Ottobre 1659 pt. 1

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A sette anni compiuti, Galatea era una bambina alta nella media, dai lunghi capelli castani e dai
profondi occhi grigi, a volte un po' malinconici. Ora conosceva meglio la propria famiglia, che via  via si allargava, e conosceva meglio la propria posizione: suo padre era un ricco mercante,
trafficava con l'Oriente ed era spesso lontano da casa, andava in una città chiamata Venezia; da lì
tornava con tanti regali: regali per la madre, per la moglie, per i figli che erano diventati tre. A
Galatea e Francesco si era aggiunta infatti la piccola Teodora: il suo nome grecizzante derivava da
un incontro del padre con un greco laggiù a Venezia e dalla guarigione, quasi miracolosa, della
mamma di Galatea. Una brutta malattia aveva fatto temere il peggio; eppure, oltre ogni speranza, la
bambina era nata sana e la mamma pian piano era guarita. A tal fatto, il padre si era ricordato di
quel greco e del nome che aveva elogiato: Teodoro. Essendo nata una femmina, l'aveva chiamata
Teodora.
Anche il suo era un nome greco: Galatea, bianca come il latte. Suo padre però gliel'aveva imposto
senza pensieri, solo per il bel suono delle sue sillabe. La madre l'aveva approvato, perché anche a
lei piaceva. E le piaceva l'idea del latte, candido e caldo; e del greco in sé, perché nobilitava chi era
ancora considerato figlio di una razza contaminata. Perché Maria Maddalena, lei sì, aveva sangue
nobile nelle vene; ma viveva in un'epoca in cui nobiltà senza denaro valeva poco; chi invece aveva
molto denaro, cercava il titolo. I gradini da salire per arrivare a una certa dignità erano ancora tanti
per quella famiglia: avrebbe dovuto ripulire il nome e cancellare le origini umili. Sua figlia sarebbe
stata una pedina di quella faticosa salita e il futuro non prometteva granché oltre a un matrimonio di
convenienza e una dote sostanziosa da portare in cambio di qualche piccolo privilegio. Forse avrebbe guadagnato un marito ancor più nobile di sua madre, ma pur sempre nelle stesse condizioni
di decadenza.
Vincenzo, suo marito, era appena tornato da un altro dei suoi viaggi: Venezia lo riempiva di
speranze perché, sebbene rigidamente chiusa nella sua oligarchia, era vivace, ricca di persone e storie interessanti. E, soprattutto, di merci. Avrebbe continuato a fare il mercante per tutta la vita, perché per questo era nato. Aveva tutte le attitudini per svolgere i traffici al meglio, e in effetti sotto la sua guida il commercio era migliorato. Il palazzo che suo padre aveva costruito, era lui che l'aveva colmato di quadri, mobilio, ogni ben di Dio. Immersa in quella magnificenza, pensava Vincenzo, sua moglie non poteva provare nostalgia per i tempi della fanciullezza. Guardava quasi
con disprezzo alla nobiltà, sebbene lo attraesse come una calamita. Con sua moglie era stato
fortunato: aveva trovato in lei una donna remissiva e docile, che non metteva becco nelle sue politiche e si accontentava di svagarsi con i bambini. Si era accorto subito, invece, che la sua primogenita sopravvissuta doveva aver ereditato qualcosa anche da lui, dietro i vispi occhietti materni: era un po' testarda, ma anche furba e arguta, per quanto fosse solo una bambina. Sperava che non gli avrebbe dato grattacapi in futuro; ma d'altro canto, come non essere orgogliosi di una bimba di sette anni che già sa quello che vuole? Sarebbe stato divertente convincerla a seguire un sentiero tracciato da altri, cercando di far prevalere la sapienza e l'esperienza sul carattere. Talvolta, quando la madre non c'era, prendeva Galatea da parte, le poneva uno degli ultimi indovinelli che aveva imparato nei suoi viaggi e aspettava, nei giorni successivi, di avere una risposta. Le sue risposte, anche quelle sbagliate, lo stupivano sempre.
Certamente, nessuno nella famiglia si aspettava il gran colpo di fortuna che si avvicinava con il
passare dei giorni: nessuno avrebbe potuto augurarsi un così lieto avvenimento.
Un giorno di Maggio, mentre stava recitando il rosario, Maria Maddalena ricevette una lettera
chiusa dal sigillo reale. Subito, prima ancora di rompere la ceralacca, volse lo sguardo alla finestra in direzione del Sud: laggiù, da qualche parte, c'era la capitale del regno, dove risiedevano i sovrani. Era turbata da quella sorpresa ed esitava ad aprire il foglio che stringeva tra le mani. Ripose la corona di pietre preziose, dono del marito nei primi anni di matrimonio, e si fece coraggio. Con uno schiocco, il sigillo di ceralacca si spezzò a metà; il foglio era spesso, di una carta molto chiara, e su di esso brillavano le lettere scritte in bella grafia con l'inchiostro più nero e intenso che si potesse usare. Via via che la lettura scorreva, Maria Maddalena sentiva il cuore batterle forte, sempre di più; se la sorpresa, in principio, l'aveva spiazzata, ora era ben più sconvolta. Da un lato, non aveva mai dimenticato di appartenere ad una famiglia di antico lignaggio; dall'altro, sapeva di appartenere a una famiglia sfortunata, perché di tutti gli eredi era lei l'unica ad aver dato prole. Non per questo pensava fosse possibile considerare i figli di un mercante all'altezza di ciò che la lettera diceva.
Istintivamente si alzò in piedi, quasi tremando dall'emozione: si affrettò per le stanze a grandi
falcate, con gli occhi lucidi di pianto. Arrivò allo studio di suo marito e nemmeno bussò.
«Le nostre preghiere sono state ascoltate» disse sibillina, e porse la lettera a Vincenzo, che la
guardava dalla scrivania con la penna ancora a mezz'aria. Lui la prese sospettoso e lesse
rapidamente.
«Non buttiamo altro tempo! Maddalena, radunate le sarte. Al cocchiere baderò io» disse alla fine con la voce strozzata.

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