57.

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14 marzo 2001

«Vieni qui.»

Mi trascinai da lui.

«Devi smetterla.»

Lo guardai con lo sguardo vuoto che mi portavo avanti da dieci giorni, risultato di pianti ininterrotti e dai tranquillanti che mi ero fatta segnare dal mio generoso medico, di cui avevo ignorato deliberatamente le istruzioni di dosaggio.

Non mi interessava se mi aveva visto i segni che mi ero lasciata sulla schiena con la cinta. Avrebbe dovuto vedere quelli che avevo sul cuore, quelli sì che erano spaventosi. Ero stata pure diligente, avrei potuto farmeli in posti più visibili. Bastava che allo spettacolo non mi mettessero un vestito scollato dietro. Insomma, mi ero dimostrata responsabile.

«Mi ascolti? Ti stai distruggendo!» mi scosse Mathias. «Cosa prendi? Sembri fatta. Come pensi di andare avanti?»

«Trascinandomi», e me ne andai.


Ero stanca anche del modo in cui venivo sempre squadrata da tutti, cosa cavolo avevano da guardare? Non avevano mai visto una persona guastarsi dall'interno? Marcire dentro finché i segni non si rendevano visibili anche fuori? Bene, ora ne avevano una davanti. E Marzio cosa voleva da me? Si sarebbe dovuto preoccupare di altro, della sua fottutissima vita che stava finendo. C'era forse qualcosa che doveva ancora aggiustare? Perché non se ne occupava invece di guardarmi con quell'espressione accigliata? Cos'era, aveva paura che morissi prima di lui? No, non sarei stata così fortunata. Poi, non ero io quella tanto brava che andava bene già alla prima? Che bisogno c'era di continuare a provare, potevo andare direttamente al concerto risparmiandomi quell'agonia. E visto che c'ero ingoiai altre gocce di tranquillanti, chiusa in bagno, onde evitare che passasse l'effetto. Ormai le prendevo senza diluirle, facevano schifo, erano amare e mi bruciavano la gola, ma era più veloce e davo meno nell'occhio che usando un bicchiere con l'acqua.

Qui poi non c'era quel bel ragazzo alto, moro, occhi verdi? Ah sì, eccolo lì seduto. I primi giorni non era venuto per ragioni di lavoro, dissero. Che risata mi ero fatta! Quando era tornato avevano provato a farci cantare insieme ma lo guardavo con così tanto odio che poi evitarono. Forse speravano fosse qualcosa di passeggero? Poveracci.


«Io non posso andare, quindi andrete voi.»

«Non voglio, non sono la persona adatta.»

«Nessuno lo è. Nessuno è pronto a guardare dei bambini sui loro letti di ospedale e fare finta che andrà tutto bene quando già si sa che non sarà così.» Marzio era nero.

«Non ci so fare coi bambini.»

«Non ci sai fare con nessuno! Ma sai cantare ed è quello che ti viene richiesto», mi attaccò ancora più duro.

«È una punizione?»

«Il mondo non gira intorno a te. Ci sono dei ragazzini che non usciranno da quell'ospedale vivi e tu mi domandi se ti ci mando per punire te?»

Mi sentii uno schifo ma non lo diedi a vedere, avevo ancora in circolo qualcosa che mi faceva sentire meno in colpa.

«L'appuntamento era già fissato per una mia semplice visita. Io non posso andare e ho pensato di regalare a quei bambini, per i quali stiamo facendo il concerto che sembrava appoggiassi per raccogliere fondi per la cura della loro stramaledetta malattia, qualche canzone da farvi cantare per distrarli dalla loro sorte che di certo non si sono cercati e che è molto più triste della tua che a diciotto anni ci sei arrivata!» Mentre parlava alzava il tono della voce e alla fine quasi mi urlava. Non lo avevo mai visto così. La mia espressione rimase la stessa ma aveva diradato gli ultimi effetti delle gocce. Avrei dovuto prenderle in un altro orario, arrivavo a fine prove che l'effetto stava sempre svanendo.

«Mi farò trovare alle 10 davanti l'entrata del reparto.»

Damien, lì accanto, non disse nulla per tutto il tempo.


La strada era buia e io speravo che qualcuno sbandasse e mi venisse addosso lasciandomi morire da sola sul ciglio. Intanto mi asciugavo le lacrime col dorso della mano. Una macchina si accostò dall'altro lato della strada, ma non gli diedi importanza, non era quella di Damien.

«Sali», ordinò Mathias. Feci come mi chiese senza sapere perché, forse ero solo stanca di discutere.

Mi portò dritta a casa e giusto alla fine mi domandai come facesse a conoscere l'indirizzo, tuttavia non glielo chiesi. Cosa me ne fregava poi?

«Domani vestiti in maniera adeguata a un pubblico di bambini, li devi far divertire, non spaventare.»

Dovevo rimediare un vestito da fatina coi lunghi capelli turchini? Ero più simile a una strega malvagia, ancor di più in quei giorni dove l'unico colore che indossavo era il nero. Neanche le mie amiche mi si avvicinavano, figuriamoci dei bambini.

Prima che potessi impedirglielo, prese la mia borsa e subito trovò i tranquillanti. Ci mise un secondo ad aprire la scatola e a buttare a terra dal finestrino la boccetta di vetro frantumandola.

«Ecco, ora sei pronta!»

«Che cazzo! Sei matto?» gridai con la testa tra le mani. «E ora come faccio domani?»

«Fai che ti liberi da queste cose e non le prendi più!»

«Non ce la faccio senza!»

«Smettila! Non fare la ragazzina! O devo dire la drogata?»

«Me ne sbatto anche se mi dici che sono una ragazzina drogata!» Ci pensai un attimo e poi lo accusai: «Sei stato tu! Hai detto tu a Marzio di mandarmi lì domani!».

«Gli ho solo confermato che sei fuori controllo. Che sei così pazza che stai buttando tutto all'aria per un motivo che capisci solo tu!»

«Chi altro lo deve capire? Riguarda solo me!»

Stavamo urlando entrambi.

«No, signorina, non riguarda solo te!»

«Cosa cazzo vuoi? Qual è ora il tuo problema? Quando vado al concerto canto e ballo se lo desideri tanto, ma ora lasciatemi tutti in pace!» scoppiai a piangere.

«Guarda che lui tiene a te quanto tu a lui!»

«No! Non lo voglio sentire!» gli intimai con un dito.

«Perché? Sarebbe troppo bello?»

Esplosi.

«Come faccio quando partirà?» urlai. «Come faccio?» e cominciai a darmi pugni in testa per cercare di aprirla e far uscire tutto il dolore. Lui mi si buttò addosso, prendendomi i polsi e aprendomi le braccia, così che fossero lontane dal mio obiettivo, ma io presi a scalciare per allontanarlo e finire il mio dovere. Ma era forte e non riuscii a liberarmi pur mettendoci tutta la forza. Volevo sentire dolore, quello vero, quello che mi facevo io, non quello che mi facevano gli altri. Sentivo il bisogno di riempirmi le mani di sangue e capelli strappati, finché tutto il resto diventasse più piccolo, meno importante. Continuai a piangere sconvolta dai sussulti e quando capì che non stavo più facendo resistenza mi prese la testa e mi abbracciò a lungo finché non mi calmai. Non so quanto ci volle, non ci scambiammo più una parola. Lui mi accarezzava piano i capelli e io tenevo la mia testa abbandonata sul suo petto. Poi mi tirai su e scesi dalla macchina.


Alle 10 in punto ero davanti al reparto. Damien arrivò qualche minuto dopo, sicuramente aveva avuto difficoltà con i cartelli scritti in italiano.

Ci scambiammo appena uno sguardo di saluto. Io ero lucida e questo mi faceva stare peggio degli ultimi giorni, tuttavia mi ero ripromessa, con un lungo esame di coscienza, di dare il meglio che potevo per quei bambini. Ci stavano aspettando all'interno con gli infermieri e i dottori che gli avevano anticipato la sorpresa. Non sapevo cosa si aspettassero in realtà, Marzio ci aveva solo detto che dovevamo cantare qualcosa per loro. Speravo veramente che il mio unico compito fosse quello perché, anche in periodi migliori, non ero mai stata una grande intrattenitrice di bambini.

Ci venne incontro una dottoressa minuta, che mi diede alcune informazioni sul reparto e sulle condizioni generali dei bambini all'interno. Mi chiese di fare da tramite con Damien visto che non conosceva bene l'inglese. Già in sua presenza mi ero data un contegno, cercando di essere ben disposta, e tradussi a Damien che mi ascoltava con attenzione.

Dopo due passi all'interno del reparto mi sarei tagliata a pezzi da sola se fosse stato d'aiuto per quei bambini. Mi bloccai appena ne incontrammo alcuni che si stavano spostando su delle sedie a rotelle, bandane in testa colorate dove avrebbero dovuto esserci capelli, tubicini che entravano nelle loro piccole braccia. Damien mi mise la mano sulla schiena per darmi sostegno e lo apprezzai. Ci sarebbe voluto ben altro, però.

La dottoressa capì il mio disagio e mi rivolse alcune parole di incoraggiamento che non udii. Incoraggiava me? E lei che lavorava lì dentro? E quei bambini come potevano continuare a essere speranzosi? E i loro genitori? Come riuscivano ad andare avanti? Come facevano a non ammazzarsi per smettere di provare quel dolore incessante che di sicuro li devastava? Buio. Poi di nuovo luce ma annebbiata dalle lacrime che cercai di tenere dentro.

«Ok, ok, un secondo», mi passai la mano sugli occhi ad asciugarmi le lacrime che tanto sarebbero scese di lì a poco.

«È difficile, lo so. Ma state facendo una bellissima cosa. I bambini sono così eccitati, hanno già preparato una lista di canzoni che vorrebbero ascoltare da voi.»

Io continuavo ad annuire mentre cercavo in me una forza che speravo di trovare per affrontare quella situazione. Damien mi prese la mano, gliela strinsi come non avevo mai fatto.

Ci disse che saremmo andati prima in una stanza più grande, dove la maggior parte dei bambini ci avrebbe accolti. Quelli impossibilitati a spostarsi, saremmo andati a trovarli nelle loro stanze.

Appena entrammo fummo invasi da palloncini colorati, grida e applausi. Damien era molto più bravo di me a fingersi a suo agio e io non vedevo l'ora di cantare.

Ci chiesero alcune pezzi del momento ma anche diverse canzoni dei cartoni classici Disney. Fortunatamente eravamo pronti su tutto e non deludemmo nessun bambino. Cantai cercando la complicità di Damien, ne avevo bisogno, dovevo appoggiarmi a lui. E lui era lì e mi sostenne.

Al termine della lunga lista, i bambini iniziarono a porci domande. La paura di soffermarmi sui loro corpicini emaciati si affievolì quando li trovai diretti e indiscreti, spavaldi e sicuri, timidi e intimoriti, ma pieni di gioia.

«Siete fidanzati?» fu la prima domanda di una bambina di circa otto anni. Sorridemmo entrambi, l'aveva capita anche Damien. «Prima siete entrati mano nella mano...»

Ebbi timore di doverli affrontare da sola, poi qualche bambino più grandicello iniziò a rivolgersi a Damien in inglese. Erano incuriositi dal nostro rapporto e nonostante avessi negato di avere una relazione sentimentale con lui, continuarono ad indagare con irriverenza. Mi rilassai e scelsi di dare qualche piccolo spunto per farli sognare, elencando, sotto esplicita richiesta di una bambina piccola piccola con una bella parlantina, tutti i regali che mi aveva fatto. Una ragazzina di dodici anni circa sospirò, invidiando la mia vita che io detestavo.

Più tardi passammo a trovare gli altri bambini. Qualcuno ci chiese di cantare, alcuni volevano parlare, certi stavano così male che potemmo solo salutarli da fuori.

Al termine della visita, la dottoressa ci accompagnò all'uscita del reparto e ci ringraziò per essere stati lì e per il contributo che avremmo dato grazie al concerto.

Quando rientrò, mi guardai intorno e, appena lo individuai, corsi al bagno a vomitare.  

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