Capitolo 13

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"3 marzo 1991

Stanotte li ho sentiti. Ho sentito le loro urla.

Penso che abbiano prelevato Stan dalla cella accanto, riconoscevo le sue grida.
Erano talmente forti che ho dovuto coprirmi la testa con il cuscino.

Stan ha circa settant'anni, è un brav'uomo. La figlia lo ha fatto internare perché soffre di Alzheimer.

In uno dei suoi rari momenti di lucidità, nell'area comune, mi ha raccontato che, in realtà, la figlia voleva soltanto liberarsi di "un peso".
Non era mai venuta a trovarlo.

Lo ha semplicemente portato qui, come si portano dei panni sporchi in lavanderia, per poi abbandonarlo.

Nel corridoio, poco prima che aprissero la sua cella, li ho sentiti parlare, stavano bisticciando tra loro.

Credo fossero in tre.
Ad un certo punto, uno di loro ha alzato la voce, dicendo una frase del tipo: «Non me ne frega un cazzo di quanti anni ha! Il capo vuole scoprire cosa si cela lì dentro e il nostro compito è eseguire i suoi ordini! Ora prendetelo. Muovetevi, accidenti!».

Poi ho sentito solo Stan urlare come un pazzo.
Devono averlo buttato giù dalla brandina e trascinato via a forza.

So che non lo rivedrò più.

Stanotte, l'ala Est si prenderà un'altra anima innocente".

Drew, sul sedile del lato passeggero, stava leggendo le lettere in ordine casuale.
Aveva preso un intero fascicolo dalla stanza nascosta.

«Che rapporto avevi con tuo padre?» chiese a Michael senza staccare lo sguardo dalla lettera che aveva tra le mani.

«Non era il classico rapporto padre-figlio. Per me è sempre stato un punto di riferimento quando, a scuola, facevano la classica domanda "Cosa vuoi fare da grande?". Io volevo essere come lui.
Per il resto..non posso dire che sia stato presente nella mia vita, o come padre».

Drew allungò la mano verso di lui, ma la ritrasse appena prima che lui potesse accorgersene.

«E tu? Che rapporto hai con i tuoi genitori?» chiese Michael a sua volta.
«Madre ingegnere aerospaziale e padre chirurgo plastico. Felicemente divorziati e noncuranti della vita della loro figlia» Drew lo disse con un mezzo sorriso, ma il suo sguardo passò a fissare il vuoto fuori dal finestrino.

«Mi dispiace».
«Non devi dispiacerti. I miei genitori non si parlano da anni ormai ed io, non li vedo da circa due anni. Non hanno mai condiviso la mia scelta lavorativa. Per loro, il mio destino era già scritto. Avrei dovuto laurearmi in giurisprudenza e diventare un avvocato di fama.
Sorpresa!».

La bocca di Michael emise una risatina sottile e quasi silenziosa.

La campagna intorno a loro si stendeva come un mare silenzioso di colline verdi e boschi densi, avvolti in una nebbia spessa che inghiottiva ogni suono.

I sentieri, battuti e solitari, si snodavano tra antichi muretti di pietra coperti di muschio, mentre querce nodose si piegavano sotto il peso di segreti dimenticati.

Qua e là, casolari abbandonati con finestre rotte scricchiolavano sotto il vento freddo, come se respirassero ancora le ombre di chi vi aveva vissuto.

In lontananza, una chiesa gotica svettava tra gli alberi, la sua torre proiettando un'ombra lunga e inquietante che sembrava seguire ogni passo del viandante.

«Siamo quasi arrivati, ma non vedo niente qui intorno» disse Michael controllando che l'indirizzo impostato sul navigatore fosse corretto.

«Svolta qui. A sinistra».

Imboccarono una strada sterrata, con il terreno irregolare, costellato di buche e sassi.

Ai lati, l'erba alta sfiorava la carreggiata, per poi diventare sempre più fitta chiudendo il sentiero in un tunnel naturale di ombre.

Tra i rami delle querce, intravidero una sagoma scura.
Un ammasso di mura decrepite e finestre sbarrate, avvolto in un'atmosfera di abbandono e disperazione.
Erano arrivati. Davanti a loro si ergeva il Greenside Asylum.

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