12.

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21 ottobre 2000

«E da quando?»

«Non da molto, inizio settimana», mentii.

Silenzio.

«Non capisco che cosa è venuto a fare. Già non sa recitare, immagino cantare.»

Lo sapevo che avrebbe iniziato a denigrarlo, lo faceva sempre quando si sentiva inferiore.

«In realtà è bravo», cercai di non infuocarmi subito e usai un tono asciutto.

«E cosa canta? L'inno nazionale americano?»

«Cosa c'entra? Canta le canzoni che cantiamo noi.»

«Perché, conosce l'italiano?»

Buon Dio. Dovetti rispiegargli per l'ennesima volta che il nostro repertorio era composto quasi totalmente da canzoni in inglese, da sempre.

«Sì ma quella che fate voi non è musica che...»

Mi alzai dal letto stizzita.

«Senti, non ti piace il genere, non ti piacerà mai ed è inutile starne a parlare. Volevo solo dirti la novità.» Mi infilai il tanga.

«Sai che novità!»

«Scusa, non sapevo che tu avessi contatti giornalieri con gente dello spettacolo. Ma no, tu lo consideri un incapace, di certo non un bravo attore, quindi...»

«È che non mi sembra questa gran cosa.»

«Perfetto. Basta. Neanche te lo avrei dovuto dire e mi stavo facendo il problema, avevo paura ti desse fastidio.» Recuperai il reggiseno dalla sedia.

«E per quale motivo?»

«Beh, forse perché canto con l'attore che mi piace tanto?» Doveva sempre farmi sbottare.

«Seee, è pure vecchio.»

Mi venne da ridere. Vecchio.

Ok, io avevo fatto il mio dovere, glielo avevo detto. La mia coscienza era quasi pulita. E pensare che mi ero immaginata un dramma, una scenata di gelosia o chissà cosa. Invece, indifferenza pura. Bene, quel fine settimana poteva proseguire tranquillamente.


22 ottobre 2000

«Ginevraaaa», Lele venne a sedersi accanto a me sul divano giallo della nonna di Patrizio. Quella casa era sempre vuota e noi da anni la usavamo per feste e serate film più pizza. In realtà con Enea l'avevo usata anche per altro.

«Allora, come l'hai presa? Dai, che due mesi passano in fretta! Peccato che non ci sarà al tuo compleanno.»

Lo guardai fisso negli occhi e poi mi aprii in uno di quei miei sorrisi preludio della tragedia.

Percepii Patrizio, col quale stavo parlando seduto accanto a me, cercare una posizione più comoda, giusto per nascondere il disagio. Non c'era bisogno che lo guardassi per sapere che stava già sudando. Anche Lele aveva cambiato espressione, rendendosi conto di aver combinato un casino.

«Non lo sapevi. Va bene ora non rovinarti la serata...» ma mi ero già alzata.

Mi avvicinai a Enea che stava parlando con qualcuno, che in quel momento neanche riconobbi, e lui subito mi abbracciò. Se avesse stretto a sé un pezzo di legno avrebbe ricevuto in cambio più amore.

Quel qualcuno che gli era vicino capì subito la situazione e si teletrasportò altrove. Come al solito l'unico a non capire il mio umore era Enea.

Solo dopo diversi secondi, quando finalmente si rese conto che non rispondevo ai suoi baci, mi chiese cosa avessi.

«Tu non ce l'hai una novità da dirmi?»

«No», con la sua aria innocente.

«Bene, allora te lo chiedo io. Quando parti? E soprattutto, quando torni?»

«Parto domani sera alle 18,20, te l'ho detto.»

«Non fare il...» contai fino a tre per calmarmi. Inutile. «Perché devo sempre essere l'ultima a saperlo?» Ancora avevo un tono di voce civile.

«Ma cosa?»

«Piantala! Quando cazzo parti con quella stramaledetta nave? E quando cazzo torni? Così va bene?» Silenzio in casa.

Mi prese per mano e mi portò in un'altra stanza, quella dove avevamo spesso fatto sesso.

Mi sciolsi dalla presa e incrociai le braccia, attraversando la stanza per stare il più possibile lontano da lui. Enea cercò di avvicinarsi ma tesi una mano di fronte a me per fargli capire che lo volevo lontano.

«Ecco, vedi? Per questo evitavo di dirtelo, ti comporti così e ci roviniamo il fine settimana.»

«Io reagisco in questo modo perché invece di essere la prima, sono l'ultima persona a cui fai sapere le cose. Cose, che riguardano anche me!»

«Non volevo rovinare...»

«... il fine settimana, sì, ho capito ma è proprio così che lo rovini. Tutte le sante volte. Possibile che non hai ancora imparato? Io voglio sapere le cose da te. Mi dispiace tanto che tu parta, ma ciò che mi fa impazzire è che non hai il coraggio di parlarmene...»

«Ma non è vero!»

«Vuoi che ti faccia l'elenco di quello che ho saputo tramite gli altri? Lo devo fare come tutte le volte che ci ritroviamo qui a parlarne?»

E, come sempre, riprese a negare senza dare una risposta concreta, incolpando gli altri che parlavano a sproposito anticipandolo sempre di poco.

Mentre lo ascoltavo e ribattevo, percorrevo il perimetro di sei mattonelle con frenesia. Avevo bisogno di calmarmi o rompevo tutto.

Di nuovo, sempre la stessa sensazione di vuoto. Mi faceva sentire come se fossi vapore, esistevo con consistenza impalpabile e vita breve.

L'ennesima volta, l'ennesima fottutissima volta.

Dio, avrei spaccato tutto. Mi volevo strappare il cuore, era lì, organo insulso a ricordarmi che ero viva e che stavo vivendo una vita di merda. Mi sarei aperta il petto a mani nude se solo fosse stato possibile. Iniziai a ficcarmi le unghie nei palmi, ma non sentivo abbastanza male. Allora presi a darmi dei pugni sulle gambe, poi sulla pancia ma avevo bisogno di un dolore più lancinante, che mi facesse smettere di pensare perché il cervello si sarebbe dovuto focalizzare su quello che stava accadendo al corpo. Sbattei forte il braccio sulla traversa inferiore del telaio in alluminio della finestra aperta e mi arrivò una fitta dritta al cervello. Ah, sì, quello che cercavo.

«Ma che cazzo stai facendo?» Provò ad avvicinarsi.

«Fermo, non ti voglio vicino.»

Mi uscivano delle lacrime fredde in maniera molto ordinata: la successiva aspettava sempre che la precedente avesse percorso tutto il viso e fosse caduta giù dal mento prima di buttarsi dall'occhio. Come sugli acquascivoli nei parchi acquatici.

«Mi sembra una reazione esagerata.»

«Certo, perché a te non frega niente. Non sei tu quello che non viene considerato in questa relazione.»

«Non è così.»

«Ancora? Invece di dirmi come non è, dovresti provare a dirmi come è.»

«Lo sai che non sono bravo a parole.»

«Neanche con i fatti.»

Desideravo farla corta, non volevo stare la serata chiusa dentro una stanza a parlare in pratica da sola e a disperarmi per questa relazione che funzionava solo quando tutto andava bene. Ero stanca di rivivere quella situazione ciclicamente. Stavolta l'avrei affrontata in maniera diversa, mi promisi.

«Ok, le date. Partenza e ritorno.» Il braccio mi pulsava, tirai su la manica del maglioncino ma più per curiosità che per preoccupazione.

«Che ti sei fatta?»

«Dimmi quando.»

Avevo un bozzo strano sulla parte esterna dell'avambraccio, a metà tra polso e gomito. Dovevo aver preso un nervo.

«Parto appena prima di Natale e torno all'inizio di marzo.»

Due mesi e mezzo.

«Ottimo». Mi specchiai guardando il riflesso sul vetro della finestra, il trucco stava ancora lì, mi girai dirigendomi verso la porta per uscire dalla stanza. Cercò di allungare una mano per prendermi ma mi spostai alzando le braccia per sottolineare nuovamente che non volevo essere toccata e raggiunsi gli altri. Poverini, quante volte avevano assistito a scene del genere?


Il resto della serata la passai lontana da lui. Lele, Laura, Patrizio e gli altri mi facevano da scudo e mi coccolavano a modo loro. Mi sforzai più del solito nel cercare di essere spensierata e ci riuscii discretamente, stavo diventando brava a recitare.

Enea, che aveva passato tutto il tempo con accanto un paio di amici, cercò di avvicinarsi mentre tornavamo a casa a piedi con gli altri. Lo snobbai come aveva fatto in passato lui con me quando era arrabbiato. Insistette nello scambiare due parole al portone del mio palazzo, ma gli rivolsi un freddo «Buonanotte» e salii per le scale.

Aveva sempre meno senso continuare. Lui non sarebbe mai cambiato e io non mi sarei mai rassegnata a sentirmi una nullità.

Il giorno dopo lo passai piangendo. Mi chiamò un paio di volte anche a casa, visto che non rispondevo al cellulare, cosa che per lui era la massima dimostrazione che ce la stava mettendo tutta, ma mi feci negare, con annesso sguardo carico di rimprovero di mia madre.

Non sapevo se ero arrabbiata più con me che rimanevo in quel circolo vizioso pur sapendo quello che mi sarebbe aspettato per il resto della vita, se con lui per essere così infantile e talvolta meschino, o se ancora di nuovo con me perché stavo buttando quelle ore che avrei potuto passare con lui prima della partenza. Ma se lo avessi rivisto in quel momento, avremmo solo continuato a litigare, tanto valeva stargli lontana e provare a mandargli un messaggio in quel modo. Che lui per certo non avrebbe mai capito. Ero convinta che, tra una chiamata e l'altra, stesse scherzando tranquillamente con qualche amico. 

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