3. NUOVI DESIDERI

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Quando avevo comunicato a mia madre l'intenzione di tornare a Cooper Center, lei mi aveva informato che l'appartamento era rimasto disabitato per un po' e che prima era stato affittato per diversi mesi a due pescatori della zona.

Poco male, mi ero detta, varcando la porta d'ingresso e mollando le valigie dove capitava.

In effetti, non mi era apparso così disastroso.

Dopo le prime settimane, al caos preesistente si era aggiunto quello creato da me, che tutto ero meno che una persona ordinata.

Quel giorno, rientrata a casa la mia euforia, attivata dalla prospettiva di una cena con Ethan, ebbe una brusca battuta d'arresto.

Non era una situazione tragica, era qualcosa di molto peggio. Era impossibile trovare le parole giuste per descrivere il campo di battaglia e di devastazione in cui avevo trasformato quel grazioso appartamento.

Il mio sguardo disperato vagò dai cuscini ammassati sul divano, alle scarpe abbandonate un po' ovunque in salotto, a oggetti di cui non conoscevo l'utilità buttati alla rinfusa. Senza considerare la polvere depositata a tempo indeterminato sui mobili.

Non potevo ignorare lo stato di abbandono in cui avevo lasciato ogni stanza. Cominciai a mettere in ordine, pulire, lavare, nascondere nei cassetti, sotto il tappeto, negli armadi. Non riuscivo più a fermarmi. Dovevo assolutamente rendere quell'appartamento presentabile e con esso, anche me stessa.

Dopo diverse ore di lavoro senza sosta, mi fermai col fiato corto. Osservai di nuovo gli ambienti e ciò che vidi mi soddisfò.

Sembrava finalmente che la casa avesse riconquistato un aspetto gradevole.

Iniziai a godermi il mio momento di trionfo per un'impresa compiuta contro tutte le probabilità. E, mentre mi beavo della vista del mio nuovo regno ordinato e pulito, non potei fare a meno di pensare che, forse, tutto quello sforzo non sarebbe stato apprezzato. Avevo ancora molta paura che Ethan non si presentasse all'appuntamento. E non potevo biasimarlo. Era trascorso molto tempo, eppure non avevo la certezza che le sue ferite fossero rimarginate e che mi avesse perdonato.

Scossi la testa come se volessi allontanare una fastidiosa zanzara e con un sospiro di leggero divertimento, mi ritrovai di fronte alla cabina armadio. Ero pronta ad affrontare quella selezione caotica di abiti.

Volevo il vestito perfetto.

Con un gesto teatrale, spalancai del tutto le ante. Avevo l'entusiasmo alle stelle. Fissai con sguardo critico la varietà di tessuti e colori presenti, compresi subito che la scelta non sarebbe stata facile né indolore. Un abito a righe colorate fu il primo a cadere sul letto, seguito da un vestito nero elegante che sembrava un po' troppo formale per l'occasione. Feci una smorfia e lo gettai dietro di me. Poi venne il turno di una serie di abiti dallo stile più casual, alcuni con motivi floreali, altri con stampe audaci. Li scartai uno dopo l'altro, come se cercassi di sfidare il destino a offrirmi la soluzione perfetta.

«Fatti sotto! E questo me li chiami vestitini per far colpo? Forza, fammi vedere qualcosa di meglio!», mi misi a gridare appena ebbi raggiunto la vetta del mio personale livello di sclero.

Raccolsi da terra un abito blu elettrico che sembrava davvero promettente, ma quando lo indossai notai che il colore non mi donava come avevo sperato.

Con un sospiro di frustrazione, iniziai a tirare fuori vestiti più eleganti, augurandomi di trovarne almeno uno in grado di catturare l'atmosfera giusta per la cena. Un abito lungo color crema attirò la mia attenzione, ma quando me lo infilai, sentii che non era adatto per quell'incontro. Provai allora un vestitino rosso scuro che mi faceva apparire più sicura, forse troppo. Non volevo sembrare aggressiva. Quindi, scartai anche quello.

Arrivò il turno di un abitino corto, attillato e con un'oscena fantasia leopardata. Non avevo la minima idea di quando l'avessi acquistato e per quale assurdo motivo si trovasse nel mio armadio.

Dove pensavo di andare vestita come una panterona? mi domandai inorridita.

Mentre provavo abito dopo abito, la camera si trasformava in un caleidoscopio di tinte e stoffe. Alla fine, mi ritrovai con una montagna di vestiti scartati accanto e un senso di pressante frustrazione dentro. Sapevo che non avrei potuto passare l'intera giornata a cercare l'abito perfetto.

Sedendomi sul letto, lasciai scorrere come una carrellata il mio sguardo per la stanza e concessi a un sorriso giocoso di sfiorarmi le labbra. Stavo facendo un dramma per una semplice cena.

È con Ethan che devo vedermi, riflettei. Il mio Ethan, il ragazzo che correva giù per i pendii e si arrampicava sulle rocce...

Niente di raffinato lo avrebbe entusiasmato.

Con un movimento fluido, afferrai un vestito semplice ma grazioso che avevo indossato di recente e lo misi da parte. Dopo un attimo di esitazione, lo ripresi tra le mani.

«Va bene» esclamai a me stessa. «Non sarà il vestito dei miei sogni, ma andrà benissimo lo stesso per la cena».

Con l'indumento scelto, andai in bagno per prepararmi per la serata.

Sospirai soddisfatta e sorrisi alla me stessa riflessa nello specchio.

Il cuore batteva con ritmo martellante, ogni istante che passava sembrava un'eternità. Avevo trascorso gli ultimi minuti fissando il telefono, sperando in un messaggio o in una chiamata che annunciasse il suo arrivo.

La cucina era pronta per l'utilizzo. Avevo preparato tutti gli ingredienti e mi apprestavo a cucinare sul momento, garantendo così che il cibo si mantenesse caldo. Il tavolo era apparecchiato con cura e la luce soffusa delle candele danzava riflessa sulle pareti, creando un'atmosfera accogliente e romantica. Però, il mio entusiasmo veniva scalfito continuamente dal ticchettio del tempo che scorreva e dalle preoccupazioni che aumentavano.

Poi, all'improvviso, udii il rumore di un motore provenire dalla strada e un brivido di speranza attraversò per intero tutto il mio corpo.

Mi precipitai verso la finestra, aggrappandomi alla tenda e vidi un'auto parcheggiare sotto casa. Era lui.

L'attesa era finita.

Stava arrivando sul serio.

Un timido sorriso increspò le mie labbra e mi lasciai andare in un sospiro di gioia mista a sollievo. Lo osservai scendere dalla macchina, portando con sé una tensione palpabile. Tuttavia, ciò che più mi interessava era che fosse lì.

Mi morsi il labbro inferiore, cercando di trattenere l'emozione che mi stava travolgendo. Aprii la porta con un respiro profondo, e là, di fronte a me, comparve Ethan.

«Scusa per il ritardo», esordì con voce morbida e sincera. «C'è stato un contrattempo sul lavoro».

Indossava una t-shirt nera con, al centro, un teschio bianco che sembrava riemergere dal tessuto stesso. La maglietta era consumata con cuciture sfilacciate, immaginai quante storie di innumerevoli avventure tra le montagne avrebbe potuto raccontare se avesse avuto il dono della parola. Il suo abbigliamento si completava con un paio di pantaloni cargo militari, comodi e pratici, che mostravano segni di camminate tra sentieri e foreste. Ai piedi portava dei robusti stivali da trekking un po' logori, ma per fortuna non sporchi di fango. I suoi capelli sempre arruffati erano seminascosti da un cappello da baseball ben calato. Osservando più attentamente, notai che al collo portava una collana di pietre azzurrine, forse raccolte vicino al corso del fiume non lontano dalla baita in cui era cresciuto.

Sembrava esausto.

Tutto intorno a noi svaniva, mentre lo scrutavo. L'ansia e la paura che mi avevano tormentata durante la giornata si dissolsero all'istante, sostituite da una sensazione di completa felicità e gratitudine.

«Posso farti una domanda?» mi chiese.

«Sì, certo» risposi sorridendo.

«Hai intenzione di passare il resto della serata imbambolata a fissarmi, qua sulla porta, o mi fai accomodare?» Poi mostrandomi un sacchetto di plastica che reggeva tra le mani, aggiunse: «Magari, mettiamo anche questa crostata in frigo».

Arrossii come un pomodoro maturo, ma non mi spostai. Avevo la gola arsa e non riuscivo a parlare. Mi sentivo paralizzata.

«Vogliamo fare qualcosa di diverso dall'ipnotizzarci a vicenda, che ne dici?» mi chiese ancora divertito.

Quella domanda mi diede la scossa necessaria per spostarmi di lato e lasciarlo passare.

«Sei più rude di quanto ricordassi» commentai, recuperando la parola.

Presi la crostata e gli feci strada nel salotto allestito a sala da pranzo.

Lui non ribatté.

Lo scrutai e con un sorrisetto compiaciuto, proposi: «Facciamo un gioco. Ti cucino una pietanza a sorpresa e tu indovini qual è l'ultimo paese che ho visitato».

Ethan sembrò esitare, ma non gli permisi di rifiutare. Mi precipitai in cucina e iniziai a scaldare le padelle sui fornelli.

«Una ricettina veloce e gustosa!», urlai dall'altra stanza.

Il piatto che gli misi davanti aveva di sicuro un aspetto delizioso e il profumo di spezie non faceva altro che confermarlo. Ethan sorrise: «Cosa c'è dentro?»

«Prima assaggia. Poi ti dico tutto. Nome e ricetta compresi, se vuoi».

Appoggiò la forchetta alle labbra e sgranò gli occhi. Rimasi perplessa davanti a quella reazione inaspettata. Poi afferrò con i denti il boccone e lo assaggiò, ma riuscì a masticare solo un paio di volte. Il volto divenne subito paonazzo. Un rosso acceso tendente al violaceo alle estremità delle orecchie che presero, poi, uno strano colorito arancione nella parte alta del padiglione.

Lo vidi boccheggiare con il cibo appena masticato ancora tra i denti.

Non capivo.

Presi la mia forchetta e assaggiai. Era delizioso.

«È buonissimo. Non ti piace?» chiesi stupita.

Sembrava sul punto di strozzarsi e non riusciva a rispondere. Mi allarmai. Che fosse allergico a qualche ingrediente?

«A... acqua... acqua» riuscì a chiedere con un filo di voce.

Gli passai subito un bicchiere pieno.

Lo trangugiò a grossi sorsi con rivoli bagnati che presero a scendere copiosi lungo il mento e sulla maglietta.

«Acqua... » chiese ancora.

Il volto rimaneva color lava incandescente, ma le orecchie si stavano perlomeno uniformando.

Gli passai l'intera bottiglia e lui vi si attaccò avido.

«So dove sei stata» disse alla fine con voce roca e strozzata.

«Ah! L'hai capito?» gongolai gioiosa.

«Sei stata all'Inferno!»

«No, in Messico. E non fare queste scene drammatiche non è neanche così piccante», commentai infastidita. «Dovresti assaggiare i loro peperoncini, prima di lamentarti di questo».

«No, grazie, no» rispose recuperando piano piano l'autocontrollo e il colorito.

«Loro li prendono a morsi come si fa con le mele» raccontai ammirata.

«Mi basta questo» ribatté perentorio.

«Tieni, mangia un po' di formaggio» ordinai, spingendo con le dita il pezzetto dentro la sua bocca senza tanti complimenti. «I latticini contrastano il piccante meglio dell'acqua»

«Mi hai invitato per uccidermi?» chiese masticando.

«Non esagerare!» risposi ridendo, poi cambiai discorso «Come sta tuo padre?»

«Benissimo, direi. Tra qualche mese si sposa».

Tossii rischiando di strozzarmi con un boccone del mio Burritos.

«Non sapevo che avesse una relazione. Mia madre non mi ha raccontato nulla» commentai stupita.

«Ah, frequenta la mia futura matrigna da due anni. Tua madre sarà uno dei testimoni... ma su chi spettegolate quando siete insieme?» chiese divertito.

Risi mio malgrado.

«Ti piace?»

«Se evito la parte ultra piccante, è tutto buonissimo»

«Sto parlando della tua futura matrigna»

«Karla? Sì, è gentile e lo rende felice»

Bevvi un sorso di birra e poi confidai: «Sai, c'è stato un tempo in cui credevo che tuo padre e mia madre... »

Ethan scoppiò in una fragorosa risata, interrompendomi.

«No, no» disse continuando a ridere.

M'indispettii. «Cosa ho detto di così buffo?»

«Esistono gli amori a prima vista» spiegò fissandomi intensamente in una pausa che mi parve lunghissima, poi riprese: «Però, ci sono anche le amicizie a prima vista. Loro si sono presi bene sin da subito, ricordi?»

Annuii confermando: «Per questo, credevo che prima o poi si sarebbero... »

«No, non in quel senso», mi interruppe. «Sono sempre stati perfetti insieme, ma come confidenti, come amici fraterni. Niente di più».

«E tu come fai a saperlo?»

«Perché io faccio molto pettegolezzo con mio padre su ciò che prova e lo faccio pure con Marta» rispose ridendo.

«Tu parli con mia madre di cose così intime?» chiesi stupita.

«Tu viaggi per il mondo e io mi prendo cura dei legami con i miei cari».

Incassai la frecciata. Sapevo bene che negli ultimi anni avevo trascurato molto i rapporti familiari.

«Si vogliono tantissimo bene, credimi, ma non sono mai stati innamorati» continuò a spiegarmi dopo una breve pausa. «Se rifletto sulla possibilità di un'amicizia genuina tra persone di sesso opposto, priva di coinvolgimenti sentimentali o sessuali, mi vengono in mente subito loro due, gli inseparabili Ben e Marta. I loro nomi sono la risposta alla domanda "È possibile?". Sono la testimonianza concreta che un'amicizia autentica tra uomo e donna può esistere».

Sorrisi. «Hai detto una cosa bellissima»

«Lo penso» ribadì con un sussurro.

«E di me avete spettegolato molto?» chiesi con tono civettuolo.

«No, a dir il vero» ammise. «Non so neanche cosa fai nella vita».

Il mio orgoglio ricevette un potente calcio nel sedere e non lo gradì per niente.

«Mi sono appena iscritta all'Università di Fairbanks. Poi per approfondire i miei studi di antropologia culturale viaggio molto. Sono fortunata che posso permettermelo»

«Wow, è grandioso. Complimenti»

«Non mi sembri molto impressionato?»

«Dovrei? Per quel che ne so sei sempre stata intelligente e ambiziosa»

«Grazie. E tu?»

«Sempre il solito Ethan», rispose evasivo. Poi con un cambio repentino di discorso, chiese: «Allora, sei tornata per restare?»

«No, riparto tra un paio di giorni al massimo»

«Ah, dove vai di bello?» chiese impassibile.

Lo scrutai. Eravamo arrivati al punto cruciale presto.

Pregai che non fosse troppo presto.

«Vado sui monti Appalachi», feci una pausa per osservare la sua reazione che si limitò a un'alzata di sopracciglio. «Mi sono organizzata una spedizione per verificare degli avvistamenti strani di... di una specie di mostro mitologico» conclusi rimanendo sul vago, distogliendo lo sguardo dal suo e abbassando di due toni la voce.

Non potevo scomparire fagocitata dal tessuto della seduta, ma lo desiderai davvero molto.

Ethan spalancò la bocca senza emettere alcun suono. Istintiva come sempre, appoggiai l'indice sotto il suo mento e gliela richiusi.

Restammo un attimo così, sospesi tra un'espressione di stupore e il desiderio di metterla a tacere.

«E ci andresti da sola?» chiese tossendo imbarazzato.

«No, vengono con me due youtuber... » risposi, allontanando la mano dal suo volto.

«Cosa?» mi interruppe sbarrando gli occhi.

Ecco, ci siamo.

Mi sentivo già abbastanza a disagio senza bisogno della sua reazione eccessiva: «Frank e Louise sono due youtuber seguitissimi che fanno indagini come quella che andrò a fare io. Gli unici, tra l'altro, che hanno accettato di venire»

«E chissà perché!» commentò alzando lo sguardo al cielo.

Per favore non fare lo stronzo, lo supplicai mentalmente.

«Comunque, sono esperti di queste cose» ribattei offesa.

«Sono esperti nel girare filmati fake dove recitano scenette. Urlano al buio. Gridano di aver visto mostri inesistenti. Recitano, appunto. Ingannano i creduloni come te».

Ecco come non detto, fa pure lo stronzo. Accomodati, prego! pensai risentita.

«Sempre diretto tu, eh?» chiesi ferita.

«Sempre sincero, sì».

«Che non è la stessa cosa. Offendere ed essere sinceri non è la stessa cosa».

«Cosa vuoi? La verità o essere coccolata?»

«Li guardi questi ciarlatani, però»

«Cosa?»

«Se sai così bene cosa fanno, significa che te li guardi i loro video fake»

«Non serve guardare i loro filmati per sapere che lo sono e che i mostri sono solo frutto dell'immaginazione, Emma. Pensavo che l'avessi capito tre anni fa, quando abbiamo dimostrato, insieme, che gli orsi mannari non esistono».

Il mio pensiero corse all'indietro nel tempo, nella boscaglia, pestando le foglie e disperdendosi nella vegetazione. Spaziò tra i rumori e si perse nella macchia, incrociando di nuovo quegli occhi minacciosi nascosti tra i cespugli. Inspirai ancora l'odore penetrante del pericolo selvatico e fui abbagliata ancora dalla luce accecante...

«Non dimostrammo nulla, Ethan» dichiarai poi, catapultandomi al presente.

«Assurdo» commentò, alzandosi di scatto. «Grazie per la cena a base di lava incandescente. Buona serata e... buona caccia al mostro»

«Ethan, aspetta. Ho bisogno che tu venga con me. Te lo chiedo solo questa volta, lo giuro» lo pregai sfiorandogli la mano.

«Hai i due esperti farlocchi con te, giusto? Non sarai sola. Io non ti servo»

«Vengono solo per fare i loro video scemi...»

«Ahh, vedi che ho ragione!» esclamò trionfante, battendo il palmo della mano sul tavolo.

«Sì, ma finanziano la missione» ammisi. «Vengono per fare i loro video, ma fuggiranno, abbandonandomi lì, appena lo troveremo»

«Non troverete nessuno»

«Se incontrassimo anche solo un cacciatore psicopatico, loro si darebbero alla fuga e mi abbandonerebbero» dichiarai tutto d'un fiato. «Vieni a farti una gita spesata dai farlocchi»

«Non sono tipo da gite, mi dispiace»

«Tu non mi lasceresti sola in pericolo»

«No, mai» confermò. «Ma non posso lo stesso. E non dovresti andarci neanche tu».

«Perché non puoi? Ti prometto che sarà solo per pochi giorni»

«La mia ragazza non ne sarebbe felice e non saprei motivarle una simile stupidaggine» rispose in un modo così disinvolto che pensai di non aver capito bene.

Non l'ha detto davvero.

«Hai... hai una ragazza?» chiesi.

Un pugno dritto allo stomaco mi avrebbe fatto meno male.

Ma che diamine ho in testa? Era logico che ce l'avesse.

«Da pochi mesi» confermò, distogliendo lo sguardo dal mio. «La nipote di Annie. Te la ricordi Annie?»

«Annie?»

I neuroni si risvegliarono appena ripetei quel nome. Mi proposero l'immagine di una signora imponente, grande come una montagna, dal volto paffuto e severo. Le sinapsi collegarono questi frammenti di ricordo a un paio di occhiali così spessi da poter sostenere lenti simili a quelle di un binocolo rovesciato. Mi sorprese la chiarezza con cui ricordavo l'esatta impressione che mi aveva suscitato quando l'avevo conosciuta. Era stata il nostro primo testimone oculare, la prima persona che ci aveva dato fiducia, nonostante fossimo stati niente di più che due ragazzini impiccioni, descrivendoci l'orso mannaro, o ciò che aveva pensato di aver visto.

«La cecata!» esclamai imbambolata.

«Miope» mi corresse brusco. «Sei diventata cafona, viaggiando»

«Perdonami. Ho detto una cattiveria gratuita senza pensare. Sono mortificata, davvero» mi scusai pentita.

Voglio solo sparire ingoiata dentro le pareti di questa fottuta casa.

Voglio sprofondare, qua e adesso, nel cemento.

Maledetta me!

«Fai tante cose senza riflettere. Usa il cervello e smettila di correre dietro ai mostri. Non esistono, Emma».

Fu rapido e violento come un gancio in pieno volto.

«Non volevo offenderla, credimi. È che... che... »

«Pensi che tre anni siano pochi per dimenticarti?», chiese a bruciapelo.

L'impatto contro un iceberg sarebbe stato meno devastante rispetto a quell'unica, semplice domanda.

«No, non sono pochi» ridussi la voce a un sussurro lieve.

«Menomale, perché ti ho dimenticata prima di arrivare al terzo anno».

Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Con un nodo alla gola stretto a cappio, riuscii a chiedergli: «Per quanto tempo intendi punirmi per averti lasciato?»

«Non voglio punirti per quello».

La voce si era addolcita.

Sollevai a fatica il volto e tornai a fissarlo.

Gli occhi avevano seguito l'umore della voce e lo sguardo sembrava più morbido, mentre si posava su di me.

«Per cosa, allora?» chiesi.

«Per non averci creduto» rispose dirigendosi verso la porta.

«Eravamo così diversi ed ero solo una ragazzina... » mormorai.

Afferrò la maniglia e si voltò a guardarmi: «Credi ai mostri, ai truffatori, a chiunque ma non hai creduto in noi».

Non mi lasciò controbattere, aprì la porta e se ne andò.

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