3. Il mio demone personale

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Come ogni mercoledì prima che il carico di studio divenisse pesante, avevo appuntamento al Charlotte. "Serve a mantenerci giovani", ripeteva il ragazzo di Ginevra.

E, in effetti, mi ci vedevo già un po' vecchia, con quelle palpebre cadenti che mi ritrovavo: erano le nove di sera, sostavo con i jeans strappati davanti allo specchio e avevo la faccia sfinita. Ah, beati vent'anni!

Tentai col raccogliere la chioma castana e con una passata di rossetto in più, ma mi pareva di aver soltanto peggiorato la situazione. Mi rifiutavo, però, di indossare gli occhiali; lenti e borse evidenti tutta la vita!

Non avevo mai avuto un gruppo di amici nelle sperdute campagne di Vestri e ancora faticavo a credere di essermi tuffata in una nuova esperienza, specie perché i miei genitori non mi parlavano più. Non potevo pentirmi, però. Lo stavo facendo per il mio fratellino.

Prima di rischiare di trascorrere la notte con il barattolo di gelato in grembo, agguantai le chiavi e uscii.

Il pianerottolo ospitava un altro appartamento oltre a quello, ci abitava un'anziana signora che si svegliava alle sei per raggiungere il fruttivendolo in fondo alla via e poi non metteva più piede fuori casa. A volte, non si avvicinava alla porta neanche per prestarci un uovo. Grazie a lei, però, c'era sempre un delizioso profumo di soffritto, e pure quella sera riempiva l'entrata e si attaccava alla posta nelle cassette.

Non mi spaventava camminare e prendere la metro da sola, c'era sempre tanta gente nelle gallerie e ormai ero diventata pratica della città. Ciò che mi rendeva inquieta era la possibilità di farmi sorprendere ancora da Rhydian.

Non l'avevo più scorto – o meglio, non mi era più parso di scorgerlo – dopo lunedì e cominciavo a pensare che fosse opera della mia coscienza sporca. In seguito a quella mattina di molto tempo prima, non era più tornato a scuola e avevano detto che si fosse trasferito in Galles, dai parenti di sua madre. Se adesso era rimpatriato, era davvero per fare il demone venuto dall'inferno a tormentarmi.

Alla fine, nell'underground mi imbattei soltanto in lupi solitari e puzza di pipì. Lo presi come un buon segno.

Il Charlotte era il pub immerso nei Giardini Pubblici e circondato dalle rotaie del trenino per bambini. Era il nostro ritrovo da settembre e, nonostante la brezza di marzo fosse ancora piuttosto fredda, avevano già posizionato dei tavoli all'aperto. I miei amici si ostinavano a venire lì, sebbene ormai fosse diventato un bar per adolescenti delle superiori e gli universitari trascorressero da tutt'altra parte le loro serate. Le abitudini erano davvero dure a morire, nessuno poteva saperlo meglio di me, che continuavo ad avere l'istinto di inginocchiarmi con le mani congiunte e i gomiti appoggiati sul materasso prima di dormire.

«Diana!» Si sbracciò Serena, avvolta nella sua pelliccia rosa. Sotto portava un vestito scollato che mi faceva rabbrividire solo a guardarlo e fra le dita aveva l'immancabile sigaretta.

A differenza sua, mi sedetti nel posto più vicino al fungo riscaldante. Subito mi accorsi della presenza di una testa mora di troppo e l'assenza di Gabriele, che pareva sempre non riuscire a resistere lontano dal fianco della sua Ginevra.

Nicola non era affatto magrolino come si tendeva a credere di un appassionato di tecnologia e per i capelli assomigliava invece a un militare. Non gli avevo mai dedicato più di una rapida occhiata e ora non facevo che fissarlo, immaginandolo con la mia coinquilina. I cinque anni che li separavano si sarebbero notati, decisamente.

La reazione di Serena alla domanda "perché hai invitato anche Marika alla festa?" mi aveva pure preoccupata, a essere sincera: aveva strabuzzato le palpebre e replicato che io stessa avevo approvato. Peccato che non lo ricordassi proprio.

Almeno Ginevra, che in quell'istante cercava l'angolatura migliore per una foto ai cocktail, aveva raccontato di non essersi resa conto di ciò che stava nascendo tra Nicola e la mia coinquilina. Non stavo perdendo troppi colpi, ecco.

Mentre ammiravo la capacità di truccarsi della mia amica bionda, il suo ragazzo le comparve alle spalle per abbracciarla e scoccarle un bacio sul collo. Non registrai l'attimo in cui lei si girò con un sorriso malizioso, la figura dietro Gabriele attirò tutta la mia attenzione.

«Ah», esclamò Gab. «In bagno ho conosciuto Rhydian, mi ha aiutato a togliermi di dosso un coglione ubriaco. È mezzo inglese ed è appena tornato in Italia.»

Ma non lo stavo ascoltando. Quegli occhi nocciola mi avevano trovata.

«Accomodati, piacere!»

Non considerai nemmeno Gin. Quello sguardo gridava chiaro.

«Sei fidanzato?»

Non scoppiai a ridere come al solito davanti alla sfacciataggine di Sere. Rhydian mi detestava, e non lo nascondeva affatto.

«Ma... vi conoscete?» chiese Serena infatti.

Dato che non riuscivo a emettere un suono ed ero soltanto capace di darmi mentalmente della stupida, spiegò lui: «Andavamo allo stesso liceo, però in classi diverse». La sua voce, calda e limpida, era diversa da come mi ero aspettata. Avevo immaginato solo il lieve accento straniero, eppure non così ipnotico.

«Però! Com'è piccolo il mondo!» commentò Gabriele, spaparanzato sulla sedia in mezzo alla sua ragazza e al nuovo arrivato.

Deglutii, Rhydian mi stava ancora guardando. No, incenerendo. Mi strinsi nel cappotto d'istinto e incrociai le iridi scure di Ginevra, troppo accorta come sempre.

«Già. Beh, io... vado a prendere da bere.» Adesso sì che avevo incuriosito anche Serena, mi osservò storto pure Nicola. Con un cenno riferii alle amiche di non seguirmi, non volevo mettere su uno spettacolino, e loro, per il momento, si quietarono.

Prima feci un salto al bagno sul retro della struttura per assimilare l'imprevisto e, siccome c'era la fila, mi appoggiai al muro, nell'angolo. Quante probabilità c'erano che Rhydian fosse soltanto un semplice ragazzo e non il mio demone personale? Non avevo ancora preparato un discorso decente, come si chiedeva scusa a qualcuno per non averlo salvato?

«Diana.»

Trasalii, non l'avevo sentito arrivare e neppure avevo notato che fosse giunto il mio turno per la toilette. Ormai non serviva più rinfrescarsi e non potevo accodarmi a nessun'altra giovane, all'improvviso erano svanite tutte.

«È Diana, all'italiana.» Non so dove trovai la dignità di precisarlo, era ovvio che stesse attendendo una cosa sola da me.

Mi ignorò e si accese tranquillo una sigaretta, all'ombra degli arbusti intorno, di fronte a me, con le dita tatuate. Era impossibile distinguere i disegni neri, le luci delle lanterne sui tavoli erano troppo lontane e la lampada sopra la porta dei servizi era troppo flebile. L'espressione severa la vedevo bene, però.

«Mi dispiace per quel giorno», buttai fuori. Non c'erano più dubbi che potesse non ricordarsi di me. «Io... Mi dispiace, spero non sia successo nulla di grave. Sono tornata indietro, lo giuro, ma eravate spariti. Ti ho cercato a scuola, ma hanno detto che eri partito.» Intanto, avevo già sciolto l'acconciatura iniziale e fatto e rifatto una treccia. Ero stata sincera, eppure mi sentivo ridicola.

«Non dici nulla?» insistetti. C'era fresco, tuttavia avevo la schiena sudata sotto la camicetta. Se avessi avuto gli occhiali, sarei stata di continuo con il polpastrello contro l'osso del naso.

Inspirò ed espirò, senza smettere di fissarmi e disprezzarmi. I riccioli gettavano ancora più oscurità sul suo viso e il taglio allungato degli occhi accentuava la durezza dello sguardo. Aspirò e, mentre rilasciava una nuvola di fumo, avanzò.

«Cosa dovrei dire? Sei scappata, mi hai condannato.» Mi odiava, il suo timbro si faceva più roco ogni secondo di più.

Azzardai un passo anch'io. Desideravo afferrargli i polsi e scuoterlo, ma tremavo e non l'avrebbe apprezzato. «Perdonami, ti prego. Ho avuto paura. Se esiste un modo, un qualsiasi modo... Farei qualunque cosa.» Forse era tremendamente egoista da parte mia, eppure dovevano averlo rimesso sulla mia strada per una ragione.

Sogghignò, le labbra sottili si schiusero per un breve attimo e i denti scintillarono. Mi osservò con gli occhi profondi, occhi in grado di raggelare.

«Un modo c'è, però non ti piacerà.» 

Se fosse stata un'allusione sessuale, sarebbe stata molto meno sconcertante. Sembrava mi avesse augurato di morire.

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