33.

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Avevamo sistemato tutto, tavoli e sedie al loro posto, il divano nell'ufficio di Marzio, le panche dove diavolo erano state prese. I dolci avanzati vennero spartiti.

Ci stavamo infilando i cappotti quando Damien si avvicinò a Flavia: «Accompagno io Ginevra a casa stasera». Lei fece un'espressione raggiante per poi borbottare subito: «Ecco, bravo, prenditela va'». Andando via fece espressioni ammiccanti come se lui non fosse presente. Era folle. Completamente avvolta nella sua follia, convinta che fosse merito suo e di quello che aveva raccontato a tavola. Magari era anche vero.

A me invece non aveva neanche chiesto se avessi qualcosa in contrario.

«Andiamo? Dai, così avrai un motivo in più per ucciderla domani.»

Lo fissai muta, avrei risposto "Sì" ma non volevo dargliela vinta. Però lo seguii senza obiettare. Salutammo velocemente chi era rimasto e, chiudendoci la porta alle spalle, ero ben sicura che ci sarebbero stati dei grandi commenti.

Entrai in auto, trovando strano il fatto di sentirlo quasi naturale, come se non fosse più un territorio straniero.

Lui si tolse il cappotto e lo sistemò sui sedili posteriori, poi entrò dal lato guida. Avrebbe così lasciato scoperto quel collo stupendo che mi attirava a sé. Non lo dovevo guardare.

Girò la chiave per accendere il motore, con un dito azionò il riscaldamento e poi la radio, tenendola bassa.

«Allora, c'è qualche altra cosa che devo sapere su di te?» terminò la frase guardandomi negli occhi, con un leggero sorriso disegnato sulle labbra.

«No, penso che Flavia abbia detto tutto», cercai di sostenere il suo sguardo.

«Sembrava avesse altro da raccontare...», continuò lui facendo retromarcia.

Si immise sulla strada e iniziò a guidare con più sicurezza rispetto alla volta precedente.

«Dove andiamo? A casa mia non c'è bisogno, tanto sai già dove abito», alludendo a quello che aveva raccontato Flavia sul trentacinquenne al quale facevamo le poste sotto casa. Si stava divertendo.

«Beh, certo, se solo provassi interesse per te», sospirai.

Fece un'espressione offesa.

Poi iniziò a parlare della cena, partendo dagli antipasti per finire ai dolci di mia madre. Disse di non averne mai mangiati così buoni, ma non gli credetti. Lo osservavo gesticolare con le sue splendide mani, con le quali mi indicava la forma di qualcosa che aveva assaggiato di cui non ricordava il nome. Speravo solo non mi chiedesse perché non avessi mangiato nulla.

A un certo punto rallentò e accostò, senza spegnere il motore. Mi resi conto di non sapere dove fossimo, né della strada che avevamo percorso. Guardai l'ora sul cruscotto, erano trascorsi circa venti minuti.

«Quella è casa mia», mi indicò una palazzina circondata da un giardino.

«Lo so», annuii seria. Lui mi studiò per un attimo e io mi misi a ridere. «Paura, eh?»

«Vuoi entrare?»

«No», scossi subito la testa. Forse troppo, potevo sembrare spaventata ma avevo paura di me, non di lui.

«Non è per provarci...»

«Magari fosse così!»

«Non vale! Non puoi parlare italiano, io non ti capisco!» Feci spallucce. «Sei stata tu a dirmi di non impararlo!» mi accusò con aria contrariata.

«Perché, fai tutto quello che ti dico? Buono a sapersi.»

«Quindi? Ti porto a casa?»

«Altrimenti? Vuoi farmi entrare per poi accusarmi di stalking?»

«Potrebbe essere un'idea, potrei averti in pugno», mi guardò di sottecchi con un sorriso così sexy che ringraziai il Cielo di non essere entrata in casa sua. Mi avrebbe accusata di qualcosa di molto peggio.

Rimase in silenzio per qualche minuto mentre riprendeva la strada principale, non sapevo se fosse concentrato sulla guida o pensasse ad altro. Io mi chiesi perché mi avesse portata a farmi vedere casa sua, forse per dimostrarmi fiducia.

«Ancora mi fa male», si massaggiò la guancia.

Risi.

«Ero sicura ti saresti spostato!»

«Perché avrei dovuto?»

«Pensavo assecondassi lo schiaffo!» continuai ridendo.

«Non sapevo che me lo avresti dato! Immaginavo scegliessi l'alternativa.»

«Io? Non lo avrei mai fatto!»

«Però Simone lo hai baciato!»

Rimasi un paio di secondi senza respiro. Provai a spiegargli che in quel caso Simone aveva baciato me, e al suo commento sul fatto che non mi avesse visto per nulla turbata, risposi che era uno stupido gioco.

«Lo era anche con me, lo stesso gioco. E Simone aveva una faccia parecchio soddisfatta.»

«Stava scherzando!»

«Non sembrava. E se la prossima volta toccasse a me baciare te?»

Mi morsi il labbro. «Non lo faresti.»

«Oh sì.» Annuì convinto.

«Certo, sei un attore. Sei abituato a baciare.»

«Questo cosa vuol dire? Che quando bacio non provo niente?»

Gli propinai il mio punto di vista, secondo il quale, un attore essendo abituato a baciare a comando, non ha lo stesso imbarazzo o disgusto che potrebbero avere gli altri in un gioco del genere. O almeno riesce a gestirlo meglio.

«Quindi secondo te riuscirei a farlo solo per questo motivo

«Certo.»

Mi lanciò un'occhiata e poi tornò a concentrarsi sulla strada.

Arrivammo dopo qualche minuto e non ebbe bisogno di indicazioni. Spense il motore.

«Ti ringrazio, non era necessario mi dessi un altro motivo per uccidere Flavia, mi bastavano quelli che avevo. Mi dispiace che devi tornare indietro ora.»

«A me no.»

Avrei voluto domandargli dei suoi progetti per Natale, tanto per fare due chiacchiere, ma sembrava una cosa da disperata. Magari avrebbe pensato che lo volessi invitare a passarlo a casa mia, quelle cose da film romantici americani, oppure che avessi intenzione di controllarlo. Lasciai perdere.

«Va bene, vado. Grazie», feci per aprire la portiera.

«Neanche i baci sulle guance per salutarmi! Baci tutti e a me no!» con aria tra l'offeso e lo sconcertato.

Mi misi a ridere facendomi vedere esasperata. «Sicuro? Sei certo di avermi visto?  Io non bacio mai, sono gli altri che baciano me.»

«Perché?»

«Ho paura che prima o poi ci sarà qualcuno che avrà una reazione infastidita, disgustata...»

«Perché mai... ok. Ti giuro che non avrò una reazione disgustata o infastidita o altro.»

«Quindi?»

«Quindi salutami. Voi italiani vi salutate sempre così.»

Gli spiegai che ci si salutava così generalmente se non ci si vedeva spesso e obiettò subito che i ballerini li avrei rivisti lunedì, stesso giorno in cui avrei rivisto anche lui. Quel suo modo di giocare era divertente, pieno di espressioni nuove, spontanee, distanti dalle solite. Gli feci notare che i ballerini avevano sempre un atteggiamento molto espansivo, loro quindi non erano da prendere in considerazione.

«Anche io sono espansivo, a questo punto ti saluto io.»

Una fitta allo stomaco e le farfalle volarono per tutta la macchina. Certo che erano poco delicate, avevano aperto un varco squarciandomi completamente l'addome.

«Dimmi solo come devo fare.» Stavo per saltargli addosso. Stava mettendo a dura prova il mio controllo e non capivo perché lo facesse.

«Semplice, devi dare due baci sulle guance», cercai di tenere la voce ferma.

«Sì ma così», e venne verso di me e accostando semplicemente la sua guancia sinistra alla mia, cosa che mi provocò un dolore al cuore, come se fosse troppo piccolo per pompare tutto quel sangue, «oppure così», e girò il viso sfiorando il mio zigomo con le labbra. Stavo per svenire, non avevo mai provato un'eccitazione simile.

Tenni immobile la testa e presi il suo viso tra le dita della mano sinistra: «Fermo». La sua pelle liscia tra le mie mani mi fece esplodere dentro emozioni colorate, schizzi che si spargevano per il cranio e colavano giù negli occhi.

Mi girai verso di lui, tenendo sempre fermo il suo viso con la mano e spiegai: «Se anche io mi girassi così e tentassi di baciarti sulla guancia in questo modo, il risultato sarebbe diverso. Non più un bacio sulla guancia». Le nostre bocche si trovavano vicinissime, una di fronte all'altra e io dovevo fare il possibile affinché rimanessero così. Lo guardai negli occhi per qualche secondo, quando ne ebbi abbastanza e capii che stavo per baciarlo, riportai il viso alla posizione iniziale e piano lo lasciai, quasi con una carezza. «Perciò si bacia nel primo modo. Nel secondo baciano quelli che non sono capaci, gli amici che ti vogliono proprio dare un bacio affettuoso e sanno che non ti girerai o quelli che ci provano spudoratamente.»

Mi baciò sulla guancia sinistra, sulla destra e rimase a fissarmi, le labbra leggermente aperte, il petto che si sollevava. Dovevo andare. Aprii la portiera dietro di me, ancora prima di girarmi.

«Grazie», uscii. Quando fui in piedi fuori dalla macchina, mi sporsi di nuovo verso il finestrino: «Posso dire in giro che ti ho insegnato a baciare?». A volte mi stupivo di me stessa.

Lui mi guardò sorridendo e aspettò che entrassi nel portone. 

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