12. NESSUN RIMEDIO

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng


Mi rifugiai in camera, chiusi a chiave la porta e misi persino una sedia a contrasto.

Mi dispiaceva per Louise, ma avevo bisogno di stare da sola. Avrebbe dovuto, perciò, chiedere ospitalità agli altri per qualche ora. Forse, le stavo anche facendo un favore perché di sicuro l'avrebbe chiesta proprio a Ethan.

Non sapevo se sentirmi più arrabbiata o delusa dalla sua reazione.

Probabile che fosse vero che avevo perso tempo a correre dietro alle favole. Stavo, persino, continuando a farlo.

Sentii gli occhi bruciare e le lacrime affacciarsi con timidezza tra le ciglia.

D'istinto, afferrai il cellulare e composi il numero.

«Pronto?»

«Mamma, sono io. Come stai?»

«Oh, cara! Stavo giusto pensando a te. In questo momento sono in spiaggia ad abbronzarmi e a fare surf, quindi, direi che sto benissimo» rispose lei raggiante. «Tu, invece, come va in Scozia? Mi hanno detto che è bellissima»

«In Scozia? Perché mai dovrei essere in Scozia?»

«Per la tizia» rispose lei, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

«La tizia? La tizia, chi?»

«La tizia... Nessie»

«Mamma, di chi stai parlando? Non ho amiche con questo nome»

«Dai su! Nessie, il mostro di Loch Ness».

Ah certo! Nessie, il mostro di Loch Ness, chiamiamola per nome e invitiamola a cena.

«Mamma, hai bevuto?»

«Solo un paio di cocktail. Lo sai che il cuba libre lo fanno con il rum e la coca cola?»

«Per favore, lascia stare gli alcolici. Dimmi perché avrei dovuto andare a cercare il mostro più amato dai turisti di tutto il mondo?»

«Perché almeno saresti stata insieme ai turisti di tutto il mondo in un viaggio organizzato e non dispersa chissà dove. Ovvio!»

«Ovvio» ripetei, alzando gli occhi al cielo.

Mi arrendo, pensai divertita.

Amavo quella sua leggerezza. Odiavo non averla ereditata.

«Ascolta, invece sono sugli Appalachi» confessai, tagliando corto.

«Che meraviglia!» esclamò sarcastica.

«Il sarcasmo è una novità per te, mamma» osservai.

«Sarà colpa del rum» ribatté ironica. «Dimmi che non sei sola dispersa su quei monti»

«No, c'è Ethan»

Il silenzio che seguì quella mia semplice risposta, mi fece credere che fosse caduta la linea.

«Mamma? Ci sei?»

«Sì» rispose con tono serio e asciutto. «A che gioco stai giocando, Emma?»

«Cosa intendi dire?»

«Sta attenta. Stavolta a starci male potresti essere tu. E non è una cosa piacevole, tesoro»

«Mamma, mi dici cosa vuoi dire?»

«Che Ethan ha sofferto molto a causa tua. E te lo dissi subito all'epoca, ricordi? Pensaci bene, ti dissi, prima di prendere una qualsiasi decisione, pensaci bene. Sei sicura di quello che fai? ti ricordi quando ti feci questa domanda? Sii certa dei tuoi sentimenti perché poi non potrai più tornare indietro. Ti ricordi quando te lo dissi?»

Sì, mi ricordo benissimo.

«Avevo solo quindici anni, mamma» minimizzai.

«E lui sedici e soffrì moltissimo» puntualizzò dura.

«Lo so e mi dispiace. Però, adesso è diverso... »

«Ethan è un ragazzo dell'Alaska. Non dimenticano e non tornano indietro. Te lo dissi anche all'epoca. Se te ne vai, se lo lasci, devi essere sicura che sia per sempre. Non tornano indietro».

Rimasi paralizzata con il cellulare all'orecchio. Percepii un'aria gelida attraversare le ossa.

«Anche tu sei dell'Alaska» le ricordai. «E mi pare che... »

«Ti pare, cosa? Non sono tornata con tuo padre, giusto?» mi fece notare.

«Questo perché papà nel frattempo ha messo incinta un'altra, però... » mi lasciai sfuggire e mi sentii subito meschina nel dirlo. «Non intendevo... », annaspai e mi morsi nervosa il labbro inferiore fino a farlo sanguinare.

«Non importa. Sono tante le cose che non sai. Se io fossi stata una di quelle che tornano indietro, ora sarei con tuo padre. Sappi questo. Sarei piena di corna, ma con lui accanto. E la ragazza incinta sarebbe una ragazza madre a quest'ora».

Ero confusa.

«Papà... »

«Lei era già all'ottavo mese di gravidanza, quando tuo padre si rifece vivo con me. Strisciando come un verme davanti alla porta di casa nostra per supplicarmi di tornare con lui»

Rimasi a bocca aperta per lo shock. «Ma io dov'ero?»

«In un campus estivo. Gli dissi che se non se ne fosse andato subito, avrei chiamato la polizia e sporto denuncia per stalking. Fece dietrofront e tornò da lei come se nulla fosse. D'altronde, da solo non sa stare»

«Per quale motivo non me l'hai mai raccontato, mamma?»

«Perché avrei dovuto farlo? Per darti altro materiale con cui alimentare il tuo rancore nei suoi confronti? Non l'ho fatto per salvaguardare lui o per non rovinare la sua immagine paterna. L'ho fatto per te».

«Sono anni che non abbiamo rapporti, lo sai bene. Non esiste un'immagine paterna da tutelare»

«Non esiste, ma non per colpa mia. Non volevo influenzare il tuo giudizio o darti ulteriori motivi per odiarlo. L'odio distrugge chi lo nutre. Volevo solo che andassi avanti: perdonandolo, accettandolo o dimenticandolo. Tutto sarebbe andato bene, piuttosto che rimanere intrappolata per sempre nel rancore»

Rimasi in silenzio, soppesando le sue parole. «Mi dispiace che hai dovuto affrontare questa situazione da sola, mamma» mormorai, alla fine.

«Ah, lascia stare. È acqua passata. E poi è stato molto soddisfacente vederlo prostrarsi ai miei piedi» aggiunse ridendo. «Piuttosto, sta attenta. Non farti del male da sola»

«Tranquilla mamma» la rassicurai. «Non succederà. Devo andare adesso, poi ti richiamo».

Volevo solo metter fine a quella telefonata. Le lacrime mi stavano già incendiando gli occhi.

«Ok, sta attenta! E salutami Ethan».

«Certo, divertiti!»

Posai il cellulare sul comodino, poi mi lasciai cadere sul letto. Le lacrime ebbero il permesso di scendere e scivolarono senza freno sul mio volto, bagnando anche il cuscino su cui avevo appoggiato la nuca. Il respiro era spezzato dai singhiozzi e il corpo scosso da leggeri sobbalzi. Lo sconforto mi avvolgeva come un manto oscuro. Mi strinsi al petto con le mani come se fossi alla ricerca disperata di trattenere un dolore acuto e persistente. In quel momento, il mondo sembrava sprofondare in un abisso di disperazione e tutto ciò che riuscivo a fare era piangere.

Non posso rimediare.

Non posso risolvere.

Non posso tornare indietro.

Non so quante ore trascorsi in quel profondo stato di prostrazione. Vidi la luce del sole dalla finestra crescere in altezza e calore, per poi declinare con passo lento fino al tramonto. Fu proprio in quel preciso istante che udii dei colpi alla porta.

«Chi è?» chiesi seccata.

«Sono Louise. Posso entrare?» la sentii appoggiarsi alla porta.

«Devi proprio?»

«Non hai mangiato niente in tutto il giorno. Vieni con noi in trattoria?»

«No, grazie».

«Emma, noi ti crediamo».

«Grazie Louise. E ringrazia anche Frank».

«Anche Ethan ti crede. Si comporta un po'... alla Ethan, ma ti crede. Mi apri un attimo?»

Sorrisi, si comporta alla Ethan.

Rendeva alla perfezione l'idea.

Mi alzai, spostai la sedia di lato e aprii la porta.

«Ma quanto hai pianto?» mi chiese stupita.

Dovevo avere un aspetto orribile.

«Quanto basta» risposi evasiva. «Cosa devi dirmi? Devi entrare a vestirti per il pranzo?»

«La cena» mi corresse. «No, vado vestita così. Volevo dirti, guardandoti negli occhi, che abbiamo deciso di rimanere. Vogliamo aiutarti a trovare questa strega. E non per le visualizzazioni» aggiunse.

Nonostante tutto, si accese in me un flebile barlume di speranza.

«Cosa avete detto a Ethan per convincerlo?» chiesi curiosa.

«Niente. Si è convinto da solo».

Rimasi stupita. Può cambiare idea? C'è una possibilità?

«Vieni a mangiare un boccone con noi, allora?» chiese ridendo della mia faccia sbalordita.

«No, grazie. Preferisco fare una doccia e pianificare le prossime mosse».

Uscii dalla mia camera dopo l'imbrunire, in quella fase magica in cui le ombre delle montagne Appalachi iniziavano a muoversi sul terreno. Attraversai il tratto del lungo portico mattonato e arrivai davanti al prefabbricato adibito al check-in. All'interno, l'atmosfera era quella tipica delle zone rurali così come l'arredo, con delle bellissime travi scure che sostenevano il soffitto a capanna. Il bancone dell'accoglienza era rustico e fatto di legno massiccio, segno dell'autenticità di quel rifugio di montagna. La signora che gestiva il piccolo Motel, una donna dalla carnagione olivastra e dai capelli grigi raccolti alla meno peggio in uno chignon, sorrideva cortese mentre parlava con un ospite. Stava mostrando la tipica calda ospitalità del Sud con i turisti che facevano i turisti e non i ficcanaso.

Ed è molto convincente, notai.

Da quando eravamo arrivati, avevo visto sempre un signore anziano seduto su una poltroncina di vimini in un angolo della stanza del Check-in. Non l'avevo mai incontrato in giro sul patio, né semplicemente in piedi e mai avevo udito la sua voce.

Se ne stava lì, con le mani raccolte in grembo e chiuse a pugno da cui spuntava il lembo di un fazzoletto bianco. Lo sguardo era mantenuto fisso su un punto indefinito del muro di fronte a sé. Come perso in chissà quale dimensione spazio-temporale.

Provai tenerezza per lui. Mi avvicinai e abbassandomi un po' per intercettare la sua attenzione, gli sussurrai: «Scusi, sta bene? Ha bisogno di qualcosa?»

Lui sollevò gli occhi spenti e mi sorrise. Un sorriso sdentato, ma pieno di dolcezza: «Cara, carissima ragazza» mormorò con voce rauca. «Tu morirai».

Mi allontanai come se mi avesse preso a schiaffi. Rimasi raggelata.

«Co... cosa?»

Il vecchio già non mi guardava più ed era tornato a fissare, con estrema attenzione, la parete bianca.

«Signorina, tutto bene?» sopraggiunse la voce della proprietaria del Motel.

«Sì... sì... ma questo signore... » balbettai confusa e scioccata.

«Oh, non faccia caso a mio padre. È alterosclerotico. Non ci sta più con la testa. Ha bisogno di qualcosa?»

«No, no, grazie» mormorai, allontanandomi.

Uscii all'aperto, cercando di respirare e recuperare un po' di autocontrollo. Mi ritrovai nella parte ampia del patio, incantevole illuminato da un falò che ardeva dentro un secchio messo quasi al centro e che attirò, come una calamita, la mia attenzione. Il fuoco sprigionava una luce dorata che proiettava fasci di luce sulle pareti esterne di legno bianco del Motel. L'atmosfera era accogliente e rassicurante.

«Ciao Emma!» fui accolta con entusiasmo.

I ragazzi si erano riuniti vicino al secchio. Louise, con il suo vestitino giallo canarino che spiccava nel crepuscolo, sorrideva radiosa mentre gestiva degli arrosticini distesi su un braciere improvvisato. Frank, con un cappello da baseball e una birra ghiacciata in mano, sembrava il più rilassato del gruppo. Ethan, invece, era concentrato nel sorseggiare la sua, con uno sguardo profondo e un'aria pensierosa.

La luce delle fiamme danzava nei loro occhi e sui loro volti.

«Cosa state combinando?» chiesi cercando di essere disinvolta.

Decisi all'istante di non raccontar loro di quell'episodio inquietante. Era inutile spaventarli per i vaneggiamenti di un anziano fuori di testa. Dopo ciò che mi aveva detto mi sentivo ancora turbata e a disagio, però.

Louise alzò lo sguardo e rispose: «Non siamo andati in trattoria, come vedi. Abbiamo deciso di farci due arrosticini e un po' di marshmallow».

Frank mi offrì un toffolette con un sorriso. «Ne vuoi?»

Declinai l'offerta con un sorriso. Poi rivolta a tutti, comunicai: «Ho preso una decisione. Vorrei andare nella zona degli abeti rossi, vicino alla fattoria dei bambini. Non dovrebbe essere troppo vicina alla zona off-limits degli spacciatori, giusto?»

Ethan finì in un sorso la birra e convenne: «In effetti, dovrebbe essere un po' più sicura. Eviteremo la zona dove sono stati i cacciatori, però».

Anche gli altri furono d'accordo.

«Mangiamo e partiamo subito, dai» suggerì Frank che già armeggiava una telecamera con le mani semi unte.

Mi sedetti accanto a Ethan perché era l'unico posto libero, lui si protese verso di me con un arrosticino in mano.

«Mordi» ordinò.

«Non ho fame, grazie».

La sua faccia si avvicinò sempre di più e d'istinto il mio sguardo cadde sulle sue labbra ben delineate e carnose. Notai che si muovevano e pronunciavano lentamente delle parole che udii lontane, quasi un sussurro soffiato con un tono di voce rallentato e profondo.

«Nooon siii caaampaaa diii sooola aaariaaa, deeeviiii maaaaungiareeee. Poooorcaaaa vaaaaccaaaa!»

Sussultai. «Come scusa?»

«Non si campa di sola aria, devi mangiare. Porca vacca» ripete lui addolcendo la voce. «A cosa stai pensando?»

«Niente» mi affrettai a rispondere, arrossendo. «Ok, un pezzetto lo mangio».

Incrociai di nuovo quegli occhi blu intenso che mi ricordava tanto il cielo dell'Alaska. Riflettei su quanto fossi andata lontano in questi anni, cercando di allontanarmi da quel colore meraviglioso. Quanta strada avevo messo tra me e quella profondità cobalto, come un naufrago in fuga dall'oceano infinito, convinta che fosse la decisione giusta per entrambi.

Sotto la pressione del suo sguardo, staccai rapida un pezzo di carne con un morso. Lui mantenne fermo lo spiedino davanti a me, dicendomi: «Prendilo, non avrai intenzione di farti imboccare?»

Caro, brusco, stronzo di un Ethan, pensai soffocando un sorriso.

«Allora, siete pronti? Preparo l'attrezzatura» esclamò Frank, alzandosi. «Cosa porto?»

«Armi» suggerì con un sorrisetto divertito Ethan:«Bazuka, bombe a mano, fucili... »

«Ethan, smettila!» lo rimbeccò Louise e lui le fece l'occhiolino.

Da quando sono diventati tutti così camerateschi?, mi interrogai con una punta di gelosia. Non li ho lasciati soli per così tanto tempo.

«Di sicuro ci serve la macchina fotografica a infrarossi o almeno la telecamera» esclamò Louise assumendo un tono autoritario. «Poi il registratore vocale... »

«A cosa può mai servirti un registratore vocale?» chiese Ethan, interrompendola.

«Possiamo registrare il fenomeno delle voci elettroniche» spiegò Frank come se parlasse di una cosa del tutto normale.

Ethan si voltò verso di me, ma io feci le spallucce distogliendo lo sguardo.

«Porta anche il k2 per rilevare eventuali campi magnetici o delle possibili variazioni elettromagnetiche degli spiriti» continuò Louise.

«Dove pensate di andare?» chiese Ethan sollevando scettico il sopracciglio.

Vidi Louise deglutire a fatica.

Maledetta anche lei sta cedendo al fascino di Ethan, questa ne è l'ennesima prova.

«So bene dove stiamo andando. Però mettiamo che la strega decida di manifestarsi, ci servono i nostri strumenti per rilevarla».

Ethan sbuffò.

«Tu cosa porti, mentre io mi carico di tutta questa roba?» le chiese seccato Frank.

«Me stessa e Ovilus» rispose pronta Louise.

«Ovi... cosa?» chiesi precedendo Ethan.

«Ovilus un dispositivo con dei sensori in grado di metterci in contatto con le entità. A seconda della lettura dei suoi sensori, pronuncia delle parole di senso compiuto» mi spiegò lei con sguardo orgoglioso.

«Tutta questa roba ipertecnologica dove diamine l'avete comprata?» chiese Ethan.

«Parecchia l'abbiamo presa su Amazon» fu la semplice risposta di Louise.

La risata di Ethan esplose all'improvviso, propagandosi nella vallata. Il suo eco ci accompagnò lungo il tragitto, fino alla zona del bosco meta della nostra esplorazione.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro