Febbraio 1670 pt. 6 **

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Una brutta sensazione l'aveva accompagnata per gran parte del viaggio, ma non aveva sollevato dubbi sull'affidabilità degli uomini che la stavano accompagnando verso la salvezza. Ora, a distanza di due giorni passati a guardare il paesaggio cambiare repentinamente, Galatea non aveva più certezze. Ripensava di continuo a quanto era accaduto dal mattino in cui era ripartita dall'osteria: non era venuto il cocchiere del giorno prima, ma tre sconosciuti che le si erano accreditati come persone di fiducia e che le avevano mostrato un lasciapassare emesso dall'abate. Nonostante fosse restia ad assecondarli, alla fine aveva deciso di dar loro retta e seguirli proprio in forza del lasciapassare autografo. Non aveva nulla da lamentare riguardo al loro atteggiamento nei suoi confronti: non erano certo uomini raffinati, ma la trattavano con il rispetto dovuto a una giovane donna d'alto rango, benché le sembrassero all'oscuro della sua vera identità. Il documento dell'abate, infatti, la dichiarava sorella dell'abate stesso e questo era ciò che la gente avrebbe dovuto pensare di lei finché non fosse stata al sicuro.

Ora, però, i dubbi cominciavano ad essere troppi: non le avevano rivelato la meta del viaggio; non le consentivano di rivolgere la parola a nessuno e viceversa, non lasciavano che nessuno la avvicinasse. Ad aggravare la situazione, non aveva ancora ricevuto notizie di Ottavio e questo la angustiava più di ogni altra cosa. Avrebbe volentieri scambiato la segretezza con qualche informazione sul suo stato: era giunto a palazzo? Aveva parlato con suo fratello? E avrebbe saputo rintracciarla nel suo nascondiglio?

C'era comunque un aspetto positivo, ossia la lontananza che, pur moltiplicando le insicurezze, dava motivo di nutrire anche qualche speranza in più. Nel silenzio del viaggio, nella solitudine della notte, Galatea trovava la forza – o l'illusione – di potersi auspicare un epilogo buono nonostante tutto. Ottavio avrebbe saputo muoversi a corte; Ottavio avrebbe pacificato meglio gli animi se di mezzo non ci fosse stata lei a distrarlo e ad attirare le mire di Ferdinando; Ottavio sarebbe tornato più rispettato di quando era partito.

Sul fare del terzo giorno, Galatea si era svegliata mentre la carrozza era ferma di fronte a un grande cancello privo di insegne; la brutta sensazione era ancora lì, in un angolo del suo cuore, ma eclissata dalla curiosità per un ambiente sconosciuto: la costa. Oltrepassato il cancello e giunti che furono davanti all'ingresso principale di un bel palazzo, due dei tre uomini l'avevano fatta smontare e l'avevano condotta fino all'entrata di servizio, che si apriva su un lato dell'edificio, e avevano atteso con lei che qualcuno aprisse. Una leggera brezza le agitava i capelli e un suono del tutto nuovo la avvolgeva, il suono delle onde del mare. Galatea non aveva mai visto il mare. Il bacino d'acqua più grande che avesse avuto occasione di vedere era un fiume, o meglio un grosso torrente, che si snodava all'interno del ducato dividendolo idealmente in due metà, una a est e l'altra a ovest. La sua foce non doveva distare molto dal luogo in cui si trovava, ma non avendo una buona conoscenza né della geografia né della propria posizione, si volgeva inutilmente a destra e a sinistra, come cercando alla cieca. Con il buio che precede l'alba, poi, il mare poteva solo immaginarlo richiamando dalle profondità della memoria le illustrazioni dei libri, i quadri e i racconti di Bice, che possedeva un palazzo sulla costa dove soleva passare le estati. La prima cosa che aveva notato era la consistenza densa dell'aria, pregna di salsedine. Una sensazione di libertà e leggerezza l'aveva stordita, scontrandosi brutalmente con la situazione di angoscia che viveva ormai da giorni e giorni. Il suo primo pensiero era stata l'immagine di un naufrago che, risalito in superficie, riprende a respirare dopo l'apnea: non aveva idea di cosa realmente si provasse, ma non le importava. Si sentiva esattamente così: il naufrago rimane in acqua, eppure si sente salvo; lei si trovava immersa nella paura, ma per un istante poteva fingere che la paura non ci fosse.

Alla fine, una serva aveva aperto, aveva dato un'occhiata allo strano trio e li aveva introdotti in casa, indicando una piccola stanza dove aspettare la padrona. Non molto dopo, i due uomini erano stati fatti chiamare: non li avrebbe rivisti mai più.

Il tempo da allora era parso volare nella solitudine, tanto che, poco più tardi, non sarebbe riuscita a ricostruire nitidamente le ore di quella mattina; ed era qualcosa che la spaventava soprattutto perché, uscita dalla stanza in cui era stata relegata, si era trovata di fronte una nobile donna sconosciuta, non più giovane, che dal divanetto sontuoso in fondo al grande salottino la fissava con occhietti piccoli e un'espressione di disappunto. Tutto ciò che le veniva in mente erano, in fondo, sensazioni, non ricordi. Il brivido della brezza marina sul collo, i capelli appiccicosi di sale, gli strilli degli uccelli marini.

Ed ora era in quel salottino, con quella signora dall'aspetto raffinato e un po' arrogante a squadrarla minuziosamente. Non sapendo cosa fare, fece ciò che aveva fatto per la maggior parte del tempo: rimase zitta.

«Avvicinatevi» ordinò la donna con tono superficiale, come se ignorasse – cosa impossibile – l'identità della ragazza che aveva davanti. Galatea decise di assecondare quel comportamento, ma atteggiandosi nel modo più risoluto possibile. D'altronde, si ripeteva, era lì per essere protetta: non doveva temere nessun pericolo. Si avvicinò muovendo passi leggeri e corti, nel tentativo di non fare troppo rumore. Non le piaceva risultare sgraziata.

La sconosciuta la esaminò dal basso del divanetto, sprofondata tra i cuscini e un abito troppo gonfio, che non copriva, anzi accentuava, le sue forme robuste dovute all'età. Galatea si sentì ispezionata nel più piccolo dettaglio e per questo tenne lo sguardo inchiodato a un punto fisso, per evitare il contatto visivo.

«Adesso rispondetemi con sincerità: siete voi Galatea Degli Orsi?» domandò quella, senza mutare il tono imperioso che doveva esserle abituale.

Tentennò, prima di replicare, ma: «Io sono Galatea Malancisi, signora» disse, scoprendosi più sicura di quanto pensasse. Solo allora alzò il capo per guardare l'interlocutrice: aveva un viso ovale martoriato di rughe, i capelli tirati all'indietro in una crocchia sulla nuca, il naso leggermente all'insù e penetranti occhi celesti. Quegli occhi la fissavano intensamente, quasi con insistenza fastidiosa, ma la duchessina si intestardì a sostenerne il peso.

«Datemi una prova inconfutabile della vostra identità» ribatté la signora, per nulla impressionata.

Galatea non ci pensò due volte: sfilò la fede dall'anulare e gliela porse, quella la prese ma sorrise divertita: «Alla mia età non posso più leggere scritture così minute»

«Allora non so cosa potervi offrire, signora, per farvene certa» tagliò corto, irritata dal modo in cui le parlava, e tese la mano per riavere l'anello.

«Non offendetevi, per favore. In ogni caso, avete fatto bene a darmela, perché ve l'avrei richiesta dopo. Sarà più sicuro se la terrò io» rispose la signora, avvolgendo la vera in un fazzoletto che ripose in una tasca della gonna. Galatea sbarrò gli occhi e frenò una reazione impulsiva, limitandosi a chiudere i pugni.

«Posso almeno sapere chi voi siate?» si permise di chiedere, a voce bassa ma comunque sgradevole. Non le sembrava fuori luogo rivolgersi con quei toni a colei che riteneva essere la sua nuova protettrice, dato che lei per prima non usava modi garbati. L'anziana sospirò per trattenere una risposta scortese quanto la domanda, quindi girò lentamente il viso: «Si dà il caso che io sia una persona molto influente, che potrebbe essere molto d'aiuto alla duchessina»

«Non avete risposto» la accusò.

«Nemmeno voi» osservò distrattamente.

«Da come parlate, sembra che abbiate pochi dubbi sulla mia identità»

L'anziana signora tacque inaspettatamente, poi constatò: «Avete troppo coraggio per essere una contadina; e parlate troppo bene per essere una serva»

«Perché mi avete fatto portare qui, se poi non siete certa di chi io sia? L'abate mi ha assicurato della buona fede di chi mi avrebbe ospitato, ma da voi ottengo solo sospetti. Perciò non dimenticate che io sono a tutti gli effetti la duchessina, moglie dell'erede legittimo del...»

«Erede? – la interruppe, alzando leggermente le sopracciglia – Quel ragazzo non erediterà che il ceppo del boia, di questo passo»

Galatea trovò difficile anche respirare: ormai il modo di fare di quella donna la turbava profondamente, non solo per ciò che aveva detto, ma proprio perché il suo comportamento era troppo ambiguo per conquistare la sua fiducia. Oltre a ciò, il sospetto che in quei giorni fosse capitato qualcosa di terribile di cui non era stata messa al corrente la gettò nell'inquietudine peggiore.

«Ceppo del boia?» bisbigliò.

«Proprio questo, certo! – ironizzò la nobile donna dal divanetto – Voi non lo sapete, ma vostro marito è accusato di omicidio e il Consiglio presto deciderà di processarlo. Lo spettacolo comincerà tra qualche giorno»

«Non dovete permettervi di dire simili villanie!» ribatté aspra, senza soffermarsi troppo sulla scelta delle parole più adatte. Si coprì il viso con le mani, premendo i palmi contro le guance fino a provare dolore.

«Quello che dico io ha poca importanza rispetto a quello che sta accadendo, non trovate?» replicò incattivita l'anziana signora. Galatea trattenne a stento la rabbia, decisa a ricavare tutte le notizie utili: «Perché mi avete fatta portare qui?!» incalzò.

«Ho tutto da guadagnare dall'aiuto che ora vi sto dando: ecco perché vi ho fatto portare qui. E guardate come mi trattate! Sarebbe questa la vostra gratitudine?» ribatté l'altra, offesa oltremisura.

«Cosa volete da me?»

«Che stiate qui e che siate buona e quieta. Ho deciso di nascondervi e perciò vi ordino di fare esattamente ciò che vi dirò»

«Voi ordinate?!»

La donna le scoccò l'ennesima occhiata bieca: «Vedo che l'orgoglio vi acceca, piccola borghese che non siete altro: vi insegnerò a vivere come una del vostro ceto, ah sì! E me ne sarete grata, perché vi salverà la vita. Qui tornerete ad essere ciò che siete dalla nascita, ossia una popolana. Sarete mia serva, laverete i miei pavimenti, spazzerete le mie aie, eseguirete, insomma, i miei ordini, quali che siano»

Galatea affilò lo sguardo, riducendo gli occhi a due piccole fessure colme d'odio.

«Io sono la duchessina! Non sono qui per essere trattata da schiava, ma per essere protetta dai nemici di mio marito; e nel caso non l'aveste capito, io posso denunciarvi e farvi pagare le vostre mancanze verso di me» attaccò; la donna, però, non fu affatto impressionata e, anzi, sorrise di scherno, con quei suoi occhietti azzurri come il ghiaccio.

«Le punizioni per le intemperanze sono molto severe; non mi asterrò dal punirvi, se questo si dovesse rendere necessario. Le mie condizioni sono quelle che vi ho detto: comportatevi da serva e vedrete che tutto andrà bene. I nemici di vostro marito cercheranno una piccola fanciulla indifesa chiusa a chiave in una stanza sorvegliata, una fanciulla che nessuno vede e nessuno sente, ma della cui esistenza tutti sono al corrente. Nessuno si metterebbe a frugare tra la servitù! E voi, ingrata, mi minacciate, con quello che rischio ad ospitarvi sotto il mio tetto. È proprio come dicevo: il matrimonio vi ha fatto montare la testa. Suvvia, non perdete tempo. Vi chiamerò qualche ragazza che vi conduca in soffitta, dove potrete cambiarvi»

Galatea accolse la spiegazione con evidente rabbia repressa, ma le motivazioni suonavano, in un certo modo perverso, quasi fondate. Perciò, alla fine, si permise solo un'ultima domanda prima di eseguire gli ordini: «Potreste dirmi il vostro nome?»

La donna aveva inspirato profondamente, per poi rispondere: «Isabella De Spini; ma per la servitù io sono Donna Isabella»

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