8. INCONTRI INATTESI

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Ci ritrovammo a fine serata al Motel, seduti su un paio di panche tarlate davanti al patio che si trovava proprio di fronte alle nostre camere, poco lontano dal parcheggio.

I due youtuber si passavano una paglia e guardavano le stelle con aria sognante. Era la prima volta, dal giorno della partenza, che li vedevo senza telecamera in mano e concentrati solo sulle proprie emozioni. Anche se, comunque, poco lucidi. Ethan sorseggiava una birra, immerso nei pensieri che sembravano vagare per diverse miglia, lontani da noi. Per un attimo, mi proiettai dentro di lui e immaginai solo lei, Ava, protagonista delle sue riflessioni. Una morsa di gelosia mi attanagliò lo stomaco, contorcendolo.

«Andiamo?» sentii Louise suggerire a Frank, alzandosi.

«Già a letto?», chiesi.

Mi imbarazzava rimanere sola con Ethan.

«No, ma dobbiamo montare i filmati che abbiamo fatto oggi. Così domani possiamo inserire una storia sul nostro profilo Instagram» mi rispose lei.

«Metterò anche un video su TikTok», le fece eco il ragazzo entusiasta.

«Oh» mi limitai a commentare, mentre li osservavo allontanarsi.

Ethan non si era neanche voltato verso di loro.

«Domattina andiamo a perlustrare la zona in cui sono stati adescati i bambini» annunciai spaccando in due il silenzio che ci avvolgeva.

«Mmm».

«Ho parlato con la signora che gestisce il negozietto all'angolo e mi ha detto che è meglio che non andiamo a parlare con quei due cacciatori. Sono sempre ubriachi e poco gentili con gli stranieri».

«Mmm» ripeté senza degnarmi di uno sguardo.

«Magari, potremo parlare con questi due ragazzini per farci descrivere la signora anziana».

«Mmm».

«Ethan, quando smetterai di muggire?» chiesi infastidita.

«Finita la birra» rispose, bevve il restante del contenuto della bottiglia in un solo sorso e aggiunse: «Ora vado a mungermi e poi a dormire. Buonanotte, Emma».

Si allontanò lasciandomi sola, mentre il cielo si stendeva sopra di me come un tappeto sfavillante di bellissime stelle.

Rimasi ancora una ventina di minuti persa tra quei puntini luminosi poi, alla fine, mi decisi a entrare nella mia modesta camera. La luce fioca del lampadario gettava un'ombra tranquilla su ogni angolo, rendendo tutto familiare e rassicurante. Con un sospiro di sollievo, iniziai a liberare i bottoni della camicia dagli occhielli e a sfilarla via. Era troppo aderente e mi ero sentita stretta in una morsa d'acciaio per tutta la giornata. I pantaloni seguirono la sua stessa fine, cadendo sul pavimento con un lieve fruscio. Senza esitare, afferrai una canotta e un paio di pantaloncini leggeri, creandomi sul momento una sorta di pigiama estivo.

Mi lasciai scivolare tra le lenzuola fresche e pulite del letto che accarezzarono subito la mia pelle, donandole una sensazione di benessere. Lentamente, la stanchezza cominciò a farsi sentire e le palpebre si fecero pesanti. Spensi la luce, immergendo la stanza nell'oscurità, pronta a lasciarmi trasportare nel mondo dei sogni.

Tuttavia, dopo poco, alcuni rumori leggeri e indistinti, come sussurri sfuggiti all'oscurità, iniziarono a distogliermi dal torpore. Mi irrigidii e i sensi entrarono subito in stato d'allerta, mentre il cuore batteva con prepotenza nel petto. La paura iniziò a serpeggiare sinuosa nelle vene, formando un groviglio di ansie oscure. Un'ombra di incertezza si materializzò nella stanza, proiettando un dubbio sinistro sulla mia sicurezza. Il terrore mi paralizzò, ma poi l'istinto di sopravvivenza prese in mano la situazione. Mi alzai di scatto dal letto, afferrando la prima cosa che trovai a portata di mano, un cuscino. Con un movimento rapido e determinato, lo sbattei nel buio fendendo l'aria alla cieca, con tutta la forza e la violenza che possedevo dentro di me. Poi cercai di essere più precisa, puntando verso la figura scura che intravedevo grazie al riflesso della luce artificiale dei lampioni che faceva capolino tra le tende della finestra.

Un urlo stridulo squarciò l'aria, facendo eco ai miei colpi aggressivi. Un suono familiare, eppure inaspettato. Un grido di puro terrore. Balzai avanti e mi decisi ad accendere la luce con gesti affrettati e tremanti. E lì, tra i cuscini scossi e l'agitazione, vidi Louise.

Nell'incrocio dei nostri sguardi, traspariva tutto lo spavento e la confusione che permeavano quella scena surreale.

«Che diamine ci fai in camera mia?», urlai.

Louise sembrava altrettanto sgomenta, il volto pallido risplendeva come una super luna in una notte senza stelle.

«Ci dormo in camera tua» rispose, la voce era tremante.

La mia rabbia iniziale si trasformò in un misto di confusione e un briciolo di comprensione.

«Ma non dormi con Frank?» chiesi ancora, cercando di decifrare la situazione.

Louise scrollò le spalle. «Ma no! Non siamo fidanzati. Siamo solo amici e collaboratori» spiegò, poi aggiunse frettolosa: «Ok, una volta c'è stato qualcosa. Ma parecchio tempo fa».

«Quantifica parecchio tempo fa» sollecitai incuriosita.

«Tipo...», la vidi riflettere con il tipico sguardo rivolto in alto verso sinistra e l'espressione della fronte corrucciata. «Forse, quindici giorni fa».

Parecchio tempo, mi ripetei mentalmente.

«E quanto è durato questo "qualcosa" finito quindici giorni fa?» chiesi ancora.

«Tipo... quindici giorni. Una cosa breve».

«Vai di quindici in quindici» commentai con un sorriso.

Oh Dio! Il sarcasmo di Ethan è contagioso!

Ci fissammo per qualche secondo in silenzio, poi scoppiammo in una fragorosa risata. Mi accasciai sul letto con il guanciale ormai abbandonato tra le mani.

«Mio Dio! Sono troppo tesa» esclamai, sorridendo al pensiero delle cuscinate violente che le avevo inferto.

«Paura che la missione fallisca?»

«Mah, non so. Potrei anche avere paura che la missione abbia successo» risposi seria, avvertendo uno strano senso di inquietudine alla bocca dello stomaco.

«In che senso?»

«Niente di importante» risposi, spostando l'attenzione su un altro argomento. «Immagino che dovremo dividerci il lettone, allora».

Louise annuì, un piccolo sorriso. «Sembra proprio di sì».

Tra risate nervose, cercammo di adattarci alla nuova realtà più intima.

Non avrei mai creduto di poter trovare Louise simpatica, pensai lasciandomi avvolgere dall'abbraccio di Morfeo.


Il giorno seguente restammo nei paraggi a poltrire e decidemmo di raggiungere l'abitazione dei piccoli testimoni solo nel primo pomeriggio.

Dopo la colazione alla caffetteria, decisi di lasciarmi indietro Frank, perso nei suoi filmati sui locali della zona, e mi avviai verso il Motel. Quando arrivai davanti alla mia camera, infilai la chiave nella serratura e mi accorsi, solo in quel momento, che la porta era stata lasciata socchiusa. Entrai circospetta. La luce soffusa della lampada del comodino creava un'atmosfera intima nella stanza. Il mio sguardo cadde subito sul letto dove trovai Ethan, sdraiato in posizione supina. Indossava solo i jeans, la schiena era esposta all'aria.

Louise gli era seduta a cavalcioni, le sue mani abili si muovevano con grazia accarezzando la pelle nuda di Ethan. Era così intenta a massaggiarlo, con un'espressione rapita dipinta sul viso, che non si accorse subito del mio arrivo. I suoi movimenti erano fluidi e rilassanti, sembrava completamente incantata.

Rimasi pietrificata.

«Ma cosa... diavolo... » mormorai.

«Ha tutti i muscoli contratti» m'informò Louise, come se la frase da sola potesse bastarmi.

Ogni quindici giorni, riflettei frenetica, Sono passati quindici giorni?

Non riuscivo a pensare ad altro.

«Mi stai stirando i muscoli come se spremessi un grosso foruncolo» si lamentò Ethan.

«Allora, sta facendo la cosa giusta» commentai istintiva, ricordandomi come lo avevo definito il giorno prima.

«Prova a farti fare un massaggio anche te, piccola piaga d'Egitto» mi apostrofò lui.

«Non ci penso neanche. Comunque, sono cose che si fanno ogni quindici giorni e solo a quelli di sesso maschile» risposi, più acida di quanto avessi desiderato essere.

Ethan mi rivolse uno sguardo interrogativo. Louise mi fissò stupita per qualche istante, poi scrollò le spalle e tornò a concentrarsi sulla schiena.

Feci dietrofront come un soldato.

Incazzato, per giunta.

Marciai nei pressi del parcheggio dove raggiunsi Frank. Il resto della mattinata passò in un modo così noioso che soffermarmi a osservare le lucertole intente a prendere il sole su un muretto, fu la cosa più esaltante che feci. Frank addirittura le riprese con la telecamera, ma non mise il filmato sul suo canale Youtube. Non senza l'approvazione di Louise. E dovette aspettare un bel po' prima di averla perché la ragazza si impegnò davvero molto per ammorbidire i muscoli della schiena di Ethan. Quando ci raggiunse, notai che era stanca e la odiai subito.

«Hai già dimenticato la fidanzatina, eh?» osservai pungente, affiancandomi a Ethan.

Era comparso poco dopo l'arrivo di Louise e, tutto rilassato, si stava gustando una sweet rolls alla crema.

«Di cosa stai parlando, adesso?» chiese colto di sorpresa.

«Ohhh, te lo ricordi almeno il suo nome? Mia, Lara... Evangeline?»

«La mia ragazza si chiama Ava» disse, fissandomi con sguardo duro. «L'ho appena sentita al telefono. Sta bene, grazie».

Tentai di ignorare il cuore dolente nel sentirlo pronunciare "la mia ragazza" e domandai acida: «Le hai raccontato del massaggino alla schiena?»

«Certo, le ho passato direttamente Louise. Così le ha spiegato come si fa» rispose senza distogliere lo sguardo dal mio.

Restammo in silenzio, a fissarci con aria di sfida come se fossimo sul punto di prenderci a pugni senza esclusione di colpi proibiti.

«Di sicuro Ava si ricorderà ciò che le ho spiegato, però, stavo pensando di fare un video dimostrativo e di metterlo sul mio profilo TikTok. Così potrà rivederlo quando vuole. E, magari, consigliarlo alle sue amiche. Che ne dici, Ethan?» chiese Louise, ignorando la tensione che c'era tra noi.

Anzi, non la percepì proprio.

«Ottimo» rispose Ethan senza distogliere la sua attenzione da me.

Non fu facile mantenere lo sguardo incollato al suo. Quei maledetti occhi azzurri mi stavano uccidendo.

«Usa Emma come cavia per il video del massaggio» aggiunse poi, ammiccando divertito.

«No» dissi secca.

«Sì» ribatte lui autoritario.

«No» ripetei io.

«Andiamo a pranzo!» gridò Frank spazientito.

Era già salito in auto e Louise lo stava imitando.

Mollammo la presa.


Quando parcheggiammo nel luogo dell'appuntamento, il sole era alto all'orizzonte e gettava una luce calda e dorata sulla piccola fattoria. L'aria era impregnata del profumo della terra appena coltivata e il canto di qualche uccello svolazzava nell'aria. Con la pancia piena di un pranzo anche troppo corposo, ci eravamo riuniti davanti a una vecchia abitazione in legno con le telecamere ben posizionate e pronte a catturare ogni dettaglio. Il vento leggero faceva dondolare le foglie degli alberi circostanti, l'atmosfera era carica di aspettativa, ma anche di una palpabile tensione.

In lontananza, sbucarono i due bambini che si avvicinarono con passi incerti, tenendosi stretti l'uno all'altro come se cercassero conforto reciproco. Le telecamere sembravano spaventarli ancora di più, le loro espressioni erano un misto di timidezza e timore. Era evidente che non erano abituati a trovarsi al centro dell'attenzione in quel modo.

«Ma dovete per forza riprenderli?», chiese Ethan infastidito.

«Eh sì» rispose Frank come se fosse la cosa più ovvia al mondo.

La madre dei bambini si trovava accanto a loro, cercava di incoraggiarli con un sorriso gentile e parole rassicuranti. Si vedeva che era preoccupata, ma, allo stesso tempo, determinata a far sì che raccontassero la loro esperienza.

I piccoli si tennero stretti alla madre, mentre Frank e Louise si decisero finalmente a schermare un po' le telecamere in segno di rispetto. Così si creò un'atmosfera meno intimidatoria. Quel tanto che bastava, però, a continuare le registrazioni. Rimasi in disparte con Ethan, lasciando la parola a Louise che con voce dolce poneva le domande.

La madre si inginocchiò davanti ai figli, stringendo le loro mani nelle sue. Con tono calmo e gentile, li sollecitò a raccontare tutto ciò che avevano vissuto. Entrambi i fratellini abbassarono gli occhi, fissando con insistenza il terreno e le punte delle proprie scarpe, poi la sorellina più grande prese fiato e cominciò a parlare.

«Eravamo fuori a giocare, vicino al recinto delle mucche» cominciò, la voce tremava appena. «Poi abbiamo sentito un fischio. Era di una signora, tipo una nonnina, che ci chiamava da dietro il recinto»

La madre le fece cenno di proseguire e anche il ragazzino prese parola: «La signora aveva vestiti vecchi, ma sembrava elegante. Ci chiamava. Diceva bambini, bambini!»

«Era insistente» lo interruppe la sorella. «Voleva che la raggiungessimo».

Si scambiarono uno sguardo, come se stessero cercando il coraggio l'uno nell'altra. «Ma non la conoscevamo» proseguì la maggiore, la sua voce si fece ancora più flebile. «E poi... aveva uno sguardo strano. Faceva paura».

«Avete fatto benissimo a non andarci» li rassicurò Ethan con un sorriso.

Lo osservai piegarsi di fronte a loro, sussurrando frasi che solo i piccoli potevano captare. La loro reazione divertita, mi scaldò il cuore. Era la prima volta che vedevo Ethan interagire così da vicino con dei bambini e rimasi molto colpita dalla sua dolcezza nel rapportarsi con quei ragazzini.

«Eravamo spaventati» sussurrò il più piccolo con voce appena udibile, rivolto a Ethan come se stesse condividendo un segreto. «Così siamo scappati. Siamo corsi via dal recinto e siamo tornati a casa».

La madre li abbracciò con dolcezza, cercando di confortarli mentre raccontavano la loro esperienza.

«Avete detto della signora a papà?» chiesi.

Conoscevo già la risposta, ma speravo che rivivendo ancora la scena attraverso il racconto avrebbero ricordato qualche informazione in più.

«Sì, ma quando siamo riusciti fuori con lui, la signora non c'era più» confermò la bambina. «Le mucche erano un po' agitate».

«Ah sì?» chiese Ethan.

«Ooh sì, molto» confermò il più piccolo.

Mentre la nostra attenzione era concentrata sul racconto dei bambini, l'atmosfera era carica di emozioni contrastanti: preoccupazione per il pericolo a cui erano andati incontro, curiosità per la storia che stavano narrando e la sensazione di essere davvero di fronte a qualcosa di inquietante.

Dopo aver detto tutto ciò che sapevano, i due ragazzini sembrarono sollevati, come se si fossero tolti un peso che li aveva afflitti per troppo tempo. La madre li avvicinò a sé protettiva, poi li guidò lontano dalla telecamera e dalla nostra attenzione.

Si capiva che quella non era una storia inventata. Le reazioni emotive espresse dai loro volti erano sincere. I due fratellini avevano vissuto un esperienza traumatica, qualcosa che li aveva davvero intimoriti. Non sapevamo, però, capire se era stata una presenza soprannaturale o una donna reale in carne e ossa. Niente nel loro racconto poteva orientarci in un senso o nell'altro.

Risalimmo in silenzio sul pick up.

«Dove andiamo adesso?» chiese Ethan mettendosi al volante.

«Al Motel», risposi. «Ci diamo una rinfrescata e ci organizziamo per perlustrare la zona del bosco dove dovrebbe essere sparita la signora anziana».

«Non è un pochino vasto come territorio?» chiese Ethan con un filo del suo consueto humour, neanche troppo velato, nel tono della voce.

«Magari ci possiamo dividere in due gruppetti» proposi.

Notai, sbirciando dallo specchietto retrovisore, che Frank e Louise erano entusiasti dalla mia idea.

Ethan arricciò il naso in un modo che trovai subito adorabile, anche se era palese che non concordava con me.

Mentre percorrevamo la strada, vidi più volte che Ethan arricciava il naso.

Guardava lo specchietto retrovisore e arricciava.

Specchietto e arriccio.

«Cosa succede?» mi decisi a chiedergli.

«Qualcuno ci sta seguendo» fu la laconica risposta.

Il sole splendeva all'orizzonte, il cielo era di un azzurro intenso, senza nubi a oscurarlo. L'atmosfera serena e la strada di campagna tranquilla. Tutto venne spazzato via da quella semplice frase. Mi voltai dietro e adocchiai subito un altro pick-up nero che si avvicinava alle nostre spalle.

Sentii un'ondata di panico salirmi alla gola, mentre il fuoristrada nero si avvicinava sempre di più, mantenendo un ritmo sostenuto. Le nostre voci si fecero nervose e un senso di inquietudine cominciò a diffondersi nell'abitacolo.

Il veicolo ci seguiva con determinazione. Le sue intenzioni erano poco chiare, ma di sicuro minacciose. Ethan continuava a mantenersi calmo con la presa salda sul volante.

«Metti la telecamera bassa, Frank. Cerca di riprendere la targa senza dare nell'occhio» ordinò.

Il clima nell'abitacolo divenne ancora più concitato, mentre Frank cercava di accontentare la richiesta di Ethan senza attirare l'attenzione dell'auto dietro di noi. I vetri oscurati del pick-up nero facevano sorgere dubbi e speculazioni.

Cosa vogliono da noi? Perché ci stanno seguendo?

L'auto accelerò, sorpassandoci con una velocità impressionante. Il suono del motore rimbombò nelle nostre orecchie, mentre ci sfrecciava accanto.

Forse, ci siamo sbagliati. Forse, non ci stanno seguendo. Forse...

Non ebbi il tempo di concludere le mie ipotesi che all'improvviso il veicolo dei presunti inseguitori tagliò in modo avventato la nostra corsia, con il chiaro intento di buttarci fuori strada.

Il cuore era un metronomo impazzito che scandiva il tempo della mia paura, mentre Ethan stringeva il volante con forza mantenendo il controllo del veicolo. I pneumatici scricchiolavano sull'asfalto e il nostro pick-up oscillava pericolosamente. Le ruote dell'altra auto si contorsero, dando vita a una lotta di volontà e abilità tra i conducenti dei due mezzi. Con un'ultima spinta, Ethan riuscì a ristabilire il controllo della nostra automobile, evitando di finire fuori strada. Percepii la sincronicità dei battiti risuonare furiosi nei nostri toraci, mentre l'aria era densa del nostro respiro affannato. Gli occhiali di Frank scivolarono sul poggiapiedi e il loro proprietario tirò un bestemmione. Mi lasciai condizionare dalla sua rabbia che presto sostituì la paura anche dentro di me.

«Questo cazzo di pirata merdoso!», esplosi, mentre fissavo con astio l'auto nera che si allontanava.

La tensione si dissolse con lentezza disarmante, lasciando spazio a un senso di trionfo e sollievo.

«Se volevano darci una bella scossa di adrenalina, ci sono riusciti» commentò Frank, dopo aver recuperato i suoi occhiali ed esserseli riposizionati sul naso.

Ethan annuì, gli occhi fissi sulla strada davanti a noi. «Dobbiamo capire chi sono e cosa vogliono. Sembra proprio che abbiamo appena pestato i calli a qualcuno».

«Siamo solo stati in giro per fattorie a chiedere informazioni su una leggenda locale», osservai.

«Emma ovunque vai, fai sentire sempre la tua presenza» commentò Ethan con un sorrisetto di derisione.

«Non dirai che è colpa mia!» esclamai indignata.

«L'hai detto tu».

Il sole riverberava una scintillante ondata di calore, avvolgendo il nostro pick-up che procedeva spedito sulla strada.

«Hai ripreso tutto?» udii Louise chiedere a Frank.

«Sì, sì, tranquilla. Stasera montiamo il video e lo carichiamo su Youtube».

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