felice di saperla in salvo, ma era anche vero che aver visto Luke correre da lei, senza battere ciglio, mi aveva spezzato il cuore. Guardarlo ignorarmi in quel modo, ed essere consapevole del fatto che Mark mi avrebbe cancellato, avevano contribuito a farmi sentire uno straccio.

«Questo... Matt, non è né amore, né compassione, né gentilezza, ma puro egoismo. Il Paradiso ne è saturo. Quasi tutti gli angeli pensano solo a se stessi e non agli altri.»

Parlava lento, mellifluo e con una sicurezza disarmante, accompagnando le sue parole con il movimento stordente della sua mano nei miei boxer, come se stesse cercando di farmi capire una verità che non riuscissi ad afferrare, ma che fosse talmente ovvia da essere lì, di fronte a me.

«L'Inferno è pieno di odio, cattiveria, follia, pazzia e falsità, ma c'è anche amore, fiducia e obbedienza. Noi almeno non ci nascondiamo. Siamo chi siamo e tu Matt, così come sei, sei perfetto.» mormorò, afferrandomi la gola e mordicchiandomi la mandibola, facendo in modo che mi inarcassi contro di lui, con le ali che lo sfioravano.

Sollevai lo sguardo su di lui, cercando un segno a cui aggrapparmi, che mi facesse capire che stesse mentendo e non solo giocando con me.

«Non so cosa fare.» confessai triste e ormai piuttosto confuso, sentendo ogni pensiero razionale venir strappato via dal suo tocco esperto. Dio non mi avrebbe perdonato, gli altri angeli non mi avrebbero accettato, ero sempre stato solo, ma ora lo ero più che mai.

Lui sorrise. «Certo che lo sai. Accettalo e basta. Ti assicuro che poi tutto sarà diverso, non hai idea dell'enorme peso che ti toglierai di dosso.» mormorò lui gentile, spostandomi leggermente la biancheria e denudandomi, in parte, la parte inferiore. «Inoltre, io sono qui.» osservò con fare arrogante, continuando a toccarmi. «Dopotutto, te lo avevo promesso.»

«Che cosa vuoi da me?» non capivo, cosa ci guadagnava lui?

«Voglio te, te l'ho detto. Sono il demone della superbia, e voglio solo il meglio.» spiegò alzando il volto, con sufficienza, come se avesse detto una cosa ovvia. «Qui all'Inferno le persone che attualmente mi interessano sul serio sono solo due, e una di queste sei tu. L'altra ovviamente è la regina.»

I peccati capitali erano terrificanti, ma non mentivano. Non potevano, non sul proprio peccato, non ne erano capaci.

«Il meglio, io?» non valevo niente come angelo, non valevo niente nella mia squadra e non valevo niente come uomo. Cosa mai ci trovava in me?

«Certo. Tu sei bellissimo e neanche te ne sei mai reso conto.» ghignò, osservandomi, per poi accarezzarmi di nuovo il volto per poi scendere sul mio addome. Serrò il braccio attorno al mio busto tirandomi a sé, facendomi sentire attraverso il suo corpo quanto quelle parole fossero vere. «E voglio solo vedere quando accetterai chi sei davvero.» mi disse, prendendo a baciarmi collo e spalla.

In quel momento mi sentivo come fatto di creta, tra le sue mani. Le sue parole, acqua per modellarmi.

«Posso solo mostrartelo.» continuò, iniziando poi a sfilarmi lentamente la camicia, senza smettere di baciarmi e mordicchiarmi.

Si sbottonò poi la sua e mi fece voltare per avermi di fronte. Mi afferrò la mano e la poggiò sul proprio petto, facendola scivolare sopra il suo corpo perfetto, continuando a fissarmi con un sorrisetto arrogante.

«Toccami, non ti trattenere. Non serve assolutamente a niente. Butta il passato alle spalle e scopri quello che, in realtà, ti può davvero dare la tua eternità.»

Ero a dir poco terrorizzato, stordito dal trattamento a cui mi aveva sottoposto e dalle sue parole. Ero talmente impietrito da sentire i miei riflessi completamente atrofizzati, al punto che non riuscì a ritirare la mano, neanche ci provai, a dire il vero. Non riuscivo a far altro che guardare quegli occhi blu a cui aveva incatenato i miei. Il demone era davvero molto attraente, ma erano duemila anni che mi ripetevano che tutto questo era sbagliato. Era sbagliato amare, era ancora più sbagliato se si fosse trattato di un altro uomo, era sbagliato anche solo desiderarlo. Eppure lo bramavo come non mai.

Lui ridacchiò, passandomi una mano tra i dreadlock, tirandomi appena dietro la testa. «Oh, Matt, non sai quanto ti desidero!» sussurrò contro le mie labbra, lasciandomi la mano che tenevo sui suoi pettorali. Iniziò ad accarezzarmi lungo i fianchi, fino alla vita, riprendendo a toccarmi mentre i suoi occhi, fissi nei miei, leggevano il mio desiderio ed il mio piacere aumentare per merito suo.

Rabbrividii alle sue parole, iniziando ad avere il respiro accelerato. Neanche mi resi conto di tenere ancora la mano su di lui. Ero nel panico, non sapevo cosa fare.

Lui, invece, sembrava saperlo perfettamente. Mi slacciò gli ultimi indumenti che indossavo, per poi lasciarmi nudo di fronte a lui.

«Te l'ho già detto, vero? Sei uno dei pochi maschi che possono considerarsi fortunati di ricevere le mie attenzioni. Ma con te non può essere diversamente.» mi sussurrò, spingendomi appena indietro verso il letto.

I miei amici non avrebbero capito, loro non sapevano come mi sentivo. Tutto il desiderio represso, tutta la frustrazione dell'essere diverso e del non poter essere ciò che davvero ero.

Fu più forte di me, spostai il viso verso il suo e lo baciai. E lui ricambiò con ardore e chiara soddisfazione.

Mi spinse fino al letto buttandomici sopra e rimanendo in piedi, fissandomi con un ghigno sul volto, evidentemente eccitato. Iniziò a liberarsi a sua volta dai pantaloni, poi tornò a torreggiare sopra di me, continuando a fissarmi, come se mi volesse divorare dal desiderio, tornando a baciarmi con foga.

Ero terrorizzato, come minimo. Avevo immaginato moltissime volte quella scena, ma le sensazioni che ne venivano fuori erano oltre ogni immaginazione. Avevo il fiato corto e mi sentivo bruciare dal desiderio di toccarlo e di essere toccato e baciato ancora da lui. Me ne vergognavo, ma a lui non sembrava importare, a lui non sembrava sbagliato. La faceva sembrare una cosa legittima e assolutamente naturale.

«Toccami! Accarezzami!» mi ordinò lui, con voce suadente, mentre spostava il volto accanto al mio, ormai a pieno contatto con il mio corpo. «Solitamente non sono delicato, ma visto che per te è la prima volta, potrai avere anche questa accortezza da parte mia.» mormorò. «Ma sappi che non sarò sempre così gentile.» sogghignò, mordendomi l'orecchio. «Ma ti piacerà, te lo posso garantire!» aggiunse, con fare superbo e altezzoso.

Volevo disperatamente toccare il suo corpo, mi sentivo bruciare le dita dal bisogno. Il contatto con lui mi causava scariche incontrollate di piacere e desiderio. Superai il mio timore e mi decisi ad accontentare il mio istinto, toccando la sua pelle liscia e seguendo la perfetta muscolatura. Sospirai per i suoi morsi e dovetti mordermi le labbra per impedirmi di chiedere altre attenzioni da lui. Gli occhi di Dio non arrivavano lì sotto. Per la prima volta, in duemila anni, non mi stava guardando. Per la prima volta ero solo e libero dal suo giudizio. Non dovevo avere paura di ciò che sentivo, dal momento che al ragazzo con cui ero non importava, e che Dio non poteva saperlo. Potevo essere me stesso, solo me stesso.

Le sue mani scivolarono lungo i miei fianchi e si spostò poi tra le mie gambe, graffiandomele, scivolando a mordermi il collo e il petto. Agiva da solo, indisturbato, senza neppure che io glielo chiedessi, come se conoscesse quella danza da tempo immemore.

Alzò appena lo sguardo mentre mi mordeva, ghignante e divertito, lasciandomi i segni dei denti, per quanto il dolore si andasse mescolando con il mero piacere. «Da adesso in poi, solo io potrò averti, Matt. Potrai divertirti con chi vuoi dei demoni minori, ma solo io voglio l'esclusiva di averti mio.» mormorò, mordendomi con più decisione.

«Solo tu?» un po' avevo la mente annebbiata da ciò che stava accadendo, un altro po' non capivo sul serio. Non credevo che, all'Inferno, ci fossero rapporti esclusivi. Lo immaginavo più come un luogo in cui vigesse il mero istinto di accoppiamento, dove la lussuria la facesse da padrone. Lo immaginavo un luogo di orge e continui scambi tra partner casuali.

«Certo! Tu sei mio!» mormorò, tornando sopra di me. «Puoi scoparti chi vuoi, ma fotterti, quello posso farlo solo io.» mormorò tornando a baciarmi e sfiorando le mie ali con le dita.

Alzò poi il busto, praticamente quasi seduto, ma con il bacino contro il mio, osservandomi sarcastico e portando una mano verso il basso.

«Dimmi che mi vuoi, mio piccolo angelo.»

Rabbrividii con forza, sia quando mi sfiorò le ali, che quando mi toccò. Il suo tono imperioso e autoritario era davvero eccitante.

«Sì... va bene...» avevo il fiato corto, sebbene non avessimo fatto ancora niente.

L'idea che fosse il solo a prendermi mi piaceva, ma non lo avrei ammesso mai. Un angelo di luce non poteva ammettere certe cose peccaminose ad un demone, per quanto affascinante e seducente.

«Voglio sentirtelo dire.» mormorò, continuando ad accarezzarmi e prepararmi per ciò che sarebbe successo da lì a poco.

Aspettava e lo faceva apposta, come se stesse giocando, per farmi impazzire ancora di più.

Strinsi i pugni, aggrappandomi alle lenzuola per non cedergli.

«Ti ho detto che va bene.» non volevo sbilanciarmi più di così, ma ero davvero stordito da tutto quel piacere mai provato prima e sempre più intenso.

«Non è ciò che voglio sentirti dire.» insistette ridacchiando, mordendomi il petto con più decisione, come se mi volesse punire, anche se in realtà l'effetto era ancora più piacevole.

«Va bene, va bene!» ero stremato. «Voglio farmi fottere solo da te!» abbaiai, completamente rosso in viso e morendo di vergogna.

«Bravissimo.» ghignò lui prima di baciarmi, quasi con rabbia, per poi darmi finalmente ciò che desideravo.

Fu delicato, ma solo inizialmente, per permettermi di abituarmi a lui e a quello che stava succedendo.

Cercai di non perdere la testa per le sensazioni assurde e incredibili che mi stava facendo provare.

Mi sussurrava languido all'orecchio e non staccava le mani da me, continuando a scivolare su tutto il mio corpo.

Poi, appena iniziai a sciogliermi e lasciarmi andare, iniziò ad essere sempre più forte e deciso. Rideva, gemeva e sospirava appagato, riempiendo le mie orecchie di parole e sussurri.

Persi la testa, completamente. Era una cosa bellissima e meravigliosa e mi faceva stare bene, come poteva Dio dire che fosse sbagliato? Come aveva potuto crearmi così e farmi sentire un mostro per questo? Il vero mostro era lui che giocava con noi, creandoci in un modo e poi chiedendoci di essere diversi, facendoci sentire sempre inadeguati e in errore, privandoci della felicità di avere qualcuno accanto che potesse darci amore, chiedendoci di accontentarci solo del suo. Lontano, distante e sempre pronto ad allungare il dito contro di noi.

Sentivo tutte le sensazioni che quel demone mi scatenava e trasmetteva e, al tempo stesso, sentivo montare dentro l'odio verso quel Padre che mi aveva convinto a biasimarmi per ciò che ero.

Lui mi voltò, tenendomi disteso contro il letto e stando alle mie spalle. Mi afferrò entrambe le mani tra le sue e le portò sopra la mia testa, tornando a tormentarmi, sempre con meno delicatezza, alternando sussurri e morsi che mi sarebbero rimasti.

Rallentò solo per qualche istante, lasciandomi una delle mani per accarezzarmi delicatamente le ali, come se stesse toccando qualcosa di prezioso.

«Oh Matt... sei decisamente meraviglioso, più di quanto potessi immaginare.» sussurrò mellifluo, avvicinando il volto al mio, afferrandomi per i capelli. «E sei tutto mio... solamente mio.»

Non avevo forza per contraddirlo, e a dire il vero nemmeno volevo. «Si... sono tuo... solo tuo...» ero completamente stordito dal piacere ed ero quasi felice.

Dio era stato ed era un grandissimo stronzo a farci credere che tutto ciò fosse sbagliato, non c'era nessun motivo per cui lo fosse.

Tentai di sollevarmi leggermente, sebbene lui si premesse a me. Non avevo ritratto le ali e non avevo avuto il coraggio di guardarle, ma lui continuava a dirmi che erano bellissime. Mi resi conto che erano diventate decisamente sensibili al suo tocco, non mi era mai capitato prima qualcosa di simile. Ero un dilettante alle prime armi, e andavamo avanti già da un bel po'. Non mi ci volle molto ancora a raggiungere l'apice del piacere, anzi, era già un miracolo avessi resistito così tanto.

Poco dopo lo raggiunse anche lui, chinandosi appena sopra di me con il fiato corto e più stanco di quanto mi aspettassi, ma decisamente soddisfatto.

Mi diede un bacio sul collo prima di scivolare di lato, disteso e ancora con il respiro ansante, sfoggiando il solito sorriso sarcastico. «Non sei affatto stato male come prima volta.».

«Ti ringrazio...» in realtà non sapevo che dire ed ero senza fiato, volevo solo nascondere le mie ali prima di guardarle.

«Ora sì che sei perfetto.» gli sentì dire, mentre me le sfiorava delicato. «Guardati.»

«Non ho il coraggio.» ammisi a testa bassa.

Lui ridacchiò divertito. «Adorabile.» ghignò, mentre si metteva seduto. «Le tue ali sono splendide adesso. Sono ciò che sei davvero. Se non le accetti, non lo farai neppure con te stesso.»

Mi morse la spalla, tirandomi un dredlock. «Coraggio, dopo voglio mostrarti l'Inferno.»

Gli diedi un'occhiata, per poi sospirare e decidermi ad alzarmi. Cercai di raccogliere tutto il coraggio di cui ero capace, per affrontare la mia immagine riflessa allo specchio. Il ragazzo che mi osservava aveva il mio aspetto ed i segni di ciò che era appena successo. Alle sue spalle, un enorme paio di ali marroni, sbiadite in alcuni punti, unica traccia del colore bianco che avevano sempre avuto. Le osservai per qualche attimo e poi le ritrassi. Ormai era questo il mio destino.

«Non ritrarle.» mi disse lui comparendo alle mie spalle. «Qui non hai nessun motivo di tenerle nascoste. Come io non nascondo chi sono. Tienile, mi piacciono.» sussurrò languido, dandomi una pacca sul sedere. «Avanti. Vestiti e vieni con me. Questa sera ti vorrò di nuovo.»

Feci riapparire le ali ed iniziai a vestirmi, sforzandomi di non ritrarle di nuovo. Erano un chiaro segno che Dio non mi accettava per ciò che ero e vederle mi faceva male.

Lo seguii fuori da quella stanza, spaventato da ciò che avrei trovato: sguardi disgustati e tentativi di uccidermi. Ma la realtà fu un'altra, niente di tutto questo. Quelli che incontravamo, sollevavano curiosi lo sguardo su di me e mi sorridevano, o tornavano a farsi gli affari propri. A nessuno importava che le mie ali non fossero più bianche, che Dio non mi accettasse, Dio non accettava neanche loro.

In tutto questo Astaroth mi osservava ghignante, come suo solito, con le mani in tasca e camminando al mio fianco.

«Ciò che hai qui all'Inferno è al pari di ciò che avresti in Paradiso, con la sola differenza che non devi mentire a nessuno. Soprattutto a te stesso. Qui chiunque ti accetta per ciò che sei.» spiegò, ridacchiando. «Come ti senti ora?»

«Sollevato?» non ne ero sicuro. Il fatto era che mi sentivo un bel po' confuso. «Ma... dove sono i peccatori?»

C'erano demoni e caduti che si divertivano, a volte anche esagerando e dando sfogo ai propri vizi, ma le anime dannate non le vedevo.

L'Inferno era un taboo, gli angeli non potevano varcare il nero cancello, nessuno sapeva con esattezza cosa ci fosse là sotto. Immaginavamo fiamme, disperazione e devastazione, invece era come una città, fatta di imponenti case molto antiche e templi, palazzi dai caratteri un po' gotici ed altri che sembravano saltati fuori dal medioevo. C'era una grande accozzaglia storica lì dentro, la città non aveva senso, non era come la sua controparte celeste, perfettamente organizzata in cattedrali in cui si viveva in comunità. Lì sotto sembrava quasi che ciascuno creasse da solo il proprio Inferno, dando forma a quella che era la sua idea di casa, a volte in funzione dell'epoca o del posto da cui proveniva o in cui era stato felice.

In Paradiso la felicità ti veniva imposta ed era uguale per tutti. Qui era personale, ciascuno la viveva a modo suo e forse era proprio questa profonda libertà di espressione che gli dava un aspetto così leggero, per niente austero e bacchettone, come quello a cui ero abituato. Era paradossale, ma lì gli abitanti sembravano essere felici e rilassati.

«I peccatori e le anime dannate sono nel loro corrispettivo d'Inferno.» spiegò Astaroth. «Hanno delle stanze tutte loro dove rivivono i loro peccati, ciò che hanno fatto e la loro stessa sofferenza fino al loro pentimento. Fintanto che non perdonano se stessi resteranno lì dentro, a vivere il loro incubo per l'eternità.» spiegò con mezzo sorriso.

«Devono perdonare loro stessi?» non serviva il perdono di Dio?

«Finché non accettano ciò che hanno fatto e si pentono dei loro stessi errori, come possono essere davvero assolti?» rise lui. «In Paradiso questo non si dice. Metà di ciò che pensate di sapere e di cui andate blaterando non è vero. Dopotutto anche la parola di Dio non è diretta. Nessuno può ascoltare la sua voce, fatta eccezione per il Metatron, e chi sa cosa ci sia di vero e cosa no in ciò che vi viene detto.» rise lui, scuotendo il capo. «Il Paradiso si basa su un castello di apparenze, mentre qui ognuno vive per se stesso e per la sua libertà. Cosa pensi sia più giusto, ora che hai visto davvero come stanno le cose?»

«Di sicuro questo posto non era come me lo immaginavo.» iniziavo ad essere più rilassato, anche le mie ali erano più distese. «Non pensavo che si basasse sul concetto di perdono e accettazione.» mentre in Paradiso c'era solo punizione e paura.

«E su cosa pensavi si bassasse?» ghignò il demone della superbia.

«Eterna dannazione, senza possibilità di perdono.» invece era un luogo di accoglienza per le anime che non avevano trovato chi era stato disposto ad accettarle, un posto dove si era liberi di essere come si era stati creati.

«Piccolo angelo sperduto! Agli esseri umani è stato dato il libero arbitrio. Solo a noi creature non è concesso scegliere per noi stessi, tranne qui all'Inferno. Qui possiamo essere noi stessi, per questo Lucifero è stato mandato a comandare questo posto.» spiegò con un'alzata di spalle. «Anche se ora sul trono non siede più lui.»

In quel luogo non avrei dovuto chiedere il perdono per ciò che ero, perché non c'era niente da perdonare. In quel posto non ero sbagliato, non ero un abominio, ero solo un ragazzo, con dei sentimenti, delle passioni, dei sogni. Tutto ciò che serviva era accettarsi, avere la consapevolezza di essere fatto in un certo modo e che non c'è niente di male ad essere come si è stati creati.

«Non è come se ti fossi levato un peso? Non ti senti più leggero?» mormorò ironico, sogghignando.

«In effetti mi sento un po' meglio.» anche se mi mancavano ancora casa mia e i miei amici, non era facile dimenticare in un attimo quella che era stata la tua vita per oltre duemila anni e quelli che, a tutti gli effetti, consideravo come la mia famiglia.

«Starai sempre meglio, vedrai. Ti trovi in un posto nuovo e migliore di dove ti trovassi prima.» ridacchiò lui, scuotendo il capo.

Era ancora troppo difficile da credere in quel momento, ma dopotutto non avevo scelta, non avevo più nessuno e più niente. Non c'era nessuno che mi avrebbe accettato, né un luogo dove potessi tornare. Quella era la mia nuova casa e, volente o nolente, dovevo farmela andar bene.

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