64.

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Arrivati a casa sua mi infilai al bagno e mi spogliai. Se me ne fossi trovato un altro addosso, sarei senza dubbio uscita di corsa dal bagno nuda per farglielo togliere. Non ero in grado di connettere quando vedevo quelle piccole antenne, le zampe e i loro corpi che se schiacciati facevano un rumore terribile. Ero convinta che in un'altra vita fossi stata mangiata viva dagli insetti, altrimenti non si spiegava quella fobia che avevo.

Non trovai nessun intruso, quindi lo raggiunsi in cucina. Mi guardò ma non disse nulla, il sorriso che aveva stampato sul viso parlava per lui.

«Cosa vuoi mangiare?»

«Quello che preferisci tu.» Poi proposi: «Ti va un risotto?»

«Certo! Allora non è vero che non sai cucinare!»

«Con te mi sbilancio, sei americano, cosa vuoi sapere di cucina?»

Mi passò vicino per aprire uno sportello, la sua presenza dietro di me, ora che l'adrenalina era scesa, l'avvertivo forte. Avrei voluto che mi abbracciasse da dietro e mi baciasse il collo, poi che mi prendesse sopra i fornelli. Quel desiderio lancinante mi rattristò, facendomi sentire un'illusa.

Con un dito mi toccò il naso, risvegliandomi dai miei pensieri. Era strano che mentre ero con lui, pensavo a lui e a quanto mi sarebbe piaciuto starci insieme. Lo avevo lì ma continuavo a viverlo come se fosse un sogno inarrivabile.

Me lo toccò di nuovo aggiungendo: «Il tuo povero cervello non riposa mai!».

«Non toccare.»

«Non toccare qua, non toccare là, non dire questo, non dire quello... ti rendi conto che inizi ogni frase così?» con fare canzonatorio e una tremenda faccia da schiaffi.

«Non assumere questa espressione che mi ricordi tanto qualcuno.»

«Chi?»

«Enea.»

«Trovi che gli somigli?» aggrottò la fronte.

«No, parlavo solo dell'espressione. Faceva la stessa faccia quando non prendeva sul serio quello che dicevo. Cioè sempre.»

Continuai a girare il risotto.


Stavo a buon punto col mio piatto, avevo superato la metà e pensavo addirittura di continuare a mangiare. Lui iniziò a ridere da solo.

«Perché ridi?»

«Stavo pensando... Chissà cosa hanno immaginato le persone che ci hanno visto mentre ti toglievo l'insetto», e ridacchiava.

«Ora ti interessa? Credevo non ti importasse quello che pensavano gli altri», risposi piccata, senza ragione.

«No, è che immagino la scena vista da fuori.»

«A me non sembra così strana, mi sarà capitato mille volte...»

«Davvero? Così? Tu che ti spogli davanti a tutti?»

«Certo, pensavi fosse successo con te perché hai le manine d'oro?»

«Non le hai sentite?»

«No, non ci ho fatto caso.»

«Sicura? L'insetto potrebbe essere una scusa... magari quella che aspettavi per mostrarti a me.»

«Non mi sfidare.»

«Perché?»

«Perderesti. Non credere che quella sia una cosa che mi imbarazza.»

«No? Allora togli la camicia, se per te è così normale.»

Le mie mani raggiunsero subito i bottoni mentre i miei occhi erano fissi sui suoi. Lui mantenne lo sguardo poi scese verso il seno che stavo lasciando coperto solo dal push up di pizzo fucsia.

Ripresi a mangiare mentre lui rimase immobile. Quel risotto era veramente buono, quasi ne avrei voluto altro in quel momento.

«È vero quando perdi il controllo...»

«Oh, ma io ora ce l'ho, non l'ho mica perso», lo guardai come se lo volessi ipnotizzare. Con gli occhi o col seno, era indifferente.

«Sto per perderlo io,» si portò una mano alla fronte e sorrise imbarazzato, «stai testando la mia resistenza?»

«Sei tu che hai messo alla prova me.»

«Come puoi pensare che riesca a starti lontano se fai così?»

«Ho fatto solo quello che mi hai chiesto», continuai con un sorriso malizioso.

«Ok, ok smettila, hai vinto. Tanto lo so che se vengo lì mi cacci via. Vero?» distolse lo sguardo imbarazzato.

Mi alzai, con una mano iniziai a chiudere i bottoni della camicia ancora aperta, partendo dal basso, con l'altra presi il mio piatto quasi vuoto.

«Non mangi più?» mi fermai davanti a lui, costretto di nuovo a guardarmi. Ora era proprio all'altezza del seno.

«Allontanati, ti prego, se non vuoi dirmi di sì. Non posso neanche alzarmi.» Sorrise ancora imbarazzato per la sua reazione fisica che non vedevo ma immaginavo.

Presi anche il suo piatto, buttai gli avanzi e li misi nella lavastoviglie.

«Devo studiare», con la camicetta ormai tornata al suo stato originale, come se non fosse successo nulla.

Andai a prendere i libri e mi sedetti sul divano. Lui rimase ancora qualche minuto dov'era.


Arrivammo alle prove con un leggero ritardo. Entrai io per prima con passo veloce, odiavo far aspettare le persone. Sui divanetti della sala c'erano diverse ragazze, più Keira e Steve. Attirammo subito l'attenzione, di sicuro per l'orario, ma anche perché mancavamo solo noi ed eravamo insieme.

«Come mai oggi non sei venuta a scuola?» Sara appoggiò il mento sullo schienale del divano.

«"Fatto sega"! Siamo stati a Villa Borghese!»

Guardai Damien stupita. In realtà non avevamo parlato di una scusa da raccontare di comune accordo, ma non pensavo che se ne uscisse così. Credevo di gestirla io, a modo mio.

«A fare cosa?» Gisella ci guardava quasi arrabbiata.

«Quello che si fa a Villa Borghese», ancora lui, con un sorriso malizioso.

Cercai di limitare i danni dicendo che avevamo fatto una lunga passeggiata, un giro sui risciò e uno in barca. Nessuno mi credette.

«Non c'è bisogno di andare tanto in giro se volessimo...» lasciai cadere la frase.

«Sì, infatti, sarebbero potuti andare a casa di Damien», intervenne Milena per accogliere la mia obiezione.

«Veniamo da lì», lo sentii annunciare con tranquillità.

«Sei stata a casa sua?» Flavia mi guardò sbigottita.

«Non è mica la prima volta.»

Lo guardai chiedendogli senza parlare cosa gli stesse prendendo. Poi li lasciai lì e andai da Marzio che ci osservava dall'altra parte della sala.


Questa volta il passaggio lo avrei preteso se non me lo avesse offerto.

«Mi spieghi cosa ti è preso prima? Perché te ne sei uscito così?» Quasi lo aggredii quando entrammo in auto. Non ero arrabbiata, ma non capivo perché avesse voluto mettermi in imbarazzo davanti agli altri. Anzi, no. Non capivo perché avesse voluto parlare di noi davanti agli altri. Sì, questo mi infastidiva.

«Così la smettono di farti mille domande, gliel'ho detto io una volta per tutte.» Lo disse come se fosse semplice, come se avesse risolto un problema invece di crearlo.

«Ma hanno capito ben altro, così!» mi lamentai. «Ora dovrò giustificarmi per qualcosa che non ho fatto», sbuffai innervosita.

«Perché devi giustificarti?»

«Perché sì, perché non è vero!» Scossi la testa frustrata e sospirai. «Non c'è niente, perché dare loro un'impressione diversa dalla realtà?»

«Niente», come se gli avessi dato uno schiaffo. Si voltò verso di me, poi guardò di nuovo la strada buia che stavamo percorrendo. Sorrise sarcasticamente.

«Lo sai, dai», cercai di farlo ragionare.

«Io so quello che c'è,» ancora con un mezzo sorriso infastidito, «perfino quello che c'è stato.»

Mi arrivò una botta al cuore. No, non volevo parlarne.

«Niente.»

«Davvero? Proprio niente?» Ancora quel tono sarcastico. E deluso.

«Niente che si possa definire. Quindi niente.»

«Io una definizione ce l'avrei, vuoi sentirla? O hai paura che se diamo un nome a tutto questo poi diventa reale e non puoi più fare finta che non esista?»

«Il nome c'è. Anzi, sono due: noia e gioco. La tua noia che cerchi di combattere giocando con me, che te lo faccio fare.»

«Che brutta cosa che hai detto», commentò amaramente.

«La verità difficilmente è bella.»

Arrivammo sotto casa mia, ci avevamo messo pochissimo. Aveva forse corso o il Cielo voleva aiutarmi ad abbandonare il campo di battaglia dal quale difficilmente sarei uscita incolume?

«Perché cerchi sempre di litigare quando affrontiamo discorsi seri su noi due?» si girò verso di me, dopo aver parcheggiato. «Tutte le volte che siamo arrivati lì lì per baciarci...»

Trasalii come se mi avesse trafitta.

«Che c'è? Non vuoi che lo dica?» Mi guardò cercando di individuare punti deboli.

«Non lo abbiamo fatto, quindi non è detto che sarebbe accaduto», mi sbrigai a contestare.

«A me sembra che ci siamo baciati - e a lungo - a casa mia, la notte del tuo compleanno», parlò lentamente per farmi recepire ogni parola.

«Non ricominciare con quello. Sai bene che è stato un gioco, una ripicca. Chiamalo come vuoi.»

«Ok, allora lo chiamo... un bacio infinito ed eccitante come mai provato.»

«Ora vado», recuperai lo zaino che stava nei sedili posteriori.

«Non scappare, se provi a innalzare un altro muro ti dovrò baciare di nuovo e questa volta ti dovrai convincere», mi minacciò.

«Dubito ci riusciresti, ormai con te i baci hanno perso valore.»

«Veramente? Allora dammene uno adesso, se non ne hanno più», continuò con quel suo tono accattivante, controllato e serio.

Mi protesi verso di lui, arrivando vicino alle sue labbra tanto da sentire le mie cominciare a pulsare, in attesa di un bruciante contatto. Rimasi così, guardandolo negli occhi: «Io così con te ci devo cantare. Come pensi possa riuscirci, se continui?». Le labbra si sfioravano.

«Sarebbe più naturale.»

«No, non riuscirei a fermarmi mentre cantiamo, lo capisci? Io non riesco a dividere le due cose. E adesso posso andare o devo prendere i mattoni per costruire una piramide e tumularmici dentro?» mi tirai indietro e aprii lo sportello.

«Domani...»

«Non ti preoccupare, non abbiamo mai parlato.»

«Non è quello che voglio.»

«Ma è quello che voglio io», e me ne andai.  

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