Ottobre 1659 pt. 2

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Nessuno avrebbe potuto crederci, se non ci fosse stata la lettera con il sigillo ducale in calce al testo a darne testimonianza: Galatea era chiamata a presentarsi al palazzo del duca per essere valutata più o meno in grado di assistere la sua primogenita in qualità di damigella di corte. La fanciulla, di quattordici anni, desiderava infatti avere la compagnia di qualche bambina; le candidate erano scelte tra l'aristocrazia del ducato, in base ai quarti di nobiltà e al carattere e alle attitudini. Galatea avrebbe partecipato; non era detto – anzi, era fortemente in dubbio – che sarebbe stata scelta.

Il campanile della cattedrale batteva dieci rintocchi mentre Galatea e suo padre venivano introdotti nel palazzo. Lo stile barocco traboccava dalle finestre, dalle colonne e dagli intarsi del soffitto: nulla di paragonabile al sobrio, per quanto ricco, palazzo da cui provenivano. E che dire poi dei mobili di legno pregiato, delle sculture d'oro, degli specchi e di tutto il resto? Galatea, ancora stremata da tre giorni di viaggio in una scomodissima carrozza, non sapeva dove posare gli occhi. Camminando per un ampio corridoio illuminato da una grande vetrata che dava sul versante delle montagne, già innevate sulle cime più alte, incontrarono il personale della servitù incaricato di accompagnarli al salone delle udienze. Lì, disse il servo che li scortò, era riunita tutta la corte. Lì sarebbero state presentate le candidate, che in seguito avrebbero sostenuto un colloquio alla presenza della duchessina, del suo precettore, del suo direttore spirituale e della sua governante. Il tempo di descrivere succintamente lo svolgimento del colloquio e il trio giunse a un grande portone bianco con maniglie d'oro.

«E' da qui che entreremo?» domandò Galatea ingenuamente.

Il servo le sorrise e le fece cenno di proseguire: «Questo portone viene aperto solo nelle occasioni importanti e solo la famiglia ducale e i ministri del governo possono attraversarlo. Voi, signorina, – continuò, indicando una porticina più piccola, ma sempre bianca e lavorata con intarsi – voi passerete da qui»

Detto ciò, abbassò la maniglia e si fece da parte. Galatea entrò e suo padre la seguì; il salone delle udienze era di una magnificenza inaudita: affreschi strabordanti di figure umane e mitologiche si inseguivano sul soffitto in un'allegoria criptica e benaugurale; le colonne, quasi degne di una basilica, salivano verso i capitelli con un movimento tortuoso; e i capitelli stessi erano elaborate composizioni in stile corinzio, con grappoli d'uva e foglie di vite smaltate con l'oro. Grandi vetrate si aprivano nella parte più alta della struttura e infondevano una luce calda e pura alle persone reali come a quelle dipinte. Lo stupore fu tale che per un attimo sia Galatea sia suo padre non badarono a ciò che succedeva attorno a loro, attratti dai colori sgargianti e dalle forme inusitate del salone. Questa spensieratezza durò solo un attimo e parve loro anche più breve: ben presto, infatti, vennero richiamati dal battere del bastone di un ciambellano di corte che annunciava l'imminente inizio dei colloqui. Uno sfarfallio di bambine in abiti elegantissimi si mosse inizialmente confuso al centro del salone, quindi cominciò a prendere forma una lunga fila composta tra le risate e i gridolini di emozione. Galatea, sbiancando, si volse verso il padre in attesa di una sua parola; lui però non disse nulla, le indicò solamente di unirsi al gruppo. Lei obbedì.

"Sii graziosa, sii gentile, sii gradevole" ripeteva a mente i consigli della sua mamma. Era tra le ultime, ma dietro a lei si accodarono altre quattro o cinque bambine arrivate proprio in quel momento. Era tanto tesa che non riuscì a scambiare con loro nemmeno le domande dettate dalla buona educazione. A un tratto, la fila di bambine cominciò a muoversi: si spostavano, guidate dal ciambellano che le aveva chiamate, verso una porta laterale. Sorridenti, sfilarono davanti ai genitori: erano, in tutto, una trentina di bambine giunte da tutto il regno, figlie dell'alta aristocrazia.

Per Galatea, fu come se la porta l'avesse inghiottita. Avevano attraversato un altro corridoio, che sembrava addentrarsi nel ventre misterioso del palazzo, stretto, illuminato solo da candele, senza finestre. I passi rimbalzavano contro il soffitto a volta e sembrava quasi che qualcuno stesse camminando a testa in giù. Lì, i colori degli abiti erano tutti uguali, di un giallastro rigato e sgradevole; non si percepivano sensazioni piacevoli. E Galatea soffriva l'attesa.

Alla fine, con un sospiro di sollievo da parte di tutte, le candidate sbucarono in una stanza ampia e dalle grandi finestre. La luce del sole restituiva ai loro abiti la loro bellezza e la loro gioia. Il ciambellano raccomandò di mantenere la fila senza disperdersi e si sedette su una poltroncina. Da lì avrebbe coordinato i movimenti delle bambine.

Sulla stanza si aprivano tre porte, una per lato – eccettuata la parete occupata dalle finestre: una porta era quella da cui erano arrivate, si trovava di fronte alle vetrate e stava alla destra delle bambine; una seconda era dietro di loro; l'altra davanti, secondo le disposizioni del ciambellano. E difatti fu proprio da quella porta che si affacciò, dopo meno di due minuti dal loro arrivo, il confessore della duchessina.

Padre Saverio era un uomo alto e secco, con il volto scavato e gli occhi svegli. Dimostrava molti più anni di quanti ne avesse in realtà; i capelli e la barba grigi lo invecchiavano a una prima occhiata. Un fremito percorse le bambine, che sussurrarono tra loro. Galatea deglutì e strinse forte i pugni a braccia conserte.

«I colloqui hanno inizio. Venga pure la prima candidata»

Il ciambellano chiamò il primo nome dall'elenco di cui disponeva. Galatea, in preda all'agitazione, non capì bene cosa avesse detto; l'unica cosa di cui era certa era che quello chiamato non era il suo nome. E infatti una ragazzina poco più grande di lei, qualche posto più avanti, si mosse timidamente verso il sacerdote. Padre Saverio le cedette il passo e la seguì all'interno della stanza attigua. La porta si chiuse e per un attimo nessuno osò quasi respirare.

Passarono dieci minuti di silenzio, poi la porta si riaprì e la prima candidata uscì composta e con un'espressione impenetrabile in viso. Nessuno capì come fosse andato il colloquio e questo contribuì a raggelare ulteriormente gli animi. Il ciambellano chiamò un altro nome e, titubante, un'altra bambina si avvicinò alla soglia della stanza del colloquio. Una voce disse: «Chiudete la porta, signorina» e la piccola obbedì scattante. Poi più nulla, fino a che la porta non fu nuovamente aperta; e anche la seconda bambina sfilò davanti alle coetanee con il volto indecifrabile.

«Galatea Farinacci» scandì la voce indifferente del ciambellano. Galatea scattò ubbidiente e si diresse, rigida come un tronco, verso la porta. Si affacciò oltre la soglia e scorse una sala più lunga che larga, al cui estremo opposto erano seduti lungo il lato di un tavolo intarsiato alcuni strani personaggi: a sinistra padre Saverio, il confessore, che la guardò gelidamente; al suo fianco, un uomo più giovane, ben vestito e dall'aria raffinata; proprio in mezzo, una signorina incipriata con lunghi capelli a boccoli; alla sua sinistra, una donna piuttosto arcigna, di circa quarantacinque anni; infine, all'estrema destra, una donnetta grassottella dall'aria molto dolce e comprensiva. Fu quest'ultima a guardare Galatea con l'aria di una nonna affettuosa e a chiamarla più vicina. Galatea, che aveva già chiuso la porta dietro di sé, non si fece ripetere il comando. Si collocò di fronte alla signorina, a una certa distanza. C'era assoluto silenzio e tutti i suoi esaminatori avevano fissi gli occhi su di lei.

«Buongiorno, vostre Eccellenze» disse educatamente, facendo una riverenza. La voce era uscita a fatica dalla sua gola, ma Galatea non voleva per nessuna ragione apparire timida o spaventata. Lo sguardo dei suoi esaminatori non cambiò né in meglio né in peggio: la signora grassottella alla sua destra annuì bonariamente, mentre all'altro capo del tavolo il confessore aguzzò lo sguardo, come se non si fidasse. Galatea giunse le mani sul grembo e attese: aveva fatto tutto ciò che era per il momento nelle sue possibilità.

«Diteci come vi chiamate, piccola, e chi sono i vostri genitori» disse la signorina al centro.

Galatea accennò un inchino e cominciò con voce cristallina: «Io mi chiamo Galatea Farinacci, mio padre è Vincenzo Farinacci e suo padre fu Pietro Farinacci. Mia madre è Maria Maddalena degli Orsi e suo padre fu Giovanni Antonio degli Orsi». Dopo questo breve elenco, a Galatea fu necessario un sospiro per riprendere fiato. Al nome di suo padre, un leggero sorriso aveva animato per un attimo le labbra del giovane uomo e della donna arcigna, subito spentosi invece al nome del nonno materno. La bambina conosceva poco del passato della propria famiglia, troppo poco per sapere che il bisnonno materno era stato uomo molto influente a suo tempo: la maledizione della malaria aveva colpito quella nobile famiglia, indebolendone il sangue al punto più disonorevole, al punto cioè di rimanere con una sola figlia legittima, senza che i figli maschi sapessero dare continuità a una stirpe che si era coperta di gloria.

Il confessore, che evidentemente non era di quelle parti, non sussultò all'udire quel nome, ma poté capire per intuito che il cognome "Farinacci" sapeva di volgo.

«Signorina, – la apostrofò a quel punto – siete consapevole della vostra inadeguatezza a questo compito, non lo siete?»

Galatea si irrigidì, si sentì di colpo fredda come una statua e non rispose.

«Siete consapevole, credo, che i vostri natali non sono illustri quanto quelli delle compagne che attendono nell'altra stanza» continuò il confessore, indagando le sue emozioni.

«Vostra Eccellenza, – balbettò Galatea in preda al terrore – mio padre e mia madre sono buoni cristiani, mi hanno insegnato a lodare il Padre e il Figlio e mi hanno anche insegnato a pregare per il duca e la duchessa»

Avendo a che fare con un religioso, Galatea non poteva immaginare motivi di scandalo oltre quelli religiosi. Ma le sue parole suscitarono ancora una volta il risolino della donna arcigna che, tossicchiando, intervenne a propria volta: «Sua Eccellenza si riferiva a vostro padre, che evidentemente discende da un panettiere o forse da un mugnaio. In ogni caso, non c'è traccia di sangue nobile nelle sue vene; tanto meno nelle vostre»

Galatea notò che a quelle parole gli occhi della signorina in mezzo al tavolo si erano rabbuiati. Sentiva lei stessa una morsa alla gola e per rinfrancarsi cercò lo sguardo bonario della donna grassottella, ma vide che anche questa ora la guardava più con commiserazione che con favore.

«Perdonatemi, vostre Eccellenze, se la mia famiglia non vi piace. – ribatté allora, scandendo parola per parola, andando a tempo con i battiti forti del cuore – Ma quando le cose non vanno tanto bene la mia mamma dice sempre al mio papà: "Anche Nostro Signore era figlio di un falegname". Allora, Eccellenze, se la mia famiglia non vi piace, allora a me non piacete voi»

Fece una riverenza e si voltò, senza aspettare il permesso di nessuno. Aprì la porta ed uscì e, non sapendo come tornare da sola al salone dove il padre la aspettava, andò ad accucciarsi in un angolo e aspettò che i colloqui delle altre bambine finissero.    

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Sophie Gengembre Anderson, The Turtle Dove Small.

Così è come immagino Galatea a sette anni; potrebbe capitare ancora che io posti dipinti e ritratti per permettervi di farvi un'idea dell'aspetto dei personaggi, oltre le descrizioni presenti nella storia :)

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