Capitolo 8 - I ricordi di Urian

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Quando sei immerso nel buio pesto ti rendi conto di quanto sia penetrante. Ingloba tutto, anche te, il tuo corpo, i tuoi punti di riferimento. Non esiste più niente. Sopravvivono solo le cose inconsistenti, come i tuoi pensieri, i suoni e le forme, che puoi toccare, certo, ma che assumono un aspetto deforme nella tua mente, e mai lo stesso, ogni volta.

Allora l'unica cosa che puoi fare è cercare qualcosa di familiare su cui orientare il tuo universo cieco.

Io toccai per primo il pavimento. Poi le pareti. Imparai a camminare rasente al muro. Era bagnato, di pietra. Tutto qui. Il mio mondo d'improvviso, era tutto qui. Pochi metri di uno spazio quadrato. Contai ogni passo. Percorsi ogni direzione.

C'era anche una porta di ferro. Tentai di abbatterla con la sola forza, gridai, mi stancai in fretta. Non si aprì nemmeno una volta. Non mi portavano cibo, né acqua. Ma sapevo che non ero stato lasciato lì a morire. Il mistico dell'Alchimista era solo in attesa, l'avvoltoio nel mio buio. Aspettava di sfinirmi. Era furbo. Perché se ce l'avessi avuto davanti l'avrei ucciso.

Cominciai ad aspettare anch'io. Leccai l'acqua dalle pareti. Non mi mossi più del necessario. Ignorai le allucinazioni che brulicavano nell'oscurità. Rimasi immobile a lungo; tanto a lungo che la fame, la sete e il dolore che mi causava la pietra, divennero un unico prolungato tormento.

Un paio di braccia mi afferrarono.

Riuscii a percepirlo oltre il velo annebbiato che mi ottundeva i pensieri. Mi tirarono di peso fuori dalla cella. La luce della fiaccola che un altro di loro portava con sé mi accecò. L'uomo ci precedette e nella penombra in cui mi trascinavano mi sforzai di recuperare la vista. Sentivo il suono dello sgocciolare. La durezza pietra. Vedevo un soffitto basso, pareti strette. Nessuna finestra, almeno così mi sembrava. Eravamo quasi certamente sotto terra.

Mi portarono alla fine attraverso un corridoio. Sentii i lamenti prima ancora di riuscire a vedere da chi provenissero. Erano gemiti fievoli, ma era difficile non prestarvi orecchio, c'era qualcosa di doloroso. Misi a fuoco le sbarre di celle scavate nella pietra. Scorsi una figura alta, dalla forma sgraziata. Si avvicinò alle sbarre. Si protese alla luce della fiaccola.

La sola vista di cosa fosse imprigionato lì m'immerse in un tale terrore che i muscoli intorpiditi si contrassero di soprassalto, causandomi una fitta di dolore. Un lamento mi spezzò la gola.

L'essere aveva occhi sporgenti e spalancati, bulbi e iridi simili a quelli di un essere umano. La  somiglianza con un essere umano però, finiva lì. La creatura era più alta, più dinoccolata di un uomo. Aveva braccia, gambe e dita più lunghe, decine di nocche, arrotolate intorno alle sbarre della sua cella. Non aveva pelle, la sua carne scorticata trasudava gocce di sangue rosso vivo, il fuoco illuminava una danza scarlatta che percorreva i lineamenti del suo volto e colava fino a terra.

La cosa più spaventosa però, era il suo muso, mancava completamente di mascella. Una folta schiera di denti sottili e affilati sporgeva sotto le narici aperte, grondavano goccioloni densi di saliva che formavano laghi ai suoi piedi. La creatura si leccò quella corona di spine bianche, nel farlo si ferì la lingua, che sanguinò.

Ogni dettaglio mi è rimasto impresso nella memoria, ma più di tutto ricordo il suo sguardo.

Era insistente, penetrante, mi tenne avvinghiato fino alla fine del corridoio.

Quando le guardie chiusero la porta in fondo al corridoio mi sentii sollevato, ero nascosto dagli occhi di quella visione orrenda, eppure non riuscii a sfuggirvi nei miei pensieri, mai più. Nemmeno quando mi trascinarono in una grande stanza ben illuminata, ma di cui non riuscii ad afferrare altri dettagli.

Mi distesero su un lettino di ferro e lì mi lasciarono. Cadde il silenzio. Fissai il soffitto di pietra.

"Li hai visi?" mi chiese una voce, la sua voce, trepidante.

Il mistico entrò nel mio campo visivo. Quel suo sorriso tirato mi fece pensare al ghigno affilato del mostro nella cella. Non provai nemmeno a rispondergli. A stento riuscivo a seguirlo con gli occhi.

"Ah già, immagino tu abbia la gola un po' secca."

Pensava di essere così furbo in quel momento. Lo odiai.

"Va bene, te le mostro lo stesso."

Si mosse svelto e tirò via un telone scoprendo una grossa gabbia. All'interno era rannicchiato – per quanto possibile data la sua mole enorme – un altro di quei mostri. Quando mi vide, scorgendomi oltre l'angolo dell'ascella, sembrò rianimarsi di colpo, si lanciò contro le sbarre, allungò le sue braccia infinite, piene di gomiti.

Ci fu un lamento, non del mostro, riconobbi la mia voce. Quella visione era terribile, non solo per la bruttura dell'essere, ma per la sofferenza che trasmetteva tutto il suo corpo. Come se mi avesse letto nella mente, il mostro si coprì il volto con le lunghe e complesse articolazioni delle braccia. Dalla creatura si sollevò quel verso, quel... pianto.

"Non preoccuparti, tu uscirai molto meglio."

Me lo disse così, ma mi rifiutai di capire. Lui dovette vedere la confusione sul mio volto, così si affrettò a rimediare, fu più specifico.

"Te l'avevo detto che avrei trovato qualcosa da fare con i tuoi soldati. Ho fatto degli esperimenti qua e là. Ma rallegrati! Grazie a loro tu sarai maestoso. Il mio capolavoro."

Non avevo lacrime da piangere. Né la forza per singhiozzare. A paralizzarmi non era solo l'inedia, ma era anche la sofferenza. Sentii di nuovo quel gemito, il mio. Si faceva sempre più alto, lamentoso, e non avevo modo di fermarlo.

Il mistico mi lasciò al mio dolore. Credo lo divertisse. Mi diede tutto il tempo di guardare la creatura. Non riuscii a riconoscere nessuno dei miei soldati, mi chiesi se erano più d'uno messi insieme. Era come se fossero tutti lì dentro a soffrire, in una volta sola. E poi erano dentro di me. La loro sofferenza era sulle mie spalle.

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