xxxɪɪ - ʏᴏᴜ ᴅᴏɴ'ᴛ ɢᴇᴛ ᴛᴏ ᴛᴀᴋᴇ ᴀʟʟ ᴏꜰ ᴍᴇ (ꜱᴇᴛ ᴍᴇ ꜰʀᴇᴇ)

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Le lancette dell'orologio a muro dello studio della Worley sono l'unico rumore che riecheggia nella stanza condita di tensione.

Il mio sguardo stanco dalla notte insonne e dai pensieri intrusivi che aleggiano nella mia testa rimane lì, fisso sul pavimento.

Credo di aver imparato a memoria, e contato ogni linea del parquet in legno sotto i miei piedi.

La Worley è seduta di fronte a me, le sue mani incrociate con calma sul grembo, lo sguardo attento, ma senza invadenza. So che sta aspettando che io parli, che apra quella porta che ho sempre tenuto chiusa con tutta la forza che avevo.

Non so da dove cominciare. Le parole si aggrovigliano in gola, strozzandomi, e ogni volta che provo a tirarle fuori, sembra che l'aria stessa si faccia densa, impenetrabile. Non posso farlo. Non posso dire a voce alta quello che ho visto, quello che ora so. Perché se lo faccio, diventa reale. E io non sono pronta per questo.

Il ricordo è ancora lì, appannato ma inesorabile, come un film che si riavvolge da solo nella mia mente, costringendomi a guardare. Il mio cervello lo rifiuta, lo respinge con tutte le sue forze, ma la verità è un serpente velenoso, che si insinua, striscia, e morde. Sento il bruciore della presa dei suoi denti, un veleno che si diffonde piano piano, infettando ogni cosa.

Lui. Era sempre stato lui, il mio papà. L'uomo che mi sorrideva, che mi faceva saltare sulle ginocchia, che mi abbracciava forte. L'uomo che mi aveva tradita nel modo più crudele. Ma come? Come posso conciliare l'immagine di quell'anima buona, gentile, con quella bestia che si nasconde dietro le mie palpebre ogni notte, ogni volta che chiudo gli occhi?

Le immagini sono sfocate, ma il dolore è fin troppo chiaro. La sensazione della sua mano ruvida sulla mia pelle, il suo respiro pesante contro il mio viso, il mio corpo piccolo e terrorizzato, bloccato, incapace di fuggire. Ho sempre cercato di dimenticare, di convincermi che fossero solo incubi, frutto di una fantasia malata. Ma ora so la verità.

Mi tremano le mani, e mi accorgo che la Worley se n'è accorta. Mi osserva senza fretta, come se avesse tutto il tempo del mondo, come se nulla di quello che potrei dire potesse sorprenderla. Ma questo lo so: lei non sa, non può capire quanto sia sbagliato tutto questo, quanto mi senta sporca, tradita, persa.

Provo a prendere fiato, a mettere ordine nel caos dentro di me.

«Io... io non so come dirlo.» mormoro infine, con la voce che mi si spezza.

Lei annuisce, sempre calma, paziente.

«Non devi avere fretta, Flame. Prenditi il tuo tempo. Sei al sicuro qui.»

Al sicuro. Le parole rimbombano nella mia mente come un'eco lontano. Al sicuro. Ma il mostro che si è annidato nei miei ricordi è sempre lì, pronto a saltare fuori quando meno me lo aspetto. Non c'è sicurezza per me, non più.

«Era lui... è sempre stato lui.» sussurro infine, fissando ancora il pavimento, incapace di sollevare lo sguardo. «Mio padre.»

Il silenzio che segue è come una condanna. Mi sembra di soffocare nella mia stessa pelle, mentre l'orrore di quello che ho appena confessato inizia a sedimentare, a prendere forma. Mi sento svuotata, come se avessi versato fuori ogni goccia di me, ma il peso sul petto non diminuisce, anzi, sembra crescere.

Non riesco a guardare la Worley, non posso. Perché se vedo anche solo un'ombra di pietà o di disgusto nei suoi occhi, crollerò del tutto.

Tic, tac. Tic, tac.

Le lancette dell'orologio sembrano scandire la mia condanna. Non c'è redenzione per ciò che è stato fatto, né per me che l'ho taciuto per tutto questo tempo. Ma ora è qui, tra noi, come un fantasma che non si può ignorare. Ed io non so come continuare a vivere con questo.

Il silenzio nella stanza diventa insopportabile, come se ogni oggetto attorno a noi trattenesse il respiro, in attesa di una reazione. Le parole che ho appena detto galleggiano nell'aria, pesanti, irreversibili. Non posso ritirarle, non posso far finta che non siano mai uscite dalla mia bocca.

La Worley non si muove, non dice nulla. Mi aspetto che faccia qualcosa—qualsiasi cosa—per spezzare questo momento, ma lei rimane ferma, in ascolto, offrendomi il tempo di cui ho bisogno. Un tempo che mi sembra infinito, eppure così fugace, come se ogni secondo che passa mi avvicinasse al baratro.

Finalmente alzo lo sguardo e incontro i suoi occhi. Non c'è pietà in essi, né disgusto, solo un'attenzione profonda, una comprensione che va oltre le parole. Questo mi spaventa quasi quanto la rivelazione stessa, perché significa che mi vede davvero, che ha già intuito cosa sto provando, cosa sto affrontando.

«Flame,» dice con voce calma, ma ferma, «sei stata incredibilmente coraggiosa a dirmelo. So quanto possa essere difficile. Quello che stai affrontando non è facile, e non devi farlo da sola.»

Le sue parole dovrebbero rassicurarmi, ma sento solo un vuoto. Come se ogni emozione fosse stata risucchiata via, lasciandomi solo stanchezza, un peso insostenibile sulle spalle. Mi sembra di essere su una nave in mezzo alla tempesta, senza un'ancora, senza una direzione.

«Non riesco a... a capire,» mormoro, la voce tremante. «Com'è possibile? Mio padre... lui era sempre stato così... buono con me. Non riesco a conciliare le due cose. È come se avessi vissuto in un sogno, e ora tutto si è trasformato in un incubo.»

La Worley annuisce leggermente, senza interrompere il contatto visivo. «Capisco quanto possa essere confuso. Quando i traumi vengono sepolti per tanto tempo, la mente a volte crea delle difese, delle versioni alternative della realtà per proteggerti dal dolore. Ma questi ricordi stanno riaffiorando ora, e per quanto sia terribile, è un passo verso la guarigione.»

Guarigione. La parola mi sembra assurda. Come si può guarire da qualcosa di così distruttivo, qualcosa che ha lacerato la mia anima fino al punto di non ritorno? Ho vissuto tutta la mia vita con l'immagine di un padre che mi amava, che mi proteggeva. Ho odiato mia madre per averlo buttato fuori casa, l'ho incolpata di ogni cosa. Di non aver chiesto il mio parere. L'ho disprezzata per non avermi fatto avere più contatti con lui, per aver allontanato una figlia dal proprio padre. E ora devo affrontare l'orrore di scoprire che lui era il mostro nascosto nell'ombra. È come se il terreno sotto di me si fosse frantumato, lasciandomi sospesa nel vuoto.

«Non so se posso farcela,» ammetto, la voce spezzata. «Non so se posso vivere con questa verità.»

La Worley si sporge leggermente in avanti, abbassando la voce come se stesse condividendo un segreto. «Flame, non c'è un modo giusto o sbagliato di affrontare questo. È normale sentirsi persa, sopraffatta. Ma io sono qui per aiutarti, passo dopo passo. Non devi fare tutto da sola. Possiamo affrontare insieme quello che emergerà.»

La sua presenza dovrebbe rassicurarmi, ma mi sento ancora così lontana, come se ci fosse un abisso tra di noi che non può essere colmato. Le parole sembrano scivolare via da me, senza lasciare traccia. Mi sento vuota, come se avessi versato tutto ciò che avevo dentro, e ora non mi rimanesse più nulla.

Evito di parlare di Aaron, dello stesso trattamento che ho ricevuto da lui anni dopo. Non avrebbe senso adesso.

Come se fosse una maledizione che mi perseguita, un destino crudele a cui non posso sfuggire. Se dovessi parlare di lui, crollerei. E ho già detto abbastanza per oggi.

Forse è solo una questione di quello a cui sei predestinata.

Deglutisco, evito ancora il contatto visivo con la dottoressa.

«Ho... abbracciato Addie ieri notte.» ammetto, quasi sconvolta dalla realizzazione della cosa.

L'ho fatto davvero e ancora prima avevo baciato River ma evito di confessarlo a quella, che dietro la figura da psichiatra è anche la madre di lui.

Il mio cuore batte forte nel petto mentre la mia confessione risuona nella stanza. Ho appena ammesso di aver fatto qualcosa che per anni ho temuto, qualcosa che pensavo di non essere più capace di fare. Abbracciare Addie... non riesco ancora a crederci, come se non fosse realmente accaduto. Ma lo è. E quella verità, quella piccola ma significativa verità, mi travolge.

Evito di guardare la Worley, il timore di quello che potrebbe leggere nei miei occhi è troppo grande. Sa così tanto di me, eppure ci sono cose che ho tenuto nascoste, cose che non posso, non voglio condividere.

Mi sembra di essere su un filo teso, una corda sottile che potrebbe spezzarsi da un momento all'altro. So che la Worley è lì per aiutarmi, che le sue parole sono sempre state pensate per darmi forza. Ma ci sono cose che neanche lei può capire, cose che non ho mai detto a nessuno.

Deglutisco, il nodo in gola che si fa più stretto. Mi sento come se avessi appena infranto una regola, qualcosa di sacro. Abbracciare Addie è stato un atto istintivo, spontaneo. E in quel momento, non c'era paura, solo un senso di calore e conforto che non provavo da così tanto tempo. Non ho mai permesso a nessuno di avvicinarsi così tanto da anni, non dopo tutto quello che è successo. Eppure, ieri notte... è stato diverso. Per la seconda volta, ho lasciato cadere la mia guardia, e questo mi spaventa più di qualsiasi altra cosa.

«Come ti sei sentita?» chiede la Worley, con quella sua voce morbida, quasi rassicurante.

Esito, cercando di trovare le parole. «Non lo so,» rispondo alla fine, stringendomi nelle spalle. «Ero... sorpresa, credo. Non mi sono sentita in pericolo. È stato... naturale, credo. Ma poi, subito dopo, mi è salita la paura, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Eppure, in quel momento, sembrava la cosa giusta da fare.»

Non le dico di River. Non posso. Il pensiero di confessare di aver baciato il figlio della mia psichiatra, di rivelare quel momento di follia, mi paralizza. È come se ci fosse una barriera invisibile che mi impedisce di aprirmi completamente. Mi sento divisa, tra la voglia di confidarmi e il terrore di essere giudicata.

La Worley annuisce, ascoltandomi con attenzione. «È normale sentirsi così, Flame. Hai fatto un passo importante, e riconoscerlo è già un grande traguardo. È comprensibile che ti senta confusa, spaventata. Ma questi piccoli progressi, come abbracciare Addie, sono segni che stai iniziando a riconnetterti con una parte di te stessa che pensavi fosse andata perduta.»

Quelle parole dovrebbero darmi conforto, eppure tutto quello che sento è un'inquietudine crescente. Riconnettermi... non so nemmeno chi sono davvero, non più. Ho vissuto così a lungo intrappolata nel mio dolore, nella paura, che non so più distinguere tra chi sono e chi sono stata costretta a diventare.

«Non mi sembra un progresso,» mormoro, quasi a me stessa. «Mi sembra... mi sembra di tradire qualcosa, come se stessi rompendo una promessa fatta a me stessa.»

La Worley mi osserva con un'espressione pensierosa. «È naturale che tu senta un conflitto interiore. Il trauma può distorcere la percezione di noi stessi e degli altri, facendoci credere di non meritare cose semplici come l'affetto o il contatto umano. Ma abbracciare Addie, sentire quel calore, non è un tradimento. È una parte di te che sta cercando di guarire, di uscire dall'ombra.»

Quelle parole, anche se pronunciate con gentilezza, rimbombano nella mia testa come un'eco vuoto. Non so come rispondere, così rimango in silenzio, cercando di non lasciare che l'ansia mi consumi del tutto. Ma dentro di me so che ci sono ferite che non si chiudono mai, cicatrici che non scompaiono, e ho paura che tutto questo sia solo un'illusione, un momento di quiete prima della tempesta.

«Crede che mia sorella sappia... di papà?» chiedo.

La domanda mi sfugge dalle labbra prima che riesca a trattenerla. Appena le parole sono nell'aria, mi sento vulnerabile, esposta. Non l'ho mai detto a nessuno, nemmeno a me stessa, ma la verità è che mi sono sempre chiesta se Liv sapesse, se avesse mai sospettato. E se lo sa, perché non mi ha mai detto nulla? Forse ha paura anche lei, o forse l'ha sepolto così in profondità da non volerci neppure pensare.

La Worley mi guarda con quella calma che sembra infinita, la stessa che mi fa sentire al sicuro e intrappolata allo stesso tempo. «Cosa pensi tu, Flame?» chiede, il tono gentile ma inquisitivo.

Deglutisco, sentendo il nodo in gola stringersi. «Non lo so,» ammetto, il mio sguardo scivola di nuovo verso il pavimento. «È sempre stata così... forte, così protettiva con me. Come se volesse tenermi al sicuro da qualcosa, ma non sono sicura che lo sapesse davvero. O forse non voleva ammetterlo neanche a sé stessa.»

Liv è stata la mia roccia, l'unica persona che sembrava avere sempre tutto sotto controllo. Anche quando le cose a casa erano difficili, anche quando io mi perdevo nei miei incubi e nelle mie paure, lei era lì, solida come una quercia. Ma ora mi chiedo se quella forza fosse reale, o solo una maschera per nascondere la verità a se stessa, o forse a entrambe.

«È possibile,» risponde la Worley, la sua voce priva di giudizio. «Le persone reagiscono in modo diverso al trauma, e a volte, la mente fa di tutto per proteggere se stessa e chi amiamo. Potrebbe aver sospettato qualcosa, o aver scelto di non vedere, per proteggerti e proteggersi.»

La sua risposta mi lascia più domande di quante ne avessi prima. Se Liv sapeva, perché non ha fatto nulla? Perché non ha cercato di fermarlo? La verità mi terrorizza, ma non posso fare a meno di pensare a questa possibilità. E se invece non lo sapeva, cosa farebbe se glielo dicessi ora? Il pensiero di spezzare la sua immagine di nostro padre mi devasta.

«E se glielo dicessi?» domando a bassa voce, quasi temendo la risposta. «Se le dicessi quello che ho ricordato, quello che ho vissuto... cosa farebbe?»

La Worley rimane in silenzio per un attimo, riflettendo attentamente. «Non posso sapere come reagirebbe, Flame. Ma posso dirti che la verità, per quanto dolorosa, può essere liberatoria. È una scelta difficile, e richiede coraggio. Se deciderai di parlarle, devi essere preparata a qualsiasi reazione, e dovrai essere pronta a offrire e accettare il supporto che entrambe potreste aver bisogno di ricevere.»

Il mio cuore si stringe al pensiero di affrontare una conversazione simile con Liv. Non posso immaginare di guardarla negli occhi e dirle che l'uomo che ci ha cresciute, che ci ha fatto sentire amate, era lo stesso che mi ha distrutto. Ma allo stesso tempo, non posso continuare a portare questo peso da sola.

«Non so se sono pronta,» ammetto, la voce tremante.

«Non c'è fretta,» dice la Worley, dolcemente. «Queste decisioni richiedono tempo. La cosa importante è che tu continui a lavorare su te stessa, a capire i tuoi sentimenti e i tuoi limiti. Quando e se sarai pronta, saprai cosa fare.»

Annuisco, anche se dentro mi sento ancora persa. Le parole della Worley sono come un'ancora, ma non sono ancora pronta a lasciare andare il dolore, la paura. Ci sono troppe incognite, troppi rischi. Liv potrebbe odiarmi per questo, o potrebbe crollare sotto il peso della verità. E non so se potrei sopportare di essere la causa del suo dolore.

Ora capisco cosa intendesse Addie con: "Neanche se il mondo cade e la terra trema" perché è quello che sto vivendo io.

Tutto cade, tutto trema e io non so come rimanere in piedi. Come gestire il terremoto sotto di me.

Mi sento così fragile, così impotente, come una bambina di nuovo, senza alcun controllo su ciò che mi sta succedendo. Addie è quella forte, quella che riesce a far sembrare tutto più facile, anche quando so che le cose non lo sono affatto. E ora mi chiedo come abbia fatto a sopravvivere ai suoi terremoti, come sia riuscita a non cadere, a non farsi travolgere.

«Come faccio a restare in piedi quando tutto trema?» la domanda mi scappa dalle labbra, un sussurro che quasi non riconosco come mio. Non è una domanda che rivolgo alla Worley, né a me stessa, ma è lì, sospesa nell'aria, in attesa di una risposta che non so se esiste.

La Worley mi osserva con quella sua espressione, come se avesse già visto tutto questo prima, come se sapesse già cosa dirò prima ancora che io lo pensi. Ma non c'è una risposta facile, che possa dirmi come smettere di tremare quando tutto intorno a me sta crollando.

«Rimanere in piedi durante un terremoto emotivo è una delle sfide più difficili,» dice alla fine, la sua voce calma, sicura. «Ma parte di questa sfida è accettare che non sempre riuscirai a farlo da sola. A volte, la forza sta nel chiedere aiuto, nel lasciare che qualcuno ti sostenga quando senti di non avere più le forze.»

Aiuto. Una parola così semplice, eppure così carica di peso per me. Ho sempre cercato di fare tutto da sola, di gestire il mio dolore, la mia paura, senza coinvolgere nessuno.

Ho sfogato ogni fibra del mio essere nel farmi del male, per poi desiderare la morte, sfinita da me stessa.

«Non so come chiedere aiuto,» ammetto, sentendo il peso di quelle parole. È come se dicendolo, avessi finalmente ammesso qualcosa che ho sempre cercato di nascondere, anche a me stessa.

«È un processo, Flame,» risponde la Worley, il suo tono gentile ma fermo. «Inizia con piccoli passi. Inizia con chi ti è vicino, con chi ti vuole bene. Non devi fare tutto subito, non devi affrontare tutto da sola. Le persone che ti amano vogliono aiutarti, ma devi permettere loro di farlo.»

Le sue parole mi fanno male, ma non perché siano crudeli, anzi, proprio perché sono vere. Non posso continuare a vivere così, cercando di mantenere il controllo su tutto, quando in realtà sto solo crollando dall'interno. Addie, River, persino la Worley... ci sono persone che vogliono aiutarmi, ma devo essere io a lasciarle entrare.

Non rispondo però. Non sono sicura di esserne in grado.

Cadere è più facile, è il percorso senza rovi e spine, la strada dritta verso la fine.

E io non credo di essere così coraggiosa.

«River lo sa?»

Il suo nome mi esce in un sussurro. Da quel momento in terrazza, da quel bacio che mi ha scosso fino al midollo, non so più nulla di lui. Addie mi ha raccontato del pugno al muro, di come sia corso via prima ancora che la mia crisi finisse. E ora mi chiedo cosa sia successo davvero, cosa stia succedendo dentro di lui.

La Worley esita per un attimo, un attimo troppo lungo che mi fa capire che sa più di quanto voglia dire. La tensione si fa palpabile, e posso quasi sentire la sua lotta interiore tra il dovere professionale e l'istinto materno. Lei è la madre di River, e io sono solo un'altra paziente, ma qualcosa in quella dinamica è cambiato, e lo so, lo sento.

«River... sta affrontando le sue difficoltà,» inizia a dire, scegliendo le parole con cura. La sua voce è calma, ma c'è una sfumatura di preoccupazione che non può nascondere. «Non posso entrare nei dettagli, Flame, sai che devo rispettare la sua privacy. E per quanto non sia un mio paziente, non sarebbe deontologico farlo»

Le sue parole mi fanno male, ma è un dolore che porta con sé una strana forma di conforto. River non mi ha dimenticata, non ha semplicemente voltato pagina. Quello che è successo tra noi ha scosso anche lui, forse più di quanto avrei immaginato.

Non posso fare a meno di sentirmi responsabile, di pensare che sono io la causa del suo dolore, della sua fuga. È sempre così con me: chiunque mi si avvicini finisce per soffrire, per crollare sotto il peso del mio caos.

«River ha fatto dei progressi da quando sei qui,» continua, e il suo tono cambia, diventa più personale, più intimo. «Ha cominciato a lasciarsi andare un po' di più, a mostrarsi per quello che è davvero. E questo è successo grazie a te, Flame. La tua presenza ha fatto la differenza per lui, anche se non lo sai.»

Quelle parole mi colpiscono come uno schiaffo in faccia. Non mi sono mai vista come qualcuno che potesse aiutare gli altri, men che meno qualcuno come River. Ma l'idea che, in qualche modo, la mia esistenza abbia portato un po' di luce nella sua, che io abbia contribuito a fargli fare dei passi avanti, mi sconvolge.

«Non so cosa significhi questo per te, per lui,» continua la Worley, il suo sguardo fermo su di me. «Ma so che, come madre, non posso fare a meno di essere grata per ciò che hai portato nella vita di mio figlio, anche se è qualcosa di complicato e doloroso da gestire. A volte, le persone si incontrano e si toccano in modi che non possono essere previsti, e questo può portare a cambiamenti che spaventano, ma che sono necessari per crescere.»

Non riesco a rispondere subito, le sue parole mi lasciano senza fiato. Non avrei mai immaginato di sentire queste cose da lei, non in questo modo. È come se stesse cercando di farmi capire che c'è più di quello che vedo, che c'è speranza anche quando tutto sembra crollare.

«Cosa devo fare?» chiedo infine, la mia voce spezzata dall'incertezza. «Non so come affrontarlo, non so se dovrei cercarlo o lasciarlo stare.»

«Questa è una decisione che spetta a te, Flame,» risponde dolcemente. «Ma ricorda, a volte la cosa migliore che possiamo fare per chi amiamo è rispettare il loro spazio, permettere loro di affrontare le loro battaglie. E quando saranno pronti, quando sarà il momento giusto, saranno loro a cercare di nuovo la tua vicinanza.»

Sospiro, mi mordo l'interno del labbro inferiore con gli incisivi. Il nervosismo si riversa sulle mie mani, sul come le sfreghi contro i miei polsi, alla ricerca di un'esigenza che non posso permettermi adesso.

«Sai, tu le assomigli molto.» ammette portandomi ad alzare lo sguardo e a mostrare un'espressione confusa. «A Rachel intendo.» continua.

«Rachel?» ripeto, quasi sussurrando, mentre il mio cuore accelera.

La Worley annuisce lentamente, il suo sguardo è colmo di qualcosa che non riesco a decifrare del tutto: un misto di tristezza, tenerezza e una cautela materna che sembra voler proteggere sia me che suo figlio. «Rachel era... speciale per River. La sua morte lo ha cambiato in modi che pochi possono comprendere. E tu, Flame, hai qualcosa di lei. Non solo nell'aspetto, ma in quella sensibilità che ti rende così... vulnerabile e forte allo stesso tempo.»

Non so cosa significhi essere paragonata a Rachel, ma so che il solo pensiero mi lascia con una sensazione di inadeguatezza. Come posso essere paragonata a qualcuno che River ha amato così profondamente? Come posso competere con un fantasma?

«Non... non voglio essere come lei,» balbetto, mentre un nodo si forma in gola. «Non voglio essere un'altra persona da cui River debba scappare, un'altra ragione per cui soffre. Non voglio essere un rimpiazzo.»

La Worley mi guarda con una dolcezza che mi spiazza. «Non sto dicendo che sei lei, Flame. Nessuno può prendere il posto di Rachel, così come nessuno può prendere il tuo posto. Ma è normale che River veda in te delle somiglianze. E queste somiglianze, per quanto dolorose, potrebbero anche aiutarlo a guarire, a capire che può amare di nuovo senza sentirsi in colpa.»

La parola "amare" mi fa tremare. Non avevo mai pensato a ciò che River potesse provare per me in quei termini, o forse non volevo farlo. È tutto così confuso, così complicato. Ma ora, con le parole della Worley, inizio a intravedere una nuova prospettiva, una che mi spaventa e mi attrae allo stesso tempo.

«River si sta confrontando con un dolore profondo,» continua la Worley. «Un dolore che lo ha tenuto intrappolato per troppo tempo. Ma tu, Flame, hai la possibilità di offrirgli qualcosa di diverso. Non si tratta di sostituire Rachel, ma di mostrargli che c'è ancora vita, c'è ancora speranza oltre quel dolore.»

Deglutisco, cercando di assorbire tutto ciò che mi sta dicendo. È una responsabilità enorme, e non sono sicura di essere pronta per questo. Ma c'è una parte di me che vuole provarci, che vuole vedere dove questo percorso mi porterà, anche se il terreno sotto di noi è ancora così fragile.

«Cosa dovrei fare?» chiedo, la voce un po' più ferma ma ancora carica di incertezza.

«Continua ad essere te stessa, Flame,» risponde la Worley, con un sorriso che sembra voler rassicurarmi. «Non c'è una formula magica per guarire le ferite dell'anima. Ma essere presenti, essere sinceri, e permettere a River di vederti per quello che sei, potrebbe fare la differenza. E non dimenticare, è importante anche prendersi cura di te stessa in questo processo.»

Annuisco, anche se il nodo nello stomaco non si allenta. Essere me stessa. Sembra un compito così semplice, ma in realtà è una delle cose più difficili che abbia mai dovuto fare. Perché per essere me stessa, devo accettare tutto ciò che sono, con le mie paure, i miei traumi, e quella parte di me che ha cominciato a sentire qualcosa per River, nonostante tutto.

La Worley mi guarda con uno sguardo che sembra vedere attraverso di me, come se potesse leggere ogni pensiero che mi attraversa la mente. «Qualunque cosa accada, Flame, ricorda che non sei sola. River ha il suo cammino da percorrere, e tu hai il tuo. Ma a volte, quei cammini si incrociano, e in quei momenti, potete trovare forza l'uno nell'altro.»

Mi inumidisco le labbra per poi morderle e riabbassare lo sguardo prima di annuire.

È stata una seduta strana. Utile certo ma... non saprei come descriverla.

Mi alzo lentamente, abbandonando la sedia e sospirando.

«Grazie» dico.

Lei scrolla le spalle e sorride. Non parla, ma quel gesto vale già ogni cosa.

Annuisco tirando le labbra forzatamente, prima di dirigermi verso la porta d'uscita.

✘✘✘

Ogni passo che faccio risuona nel silenzio, un eco che mi ricorda quanto tutto sia incerto, instabile. Non riesco a scrollarmi di dosso le parole della Worley, quel paragone con Rachel che mi pesa come un macigno sul petto. Lei era importante per River, un amore che ha lasciato un segno indelebile. E io? Chi sono io per lui? Solo un'altra ferita, un'altra ombra nella sua vita già tormentata?

Mi mordo ancora il labbro, cercando di placare l'ansia che continua a strisciare sotto la superficie della mia pelle. Le mie mani sono fredde, tremano leggermente mentre le infilo nelle tasche, cercando un po' di calore, un'ancora a cui aggrapparmi. Ma non c'è nulla, solo il vuoto e la consapevolezza che, nonostante tutto, devo continuare a camminare.

Continuo a percorrere il corridoio, con la testa piena di pensieri confusi e contrastanti. Ogni tanto incrocio lo sguardo di un altro paziente, ma evito il contatto visivo, troppo persa nel mio mondo interiore. Il mio respiro è leggero, quasi impercettibile, e la sensazione di camminare su un filo sottile tra il passato e un futuro incerto non mi lascia mai.

Quando finalmente arrivo alla mia stanza, mi fermo un attimo sulla soglia, lasciando che la mano indugi sulla maniglia. Mi sento sospesa, come se una parte di me fosse ancora là dentro, in quell'ufficio, con la Worley e le sue parole che continuano a riecheggiare nella mia mente.

Chiudo gli occhi per un istante, cercando di raccogliere le forze. Non ho tutte le risposte e forse non le avrò mai, ma so che devo continuare, un passo alla volta, anche se il cammino è avvolto nell'oscurità.

«Va meglio?» la voce alle mie spalle mi fa sobbalzare.

Mi ritrovo a voltarmi di getto, ricercando la figura a cui appartiene.

Lo sguardo disinteressato di Cole contrasta con la domanda fatta, mentre si rigira la sigaretta ancora d'accendere fra le dita e porta gli occhi altrove.

«Diciamo» non c'è bisogno di mentire. Non servirebbe a niente. «Sei qui per Addie?»

Scuote la testa.

«Sta con Miller, visita di controllo.» rivela, continuando a mostrarsi come qualcuno che sembra essere scocciato.

Ci sono dei secondi di silenzio prima che venga rotto nuovamente dalla sua voce.

«So cosa significa.» sputa.

Contraggo la fronte, confusa, non so dove voglia andare a parare.

«Ero lì quando è successo al corpo. So cosa significa.» abbassa gli occhi al pavimento.

«Ti senti impotente, probabilmente se non fosse subentrata Ilse non so come sarebbe finita.» è strano il modo in cui stempera la cosa, schioccando le labbra e facendo rumore.

«Ilse?» domando ancora più interdetta.

«Una di noi. Spunta solo in determinati momenti. Quando il corpo ne ha bisogno.» non so perché me lo stia raccontando, dato che sembra non voglia farlo per niente.

«Quello che voglio dire è che... anche se faccio il cazzone tre quarti del tempo, non sono quel tipo di persona. Non io, non il corpo. Perché sappiamo cosa significa.»

Continuo a non capire cosa voglia da me. Cosa stia ricercando.

«Cole...» bisbiglio.

«Non ti azzardare a compatirmi o a dire qualcosa come 'poverino' perché ti sgozzo mentre dormi hai capito?» mi punta un dito contro, lo fa anche con il suo sguardo duro, irrigidendo la mascella.

«Non lo sto facendo.» scuoto la testa.

Cole mi fissa per un momento, il dito ancora puntato verso di me, come se stesse cercando di capire se sono sincera. Lo vedo rilassare lentamente la mascella, anche se il suo sguardo rimane carico di un'irritazione che sembra non volermi abbandonare.

«Bene,» borbotta, abbassando la mano e tornando a rigirare la sigaretta tra le dita. «Perché non ho bisogno di un'altra persona che mi guardi con quella faccia da cane bastonato. Non sono un cazzo di vittima.»

«Lo so,» rispondo, cercando di mantenere la voce calma, anche se dentro di me sento la tensione crescere. Non ho mai saputo bene come comportarmi con Cole. È come una tempesta pronta a scatenarsi, un amalgama di rabbia e vulnerabilità che può esplodere in qualsiasi momento. Ma in questo istante, c'è qualcosa di diverso in lui. Forse è per via di quello che ha detto, di quel frammento di verità che mi ha concesso di vedere.

«Quello che intendevo,» riprendo, cercando le parole giuste, «è che non credo tu sia una vittima. Credo che stai cercando di gestire tutto questo a modo tuo, e non c'è niente di sbagliato in questo.»

Cole si ferma per un attimo, il movimento delle sue dita sulla sigaretta si interrompe. Sembra considerare le mie parole, come se fosse incerto su cosa fare con quello che ho appena detto. Poi, con un gesto rapido, infila la sigaretta dietro l'orecchio e si passa una mano tra i capelli rasati, sbuffando.

«Sai, la gente pensa che sia facile. Che basti semplicemente... dimenticare o far finta di niente. Ma non funziona così, cazzo. Non quando sei intrappolato nella stessa testa con i ricordi, con le sensazioni... con la merda che non ti lascia mai andare.»

Lo guardo, cercando di cogliere ogni sfumatura di ciò che sta dicendo. Cole non è il tipo che si apre facilmente, e questo momento è una rara finestra su ciò che si agita dentro di lui.

«Capisco,» dico, anche se so che le mie parole possono sembrare vuote, insufficienti a contenere tutto il peso che Cole sta portando. Lo stesso che porto anche io, in parte.

Lui scuote la testa, quasi infastidito, ma non se ne va. Rimane lì, di fronte a me, con quegli occhi che nascondono un mare di emozioni che non sa come esprimere.

«Non ho bisogno di un cavolo di discorso motivazionale, Flame,» dice, ma c'è una nota di stanchezza nella sua voce, qualcosa che tradisce la facciata dura che cerca così disperatamente di mantenere. «Non te l'ho detto per questo.»

Sospira.

«Non so perché te lo sto dicendo,» ammette infine, la voce quasi un sussurro. «Ma tu... non sei come gli altri qui. C'è qualcosa in te, qualcosa che non riesco a capire, ma che mi fa sentire... meno incazzato. O forse più incazzato, non lo so.»

Sorrido appena, un sorriso piccolo e incerto, ma genuino. «Forse è perché siamo tutti un po' incasinati,» suggerisco. «E riconosciamo quel caos negli altri.»

Cole annuisce, come se avesse trovato un minimo di conforto in quelle parole. «Forse,» dice, prima di voltarsi, pronto a riprendere il suo cammino. Ma prima di andare via, si ferma di nuovo e si gira a guardarmi. «Non fare cazzate, Flame. Non lasciare che quella merda ti inghiotta. Noi non siamo quel tipo di persone, ricordatelo.»

Lo guardo mentre si allontana, il rumore dei suoi passi che si affievolisce fino a svanire. Rimango lì, sola nel corridoio, con il cuore ancora accelerato e la mente che corre. Non so esattamente cosa sia successo tra me e Cole in questo breve scambio.

Non so se Addie sappia di tutto questo ma una parte di me è felice di questo confronto.

È qualcosa che non mi sarei mai aspettata, e che nonostante faccia male a me come a lui, adesso mi porta a simulare un sorriso.

Apro la porta e mi lascio scivolare all'interno della mia stanza, chiudendo dietro di me il mondo esterno, almeno per un po'. Mi siedo sul letto, stringendo le ginocchia al petto, e rimango lì, avvolta nel silenzio, lasciando che la confusione e l'incertezza mi cullino, senza più opporre resistenza.

La mancina cerca la catenina con la tartaruga nascosta sotto il mio cuscino, la stringe nel palmo, conscia di non poterla tenere addosso a causa dei controlli all'interno dell'istituto.

Gli occhi azzurri, si perdono nelle venature del guscio bianco del ciondolo.

Avrei dovuto chiedere a Cole se sapesse dove fosse River, se stesse bene ma non l'ho fatto.

Forse la Worley ha ragione, devo lasciargli il suo tempo. Non posso caricarlo anche di altro.

Sospiro prima di scendere nuovamente dal letto.

Il sole che filtra attraverso la grata della finestra proietta ombre lunghe e sottili sul pavimento. Il sole non ha ancora raggiunto il suo zenit, ma la luce che filtra è abbastanza intensa da illuminare le pieghe del mio volto nella vetrata spessa. Mi avvicino al vetro e osservo il mio riflesso, i tratti stanchi e il dolore che si è accumulato nel tempo.

Vado verso la finestra e la apro, lasciando entrare l'aria fresca e l'odore dell'aria esterna. Il vento muove le le lenzuola del mio letto leggermente, e io lascio che la sensazione di libertà e freschezza mi avvolga. È come se il mondo al di fuori stesse continuando a girare, nonostante tutto ciò che sta accadendo dentro di me.

Guardo fuori, verso il cortile dell'istituto, vedendo le foglie degli alberi ondeggiare e il cielo che si tinge di un azzurro profondo.

E poi tutto si ferma. Tutto si spegne.

Sono costretta ad indietreggiare, a reggermi a qualcosa.

Forse ho visto male, sicuramente è così.

Ma la paura di tornare a farlo è più forte della mia curiosità.

Purtroppo.

▪▪▪▪▪

NOTE DELL' AUTRICE

Capitolo più lungo del solito, ma non potevo spezzarlo.

Non è stato facile scrivere questa seduta, ho cancellato varie volte e riscritto altrettante ma alla fine sono soddisfatta del risultato.
Spero tutto sia passato come deve.

Che ne pensate della confessione di Cole?

Di come sta reagendo Flame?

Voi cosa avreste fatto?

E cosa credete possa aver visto Flame dalla finestra?


Fatemi sapere nei commenti.
Noi ci vediamo prossimamente con il capitolo 33.

xoxo
E GRAZIE ANCORA PER LE 7k RAGGIUNTE OGGI.
Vi amo anche se il mondo cade e la terra trema ❤️

Neens ❤️


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