Estate 1660

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Si era sudata la sua libertà e non aveva intenzione di farsi porre limiti. Correva e rideva, riprendeva fiato e scoppiava in rinnovate grida di giubilo. Indossava un vecchio vestito leggero e un po' corto sulle caviglie: sentiva l'erba solleticarle la pelle e la polvere infilarsi nelle scarpette, ma non si fermava. Francesco la inseguiva, cercando invano di raggiungerla: le sue gambette, per quanto agili, erano ancora troppo corte per tenere il passo della sorella maggiore. Rideva anche lui, di gusto, e rideva ancora di più quando trovava una protuberanza del terreno da cui saltare per ributtarsi alle calcagna di Galatea.

Galatea, da parte sua, gettava qualche occhiata dietro di sé, di tanto in tanto, giusto per assicurarsi che suo fratello stesse gridando dal divertimento e non dallo spavento di qualche caduta. Assaporava i profumi dell'estate: l'erba verde calpestata, tagliata, i fiori di mille colori, le nuvole e anche il Sole. Anche il Sole aveva un odore suo particolare, d'estate, e quell'estate più di tutte le altre prima. Galatea volteggiò su se stessa, uno o due giri, prima di lasciarsi cadere tra l'erba. Francesco le fu addosso con l'irruenza dei bambini che cercano il contatto fisico. Con le sue risate le addolciva il cuore e insieme le frastornava le orecchie. Cercò di allontanarlo abbastanza per respirare, ma il bambino si gettò di peso sulla sua pancia, facendola tossire.

«Ti ho preso!» gridò. Afferrò a piene mani ciuffi d'erba e glieli buttò in faccia, senza badare alle radici aggrappate a rimasugli di zolle. Galatea tossì ancora, frapponendo le mani.

«Basta, Cecco! Basta!» strillò dimenandosi. Ma Francesco non si fermava.

Con un movimento di reni, la sorella maggiore si scosse di dosso il fratellino e impose di nuovo la gerarchia di nascita. Il piccolo era sotto di lei, sdraiato nella polvere, con i vestiti sporchi di terra e d'erba.

«Adesso la paghi, briccone!» minacciò e subito si lanciò a capofitto per fargli il solletico. Smise solo dopo che Francesco l'ebbe implorata di avere pietà.

Allora riprese a correre spedita verso casa. Il paese non era lontano e quelli erano campi a maggese quell'estate. Campi di suo padre, pagati con il denaro delle stoffe, ma di queste cose non aveva consapevolezza a quell'età. Voleva solo correre senza farsi più acciuffare in qualche goffo modo da suo fratello. E Francesco la chiamava di nuovo, promettendo vendetta per il solletico.

La prima a vederli fu la nonna: sedeva nel salotto, le cui enormi finestre davano proprio nella direzione dei campi. Nessun muro le impediva la vista dei nipotini che scorrazzavano come cagnolini sciolti tra l'erba alta. I suoi occhi non erano più giovani e talvolta non erano veloci a sufficienza da seguire i bambini nei loro salti; tuttavia, la scena era tanto commovente che la vecchia donna smise la recita del suo rosario, allentò la presa delle dita e lentamente la corona di perle si ritrovò abbandonata sul suo grembo. Era stata bambina, un tempo molto lontano: tanto lontano che quasi sembrava un'altra vita. Era strano pensare alla biondina che era stata, con le trecce lungo le spalle, a cogliere i fiori ai cigli delle strade che percorreva a piedi o, alla meglio, a cavallo di un mulo. La sua vita era stata raminga come quella delle rondini: l'estate in un luogo, l'inverno in un altro. Viveva le stagioni come i pastori e le loro pecorelle, notando i cambiamenti di colore sempre su alberi diversi, familiari perché li aveva visti negli anni precedenti, ma visti sempre così. Avrebbe voluto avere una casa di mattoni, con finestre dai bei davanzali, per osservare sempre le stesse piante cambiare colore, e vedere come cambiavano le persone di giorno in giorno e non di anno in anno. Non aveva amici a quel tempo, conosceva solo i clienti dei suoi genitori, mercanti di stoffe che viaggiavano in lungo e in largo.

Anche suo marito era stato mercante, e suo figlio lo era ora. Suo marito aveva posto fine ai viaggi, ai calli sotto i piedi e allo stomaco vuoto. Dei due era lui il solo viaggiatore, perché aveva una casa di mattoni e quella casa aveva bisogno di una padrona che la mandasse avanti. C'erano giorni in cui sentiva la casa come una prigione e i figli come gli aguzzini che la confinavano all'interno delle pareti; altri giorni, invece, era grata di quel sacrificio. Con il tempo, la seconda disposizione prevaricò la prima: imparò la sedentarietà, cominciò a frequentare la messa nella stessa chiesa, a scambiare opinioni con le stesse persone, a vedere i bambini diventare adulti e gli adulti vecchi un giorno dietro l'altro. Gustava i doni del tempo vissuto con monotonia, stanca di una giovinezza di spostamenti. La vita non era stata avara con lei: prima un'instabile sicurezza, poi gli affari che si evolvono di bene in meglio, e la casa modesta diventa prima una villa, poi un vero palazzo. Qualche anno prima suo figlio aveva acquistato quel palazzetto di campagna e le sembrava di essere tornata bambina: l'inverno in un luogo, l'estate in un altro. Avrebbe dimenticato com'era la città con il sole d'agosto e non avrebbe mai visto la neve dalle finestre oltre le quali Galatea e Francesco ripulivano i vestiti con forti colpi di mano dopo l'ennesima rotolata nella polvere.

Galatea entrò nell'anticamera scuotendosi ancora la terra dai capelli. Una cameriera era lì vicino e accorse per aiutarla a disfarsi degli ultimi fili d'erba. Francesco sopravvenne con lo stesso impeto di poco prima, quando giocavano all'aperto. La cameriera lo sgridò con poche secche parole, sicura che la padrona non avrebbe avuto da ridire: i pavimenti erano stati tirati a lucido da poco e proprio non comprendeva perché i bambini fossero autorizzati a sporcarsi gratuitamente.

Il padrone scese pacatamente le scale. Vincenzo viveva un periodo favorevole negli affari come nella vita domestica: soddisfatto dei progressi di Galatea, contento del carattere di Francesco e assecondato dalla moglie, non avrebbe potuto chiedere di più alla fortuna che governava le cose sue. Raccomandò ai bambini di obbedire, raccomandò alla serva di non esagerare con le lamentele e liquidò il breve diverbio con un sorrisetto.

«Tea, vieni a esercitarti con i conti» disse alla fine, accennando alla bambina che, battendo le mani, si affrettò a raggiungerlo. Francesco protestò, volendo unirsi a loro; ma cedette presto, allettato dall'offerta di un dolcetto se avesse fatto il bambino giudizioso.

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