Fine luglio 1669

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Era un'estate calda. La corte si sarebbe presto trasferita al palazzo di campagna per trascorrere le giornate tra svaghi contenuti a una temperatura più mite. Per la prima volta, Galatea passava la stagione lontano dalla propria famiglia e questo contribuiva a guastarle l'umore. Suo padre le aveva scritto di nuovo, esprimendo tutto il suo disappunto in una lunga lettera composta di getto con una grafia turbata dalle emozioni. Rabbia prima di tutto, ma anche paura: rabbia per la disobbedienza, per l'avventatezza e l'irresponsabilità che sua figlia aveva dimostrato; e paura perché non era necessario vivere a corte per avvertire la tensione che vi regnava. Era, come dire, nell'aria, insieme alle zanzare e ai mosconi. Certamente laggiù, al riparo dai venti che infestavano il palazzo ducale, la sua famiglia giungeva le mani e pregava, pregava, pregava. Il minimo errore, la minima disattenzione e tutto sarebbe potuto crollare sotto i loro piedi.

Non si rendevano conto di quello che stava passando lei; oppure se ne rendevano conto fin troppo bene. Galatea aveva sempre oscillato tra due modi di pensare, uno che le dava l'impressione di comprendere al volo e ben prima degli altri tutti gli aspetti di una questione, e un altro che invertiva la prospettiva e faceva sembrare lei, ragazzina giovane e inesperta, totalmente in balia di sistemi che solo gli adulti maturi potevano decifrare. Questo la innervosiva: era incapace di leggere la situazione in cui si trovava e temeva di aver agito male. Ci stava pensando anche in quel momento, a tavola con Ottavio, il duchino Antonio, la duchessa, la reggente e tutti gli altri membri della famiglia ducale. Come d'abitudine, nessuno le rivolgeva la parola. Nemmeno Ottavio, ma - sapeva ora - non per mancarle di rispetto: il suo intento era proteggerla nel silenzio. Qualsiasi cosa avesse detto, infatti, le si sarebbe ritorta contro. Bastavano la sua presenza, il modo in cui delicatamente le sfiorava la mano, la naturalezza con cui la guardava. E lei ricambiava le sue piccole attenzioni senza osare muovere un passo prima che lui l'avesse invitata a farlo. Una precauzione che le andava ancora un po' stretta, ma che si ostinava a prendere ogni volta in cui si trovava in compagnia dei parenti di lui. Aveva deciso che avrebbe preferito passare per stupida o muta, piuttosto che offrire qualche spunto pericoloso ai propri nemici.

A un tratto abbandonò il cucchiaio accanto al piatto d'argento lasciandovi buona parte di brodo. Prese un sorso d'acqua e si appoggiò allo schienale sospirando: all'improvviso, ciò che aveva mangiato le risultava pesante.

«Non vi sentite bene?» domandò sottovoce Ottavio, voltandosi appena verso di lei.

«No, in effetti...» bisbigliò.

«Preferite continuare il pranzo in camera?» chiese ancora lui, volgendosi del tutto nella sua direzione.

Galatea prese un respiro e rispose: «Preferirei non continuare affatto...»

Ottavio si alzò per primo e le tese la mano.

«Portate un vassoio di frutta nella nostra camera, per favore» ordinò il duchino a due servitori, quindi si accinse a salutare e ad avviarsi con la moglie verso le loro stanze.

Il duchino Antonio prese un sorso dalla coppa di vino e, con sguardo intrigante, commentò a voce alta: «Dicono che la nausea sia il primo sintomo»

Sul tavolino campeggiava un vassoio d'argento con ogni genere di frutti di stagione: pesche, ciliegie, albicocche, fragole, nespole. Ma Galatea non prestava loro la minima attenzione e si teneva una mano sullo stomaco guardando un punto indefinito davanti a sé. Ottavio camminava per la stanza con un libro chiuso tra le mani, il primo che, non appena entrato, aveva trovato alla portata del proprio braccio.

«Ti chiedo scusa per la sua maleducazione...» disse a un certo punto, come se avesse trovato le parole solo allora.

Galatea alzò le sopracciglia: «Non mi ha offeso, anzi - ribatté - Dovremmo fargli credere in tutti i modi che un tuo erede possa arrivare da un momento all'altro, anche se non è vero»

«E' un gioco pericoloso - fu la risposta - Ricorda che c'è qualcuno in questo palazzo che vuole governare le cose di stato a nostre spese»

Detto ciò, lasciò da parte il libro e si avvicinò al vassoio. Cercò con il dito e scelse una ciliegia bella rossa, matura al punto giusto. La mise in bocca e si voltò di nuovo immerso nei pensieri.

«Non l'ho fatto per burlarmi di lui...» borbottò masticando, quindi sputò il nocciolo nel proprio fazzoletto.

«Cosa intendi?» domandò Galatea, non sinceramente interessata. Le sembrava gentile dargli retta nonostante il malessere e forse, dopotutto, una conversazione era ciò che le serviva per distrarsi.

«Non ti ho sposato per offenderlo... Per via della condizione in cui sfortunatamente si trova...» spiegò meglio Ottavio, prendendo un piccolo frutto scuro dal vassoio senza prestare molta attenzione.

«Immagino che si senta a disagio» constatò Galatea, cogliendo a propria volta una ciliegia rossa. Poi volse lo sguardo di nuovo alla finestra.

«Se solo capisse...» sospirò il duchino, avvicinandosi a lei. Non ottenendo risposta, si scelse un'altra ciliegia scura commentando: «Strano genere di ciliegia, questo... Senza nocciolo».

«Credo siano una varietà di mirtilli» osservò Galatea, dopo un'occhiata distratta.

«Ne vuoi?» disse lui, tendendogliene uno.

«No, grazie. Consideravo la sfortuna di Antonio... e di Luigi e...»

«E mia?» concluse il duchino, portandosi alla bocca il frutto che le aveva offerto. Galatea annuì con un sospiro.

«Ti senti meglio?» domandò lui un attimo dopo, sedendosi accanto a lei.

«E' presto per dirlo. Ma temo di aver esagerato con gli antipasti. E il caldo ha fatto il resto...»

Ottavio annuì, seguendo lo sguardo di lei verso il cielo terso di fuori: «Se dopo dovessi sentirti meglio - sussurrò - vorrei invitarti a una passeggiata»

Galatea sorrise e accettò. Lui afferrò un paio di ciliegie rosse e le mangiò una dietro l'altra senza aggiungere più nulla.

«La frutta mette sete, non trovi?» disse all'improvviso dopo qualche minuto di silenzio, con la voce un po' roca. Galatea si girò verso di lui e lo vide afferrare bruscamente una brocca e versarsi dell'acqua in un bicchiere.

«Sei stato goloso» scherzò. Ma lui non rise, anzi, si schiarì la gola una, due, tre volte inutilmente.

«Credo che uscirò a prendere una boccata d'aria. Se vuoi raggiungermi, mi troverai fuori sotto il porticato» disse, con la voce ancora più arrochita. Con la mano si teneva la gola e sembrava quasi respirare a fatica. Si avviò verso la porta, tese la mano verso la maniglia, ma mancò la presa a un primo tentativo.

«Ti senti bene?» domandò Galatea, alzandosi.

Ottavio aprì la porta e le rispose quand'era già per metà oltre la soglia: «Non preoccuparti, è il caldo»

Galatea si sentì ghiacciare da capo a piedi: «Ottavio!» chiamò, ma ormai la porta era chiusa. Ristette immobile per qualche istante; tutto attorno a lei era silenzio. Un silenzio opprimente. Un silenzio di tomba.

Fuori dalla camera la luce era più fioca. O almeno così sembrò a Ottavio una volta che ebbe serrato la porta alle proprie spalle. Gli girava la testa come quella volta in cui, in collegio, alcuni compagni avevano sottratto una bottiglia di vinsanto dalla sacrestia e insieme ne avevano bevuto di nascosto dai precettori. Il piano del pavimento ondeggiava, i preziosi marmi geometrici si sovrapponevano in un disegno caleidoscopico, le colonne sembravano crollargli addosso. Cominciò a respirare rapidamente, sentendo raschiare la gola, come se qualcuno lo stesse strangolando. Allora si toccava il collo, si allentava la cravatta, si massaggiava il petto, ma la sensazione non cambiava. Peggio, iniziarono a presentarsi ombre che offuscarono la sua vista, poi punti luminosi che si spegnevano e via via diventavano macchie nere. Serrò le palpebre, stringendosi le mani alle tempie. Sentiva voci, ma dubitava ormai che fossero reali. Lo assalirono le vertigini e di colpo si trovò sdraiato a terra sul fianco dolorante. Riaprì gli occhi solo allora, ma non vide nulla oltre il buio.

"Veleno" pensò "Galatea".

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