Fine maggio 1669 pt. 3

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La camera aveva un'apparenza completamente diversa quella sera: la presenza del duchino le dava tutt'un altro significato, e il suo aggirarsi sovrappensiero tra il cassettone e il letto, con espressione meditabonda, non faceva che innervosire Galatea, seduta sulla poltroncina come se non si fosse mai mossa da lì. Invece aveva partecipato alla sontuosa cena della famiglia reale, nell'imbarazzo dei nuovi parenti e dei servitori. Nessuno le aveva rivolto la parola, nemmeno Ottavio. E lei cominciava a sentirsi davvero di troppo sotto quel tetto. Lo guardò di nuovo, sperando di attirare la sua attenzione. Ma il duchino continuò sulla sua strada, immerso in un ragionamento che doveva preoccuparlo, a giudicare dall'espressione corrucciata che il suo viso aveva assunto. Da un lato, Galatea avrebbe voluto condividere con lui il peso delle sue cure, mentre dall'altro disdegnava di mendicare i suoi diritti. Incrociò le braccia sul petto e si lasciò affondare nel cuscino; sospirò; chiuse gli occhi.

Si svegliò al leggero tocco di lui. Le scuoteva delicatamente la spalla e la guardava.

«Vi siete addormentata, Galatea...» disse. A Galatea parve che un'esitazione lo inchiodasse sospeso. Che intenzioni aveva? Cosa aveva fatto nel tempo in cui lei aveva dormito? Si guardò istintivamente attorno, notando che nulla era cambiato se non l'altezza della candela.

«Cosa succede?» domandò, non del tutto lucida.

Ottavio minimizzò: «Ho pensato troppo e non mi sono accorto del tempo che passava. Mi scuso se per colpa mia avete aspettato ad andare a letto e vi siete addormentata su una poltroncina...»

Galatea, mentre lui parlava, si era alzata di scatto. Si era scossa di dosso il torpore e si era stropicciata un po' gli occhi. Quasi perse l'equilibrio, e Ottavio aprì le braccia per accoglierla nella caduta; ma si tenne in piedi e lui, con la stessa rapidità, si ritrasse per lasciarle spazio. Solo una volta alzatasi, Galatea volse gli occhi alla finestra.

«Non sarebbe meglio tirare queste tende?» domandò allo sposo, che sembrava non essersi accorto del dettaglio così delicato.

«In queste circostanze nessuno vorrebbe essere spiato» convenne lui ambiguamente, e con un guizzo tirò la prima tenda, e poi allo stesso modo la seconda.

L'atmosfera divenne ancora più ovattata di prima: c'era solo una candela a rischiarare l'ambiente e la sua luce giallastra gli conferiva un'ulteriore aria di intimità. Ottavio sembrò non badarci. Galatea lo guardò di sfuggita, pudicamente. Sentiva invaso uno spazio personale. Lo percepiva ancora come un estraneo e allora più che mai, dato che era in camicia da notte come lei e divideva con lei il letto.

«Stavo per recitare le orazioni...» sussurrò il duchino, apprestandosi a inginocchiarsi ai piedi del letto. Galatea non poté opporre un rifiuto al suo invito alla preghiera. Si inginocchiarono a poca distanza l'uno dall'altra, giunsero le mani e abbassarono lo sguardo. Mentre Ottavio recitava la preghiera di ringraziamento che gli avevano insegnato in seminario, l'immaginazione di Galatea fluttuò lontano, come cullata dalla voce placida di lui. Stentava a credere che a parlare fosse la stessa persona di un attimo prima: tutte le preoccupazioni sembravano svanite. Mentre le sue, intime, segrete, galoppavano nel suo cuore.

Galatea si riscosse quando lo udì fare il segno della croce e lo imitò meccanicamente. Si alzarono in piedi nello stesso momento e, dopo uno sguardo imbarazzato, Ottavio propose: «Se la mia compagnia vi infastidisce, stanotte dormirò su una delle due poltroncine»

Galatea, di getto, rispose: «Non ce n'è bisogno, il letto è abbastanza spazioso per entrambi». Subito dopo si morse la lingua e si pentì di aver parlato spinta dalla buona educazione. Ottavio forse intercettò la sua titubanza, ma decise di assecondare le sue ultime parole. Si avviò quindi al proprio lato del letto e si coricò immediatamente.

«Non venite?» domandò, rimboccandosi le coperte sul petto.

Galatea scosse la testa: «Non ho sonno» ribatté seccamente. Il duchino non si mosse: fissava il vuoto sopra di sé. E Galatea, nonostante il rifiuto, si avvicinò.

«Neanch'io ho sonno» confessò lui. Ruotò la testa verso di lei e contemplò il suo viso incorniciato dai capelli castani come se la guardasse per la prima volta, come se in precedenza non avesse mai fatto caso ai lineamenti del suo volto e ora volesse imprimerseli nella mente.

«I vostri genitori vivono, vero?» domandò sottovoce.

«Sì. Lontano, ma vivono» rispose Galatea nello stesso tono. Tirò le coperte fin sul collo, cercando di non guardare nella sua direzione.

«Da quando Luigi è morto non riesco a prendere sonno. Ed ora che mio padre non ha più speranze di guarigione le mie notti sono diventate una macchina di tortura - confessò il duchino - Non spengo nemmeno la candela per paura dell'oscurità. Vedo ombre, vedo fantasmi e credo di impazzire. Poi, al sopraggiungere della luce, scopro di essere solo senza esserne sollevato...»

«Non siete solo» sussurrò Galatea abbozzando un sorriso. Erano i suoi occhi, ora, a indagare il soffitto, le dita incrociate sul ventre mentre un pensiero si faceva spazio tra i tanti: cosa avrebbe pensato di lei se avesse saputo qualcosa delle sue visioni? Non riuscì a evitare di guardarlo; non aveva distolto un attimo l'attenzione da lei, come se solo allora avesse scoperto la sua esistenza. Forse quella solitudine in cui lo precipitavano le notti lo spingeva ad aprire il cuore con l'unica compagna che aveva, riversando tutti i dolori che l'arte della dissimulazione - tipicamente principesca - gli aveva impedito fino ad allora di liberare.

"Sarai la sua prima consigliera" le aveva detto Fortuna. Fino a quel momento non si era resa conto di quanto fosse sincera questa affermazione. Fortuna non poteva dire bugie.

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