Fine maggio 1669 pt. 2

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Galatea si scostò dalla finestra della sua camera matrimoniale. Vi aveva passato la maggior parte del pomeriggio, rigirandosi nei pensieri più cupi. Era sola e non si era mai sentita sola come allora. Ottavio era il suo unico appoggio, ma durante quel mese era stato impegnato prima a dimostrare il suo scioglimento dallo stato ecclesiastico, poi a rivendicare la propria posizione nella linea di successione. Di lei sembrava essersi dimenticato. Fino a quel momento era stata capace di trattenersi, ma allora non ci riuscì più. Picchiò i pugni sul cassettone e "Stupida!" si disse. Stupida, perché si era prestata a un gioco più grande di lei e ora si ritrovava abbandonata come Arianna dopo aver aiutato Teseo ad uscire dal labirinto del Minotauro. Forse si era lasciata prendere dall'eccitazione della novità, del potere... Stentava quasi a riconoscersi. Fortuna l'aveva raggirata, questa volta. Le aveva mostrato prospettive illusorie, svanite in un battito di ciglia al risveglio di quell'ennesimo mattino della sua nuova vita.

"Vostra Altezza" la chiamavano ora. Ma l'avrebbero chiamata più volentieri "approfittatrice" o "donnaccia". Non si nascondeva che agli occhi di tutti gli abitanti del castello, dai figli del duca al più umile dei servi, tutti la ritenevano una poco di buono. L'avrebbero messa volentieri alla berlina, lasciata alla derisione della folla urlante. Ottavio era la sua unica protezione.

Ma si narravano già delle storie su di loro. Qualcuno diceva che la morte di Luigi era opera loro, due amanti spudorati e spietati. Loro prossima vittima sarebbe stato il duca, che da tempo cercava di ravvedere il figlio, di riportarlo sulla retta via della sua vocazione... Loro obiettivo sarebbe stato il potere e la libertà peccaminosa...

Non apparivano nella luce migliore; Galatea ormai non nutriva più alcuna fiducia nel piano del suo novello sposo. E ancora stentava ad accettare questo legame. E allo stesso tempo non desiderava altro che vederlo sopraggiungere. Troppe contraddizioni per un animo già turbato e tradito. Niccolò Damiani era andato lontano con i soldi del duchino, avrebbe fatto la bella vita e non si sarebbe preoccupato minimamente di ciò che stava accadendo: non aveva alcuna ragione per farlo.

Galatea si sentiva vittima di quegli uomini a cui con fiducia si era affidata volta dopo volta. Apparivano tutti meschini, egoisti. Nessuno che si fosse preoccupato di lei, che si fosse premurato di metterla al sicuro. No, era in balia della tempesta, aggrappata a un misero relitto che, corroso dall'acqua salata, presto l'avrebbe fatta calare a picco e annegare. Annaspava, si dibatteva e tentava di scorgere all'orizzonte una zattera, una scialuppa cui chiedere soccorso. Ma le onde erano alte e nere e la sbattevano di qua e di là, senza lasciarle nemmeno il tempo per orientarsi.

Qualcuno bussò. Era una delle cameriere personali di Eleonora, passata dal giorno del matrimonio al suo servizio. Aveva un vassoio e sopra una tazza di tè aromatizzato. Galatea si era quasi dimenticata di averlo richiesto poco prima e per un attimo esitò a ordinarle di poggiare tutto quanto sul tavolino davanti al caminetto. La cameriera la guardò di sfuggita, ad occhi bassi, come se temesse di infastidirla o, semplicemente, di osservarla. Obbedì meccanicamente, rialzandosi di scatto e concludendo una riverenza, per poi girarsi e affrettarsi verso la porta.

«Un momento - la richiamò Galatea, e quella si voltò nuovamente, il viso contratto e rigido - Se non vi spiace, vorrei scambiare due parole con voi»

La cameriera non si mosse. Le braccia distese lungo i fianchi, le mani giunte, le dita intrecciate; era come impietrita.

«Vi prego - aggiunse Galatea con il tono più dolce - Venite più vicina - e ancora, sorridendo - Non vi voglio mica mangiare...»

La cameriera arricciò il naso. Era più vecchia di lei, aveva più di vent'anni e da molto tempo lavorava a palazzo. La conosceva da quando era la damigella di compagnia della duchessina e non si era mai comportata in quel modo scostante. Nonostante tutto, Galatea non voleva farle un'impressione negativa.

«Cosa dicono di me?» domandò con un filo di voce.

La cameriera non alzò gli occhi e rispose atona: «Chi, Vostra Altezza?»

Anche nel suo tono Galatea riconobbe un'inflessione inusuale, una rabbia repressa.

«La gente del vostro stato... Cosa dicono di me?»

La cameriera scosse leggermente le spalle, come se l'argomento non avesse importanza. E tacque.

«Vi prego - ripeté Galatea per la terza volta, quasi supplicando - Cosa si dice di me?»

«Si dice che vi siete venduta al duchino, Vostra Altezza, come la peggiore delle donne da postribolo» rispose infine la cameriera. Le sue mani fremettero mentre parlava. Galatea invece non fu così sorpresa dalle sue parole, sebbene le facesse male sentirsele rivolgere.

«Quindi mi ritengono alla stregua di una prostituta...?»

«La peggiore di tutte, Vostra Altezza» confermò l'altra.

La porta si aprì, facendo sobbalzare entrambe, e Ottavio apparve sulla soglia. Anche il duchino rimase in un primo tempo sorpreso dalla presenza della cameriera, poi abbassò lo sguardo sulla tazza vuota e sulla teiera poggiate sul tavolino. Rivolse quindi un'occhiata sospettosa alla serva e, con tono educato, le ordinò di andarsene. La cameriera si inchinò leggermente e, arrossendo, chiuse la porta alle proprie spalle.

A quel punto Ottavio si avvicinò al tavolino, quasi ignorando Galatea che lo fissava dal suo posto accanto al cassettone. Versò del liquido nella tazza e ne osservò il colore, lo annusò, poi, cautamente, ne assaggiò una goccia.

«Siete stata un po' ingenua, Galatea» disse infine, abbandonando la tazza sul tavolino.

Galatea dissimulò a meraviglia il fastidio di quel rimprovero che le sembrava immotivato e si avvicinò, afferrò la tazza e ne bevve il contenuto d'un fiato, ostentando un'aria di sfida. Ottavio mantenne gli occhi su di lei per tutto il tempo, senza scomporsi. Solo quando ebbe finito e abbassato la tazza lui distese le labbra in un sorriso beffardo e confessò: «Avete pensato che qualcuno potrebbe aver messo del veleno nella teiera?»

Galatea spalancò gli occhi e allentò la presa: la tazza cadde al suolo e si frantumò ai suoi piedi, spargendo il fondo di tè sul tappeto. I cocci schizzarono in tutte le direzioni, disperdendosi in ogni angolo della stanza. Ottavio non perse il suo sorriso.

«Perché non mi avete fermata? Morirò?» tremò Galatea, portandosi una mano alla gola. Ottavio negò lentamente, chinandosi a raccogliere i cocci più grandi.

«Fortunatamente no. Era solo del buon tè speziato. Ma d'ora in poi vi consiglio di essere più cauta e di chiedere sempre agli altri di assaggiare ciò che vi danno da mangiare...»

Galatea si riscosse all'udire le sue parole e si precipitò a raccogliere i frammenti più lontani. Doveva ammettere che aveva ragione: era stato piuttosto stupido da parte sua affidarsi a persone che non conosceva e che avevano un pessimo concetto di lei. D'ora in poi, promise a se stessa, avrebbe fatto controllare qualsiasi cosa. La assalì un tremendo sospetto, e insieme la consapevolezza che non avrebbe più potuto fidarsi di nessuno.

Nemmeno di suo marito. Un pensiero che la colse impreparata come un fulmine. Si rialzò ritta, stringendo tra le mani ciò che aveva raccolto. Lo guardò respirando affannosamente, ma lui non se ne accorse subito: era chino sul pavimento, per individuare gli ultimi residui di ceramica. Avrebbe dovuto affrontarlo subito, in quel preciso momento? E magari rovinare i rapporti che li legavano, fragili com'erano? Ottavio si volse a lei distrattamente, soppesando nella mano i cocci. Poi alzò gli occhi nella sua direzione e sbigottì: «Voi sanguinate...» bisbigliò, indicandola. Galatea gettò un'occhiata in basso e notò alcune gocce rosse sul pavimento. Aveva stretto i frammenti di ceramica troppo forte e, senza avvedersene, si era procurata una ferita al palmo della mano. Ottavio la raggiunse in un batter d'occhio: sfilò il fazzoletto bianco che portava al collo, le liberò la mano dalle schegge e gliela avvolse nel bendaggio provvisorio.

«Mi dispiace...» sussurrò Galatea, la voce tremante. Ottavio non si distrasse e legò saldamente i lembi del fazzoletto attorno al suo polso esile. Quando ebbe finito e fu soddisfatto del lavoro le volse nuovamente le spalle e, come se nulla fosse, tornò a dedicarsi all'ispezione del tappeto.

Galatea rimase dov'era, confusa dal suo comportamento. Si sentiva inebetita e più il tempo passava, più cresceva dentro di lei la frustrazione che la perseguitava da quella mattina. Avrebbe voluto parlargliene, parlarne cioè con Ottavio, ma l'ultimo sospetto e il suo atteggiamento superficiale la mettevano in allerta. Quando riuscì a muoversi provò ad avvicinarglisi, per capire se a ispezione ultimata le avrebbe concesso un po' della sua preziosa attenzione. Il duchino si sollevò con un sospiro e depositò con delicatezza gli ultimi, microscopici frammenti sul vassoio, dopodiché si pulì le mani sui pantaloni. Galatea era esattamente dietro di lui, con la mano già a mezz'aria per picchiettargli la spalla, ma lui si spostò in avanti, verso una poltroncina. Lei fece finta di nulla e lo seguì e, quando lui si fu seduto, gli si fermò accanto.

«Cosa dice vostro fratello?» domandò con un filo di voce, temendo di sembrare inopportuna.

Ottavio si strinse nelle spalle: «Dice che è adirato con noi, che siamo dei traditori, che vogliamo mandare a gambe all'aria il ducato. E non vuole sentire ragioni contrarie»

«Avete già ottenuto qualche risultato?»

A questo punto il duchino le lanciò un'occhiata eloquente: anche le parole, tra quelle mura, dovevano essere misurate. Galatea non insistette su quel fronte e riformulò vagamente: «Non dice nient'altro?»

Ottavio si rilassò e ammise candidamente: «Mi chiede di voi. Da quanto tempo ci conosciamo, quando abbiamo deciso di sposarci e perché l'abbiamo fatto per sotterfugio... E domande più intime, cui mi sono riservato di non rispondere»

Anche Galatea sospirò: era stata contenta quando il duchino aveva avallato il suo desiderio di avere una camera per sé. Non era stata una richiesta strana perché molti nobili coniugi potevano permettersi il lusso delle stanze separate; tuttavia era parso strano che una coppietta fresca di matrimonio passasse la prima notte di vincolo legittimo in due letti diversi. Galatea, inoltre, non aveva saputo interpretare la reazione del giovane marito alla sua proposta: era rimasto tanto impenetrabile da lasciarle un terribile dubbio e quasi la faceva pentire di averla avanzata, quella proposta bisbigliata all'orecchio come un segreto. Ne era dispiaciuto o forse sollevato? Quel suo modo di tenerla sempre a distanza, se non fisicamente almeno sentimentalmente, le era veramente fastidioso.

La duchessina si portò lentamente dietro lo schienale della poltrona e, da quella prospettiva, osservò il proprio marito. La tonsura era ancora evidente sulla sua testa, nonostante si fosse preoccupato di dissimularla pettinandosi diversamente dal solito. Anche il modo in cui sedeva, composto e impettito, tradiva la sua provenienza da anni di collegio. Nessuno a corte, che lei sapesse, aveva lo stesso portamento solenne e composto. E questo era un punto a favore di Ottavio, per quel che la riguardava: aveva sempre pensato che tutti gli uomini di corte fossero più o meno sciatti nel loro modo di porsi. Vinse le titubanze e abbassò una mano fino ad appoggiarla sulla sua spalla. Il duchino si riscosse, probabilmente era immerso nei pensieri. Guardò prima la sua mano, poi in su, verso il suo viso. Lei, istintivamente, gli sorrise, senza con questo intendere una qualche premura affettuosa. Cercava solo di metterlo a suo agio come avrebbe fatto con qualsiasi ospite: così le era stato insegnato. Ottavio, però, manifestò un certo disagio e la pregò di lasciarlo e di sedersi piuttosto sull'altra poltroncina.

«Questa notte dormirò qui» affermò. Nel suo tono asciutto non si distinse nient'altro che una sottile esitazione.

Galatea spalancò gli occhi: «Ma... Avevamo convenuto...»

«Diversamente, certo - completò lui - Me ne rendo conto, ma la gente guarda, la gente mormora. E sicuramente avete pensato anche voi...»

Galatea inclinò la testa sulla spalla destra e completò a propria volta: «A quello che potrebbero credere? Perdonate...»

Ottavio sorrise, ma il suo sorriso era amaro come il tè che aveva sorseggiato poco prima. A Galatea parve di scorgere un tremito nelle sue labbra tese, che fugace sparì quando lui le rispose: «Non possiamo evitare di attirare l'attenzione. Tutti gli occhi sono su di noi, ve ne siete accorta. Se mio fratello dovesse intestardirsi potrebbe spingersi a chiedere l'annullamento del nostro matrimonio per mancata consumazione...»

«Vostra Altezza...» intervenne a quel punto, allungando una mano verso di lui per zittirlo, ma lui continuò: «Non temete, Galatea. Non avete di che temere da me»

«Mi dispiace» sussurrò, ritraendo il braccio. Ottavio le sorrise di nuovo, questa volta sinceramente.

«Ci sarà un momento per i dispiaceri; e uno percose che ora possono sembrarci strane o addirittura detestabili» confessò, comese volesse convincere anche se stesso. Galatea annuì e si sentì sollevata. Lapensavano allo stesso modo, quindi.

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