Dodici.

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Capitolo revisionato.

Un piccolo sussulto mi riporta bruscamente alla vita reale, distanziandomi dal sogno - che provo in tutti i modi a ricordare, invano. Inizio dunque ad avvertire i primi respiri di una giornata che si prospetta soleggiata, visto il raggio di luce che mi sta riscaldando il polpaccio. «Mhm» -mi lamento, abbracciando il cuscino e tornando a respirare rumorosamente, nel vano tentativo di riaddormentarmi. I vari, soliti rumori che accompagnano il mio risveglio cominciano ad alzare il loro volume, segno che, di riaddormentarmi, non se ne parla proprio. Inizio a sentire il clacson delle macchine nel traffico, le onde del mare, gli schiamazzi dei bambini sulla spiaggia, il bagnino fin troppo esaltato che incita i bagnanti a partecipare al gioco apertivo.

Sollevo leggermente le palpebre, richiudendole poi di prepotenza.

Mi alzo di scatto, correndo in modo scomposto verso il piccolo armadio della stanza e rischiando pericolosamente di cadere e sbattere la testa. Gira tutto, quasi vedo oscurato, ma tento in ogni modo di aprire il cassetto e prendere le prime cose che i miei occhi, ancora appiccicati, riescono ad identificare come vestiti. «Merda.» -sibilo, quando non riesco a centrare subito l'ingresso della mia gamba nei pantaloncini. Piego il busto e, col naso, faccio pressione sul tasto centrale del telefono, constatando che sono le dieci e mezza. «Cristo.» -impreco, maledicendomi per aver passato la serata precedente nel cazzeggio e nella sbornia totale.

Primo risveglio traumatico, primo giorno della settimana, primo ritardo allo Shine: Jessica mi ammazzerà; me la immagino bene, nei panni di Ursula, pronta a trasformarmi in misera schiuma di mare.

Corro al bagno, intanto che infilo una maglia afferrata a caso, per un attimo rischio anche di fare testa e anta. Senza nemmeno accendere la luce - tanto, il sole coi suoi raggi illumina lo specchio - faccio scorrere l'acqua, applico sul palmo un po' di bagnoschiuma a zucchero filato - quello a mela verde ha fatto una brutta fine -, sciacquo rapidamente il viso e asciugo veloce e neanche tanto bene con il telo agganciato alla parete. «Devo muovermi, devo muovermi, devo muovermi» -blatero, mentre il mio stomaco protesta richiedendo nutrimento. Ovviamente, non ho il tempo di mangiare, pochi secondi mi sono concessi per respirare.

«Perla, ma, cazzo, perché non mi hai svegliata?» - strillo, mentre mi siedo all'angolo della vasca da bagno e afferro le Superga bianche. Sbuffo, pensando che, dannazione, è vero che viviamo insieme da poco, ma lo sa che vado a lavoro alle otto, e, anche se stamattina la mia responsabilità è risultata pari a zero, avrebbe potuto svegliarmi.

Non ricevendo risposta, suppongo che stia ancora dormendo. Storco la bocca, avvertendo un pauroso ed insopportabile odore proveniente dalla mia pelle. Puzzo di acqua salata. «Che schifo.».

Afferro le chiavi ad il telefono e mi precipito giù per le scale; quando l'eco del tonfo della porta che ho sbattuto cessa di propagarsi nell'aria, io sono già arrivata al piano terra. Inizio a ricordare frammenti della serata precedente e, davvero, non so se ridere o piangere. Non che sia stato tanto spassoso sguazzare ubriache nel mare, alle tre di notte, ma erano anni che non facevo una sola, misera cazzata.

Percorro i pochi metri di vialetto, che affianca il mio palazzo, e faccio ingresso sul lungomare, correndo disperatamente dietro il pullman, che è appena passato. Quando l'autista frena, entro nel mezzo con il respiro affannoso. Se il buongiorno si vede dal mattino...

Mi accascio, stanca morta, ad un sediolino grigio accanto alla finestra, di fronte c'è una giovane donna con un bambino accoccolato fra le braccia. Quest'ultimo si muove freneticamente, avrà si e no due anni. Una tutina estiva di Topolino e ricci capelli castano chiaro avvolgono il suo piccolo corpo. Si volge a guardarmi e mi tocca il braccio in modo fastidioso. Dopo alcuni attimi di indifferenza, cedo a quel tenero ed innocente sorriso, facendolo comparire sul mio volto. Di scatto si gira a guardare la madre. «Mami come sei bella.» - sussurra, con voce angelica, accarezzando la guancia della donna, che gli sorride di rimando.

Sospiro, i pensieri tristi prendono il sopravvento. Io, invece, non ho mai avuto il piacere di ammirare il sorriso della donna che mi ha messa al mondo. Sospiro, di nuovo.

Sono stata adottata da suor Lorena quando avevo pochissime ore di vita, e dei miei genitori non so praticamente nulla. Ho vissuto fino all'anno scorso all'Addolorata, il loro convento, poi, non appena ho compiuto la maggiore età, non ci ho pensato due volte ad affittare il monolocale dal signor Sedita. Non ero a conoscenza del motivo preciso, ma sapevo che avrei dovuto affrontare un periodo di riconciliazione con me stessa, in cui avrei deciso cosa fare della mia vita. Comunque, non ho sofferto molto di questa mancanza, devo ammetterlo; o, almeno, non consciamente... credo. Per quanto possa sembrare orribile dire una cosa del genere, non può mancarti qualcuno che non hai mai conosciuto, dunque non posso sentire la mancanza dei miei genitori.

Ricordo ancora quel giorno di metà settembre quando, finalmente, smisi di andare alle scuole private gestite dalle suore; Lorena mi lasciò frequentare una scuola pubblica, e cioè il liceo classico Giulio Cesare. Avevo imparato più di tutti ad affrontare la vita, da sola, ma anche ad apprezzare le cose più piccole. Sebbene fossi nata povera e in solitudine, alla fine mi sono rivelata la ragazza più astuta ed intelligente. Non che i voti scolastici giudichino il modo di vivere, ma il percorso della scuola è formativo in tutto e per tutto, perché si incontrano persone di carattere diverso, ed è un po' come conoscere una versione mini del mondo esterno, della vita reale.

Io e Perla ci eravamo conosciute, sorridendoci l'un l'altra, quando fummo le uniche ad alzare la mano alla domanda "Chi è uscito con sei all'esame di terza?". La maggior parte di coloro che si vantavano di esser usciti con i nove ed i dieci, quell'anno furono bocciati, mentre noi fummo promosse a pieni voti.

Quando il pullman accosta alla mia fermata, comincia la sfrenata corsa per lo Shine. Attimi dopo entro nel bar a testa bassa. «Scusa, scusa, scusa.» - farnetico, senza aver il coraggio di guardarla negli occhi, passando dietro il bancone.

«Sei fortunata, Alisya.» - attira la mia attenzione, con il tono freddo e duro - «Oggi non ci sono molti clienti.» - continua, costringendomi a sollevare lo sguardo; ha le labbra chiuse in una dura linea, gli angoli della bocca piegati verso il basso e gli occhi quasi di fuoco. Mi sento terribilmente in colpa. Avrebbe fatto meglio a buttarmi fuori a calci.

«Che non si ripeta mai più, sono stata chiara?».

Sbuffo, annuendo. «Scusami.».

_

Essendo arrivata tardi, un po' per accattivarmela, un po' per sensi di colpa, sono rimasta fino all'una a pulire e a mettere in ordine; sto per mettere piede fuori lo Shine, ma Jessica mi richiama. «Ah, Alisya?» - subito, come un soldatino, mi precipito all'interno del bar. «C'era un ragazzo che ti cercava stamattina.» - mi informa, quando i nostri sguardi si incrociano di nuovo.

Per un attimo la mia mente si annebbia, ed io aggrotto la fronte. «Che?» - esclamo, mentre mille pensieri occupano la mia testa.

Scrolla le spalle, indifferente. «Gli ho detto che probabilmente ti saresti assentata oggi, erano le dieci e non ti vedevo arrivare.» - mi dà la tragica notizia, ed io per un attimo ho come l'impressione di aver perso l'occasione del secolo, con chi non lo so - «Comunque, mi ha lasciato un numero di telefono.» - aggiunge, tranquilla, porgendomi un fogliettino che aveva accostato alla cassa.

Spalanco gli occhi, questo numero l'ho già visto. Lo afferro, senza proferire parola, ma non può davvero essere ciò che penso. «Chi era? Te l'ha detto? Ma come era fatto!?» - esclamo, con fin troppa agitazione.

Travolta dalle domande, un cipiglio sulla fronte. «Alisya, che ne so io?» -sbotta, agitando una mano- «Posso solo dirti che era un bel ragazzo.»

Eh, grazie, molto utile..., penso, fra me e me. Decido di non chiederle nient'altro. Che faccio ora? Giro e rigiro fra le mani il bigliettino, con le cifre sospette. E se mi stesse prendendo in giro perché sono arrivata tardi? Sollevo un sopracciglio, fissandola guardinga.

«Alisya.» -mi richiama, ancora- «Dovrei bastonarti perché sei arrivata tardi stamattina, ma non avrei motivo di mentirti su una cosa del genere. Esci da qui e va' a chiamarlo!».

Il cuore prende a battermi all'impazzata, la sua esortazione mi dà grande forza. «Grazie, Jessica.» - mormoro di sfuggita, mentre corro fuori dal bar.

Prima che possa cambiare idea, compongo il numero, con mano tremante. Touché, è proprio il suo. Corrisponde al numero con cui mi aveva inviato il messaggio sabato sera.

Primo squillo. Primo respiro ansioso. Secondo squillo. Piego e stendo le gambe velocemente. Terzo squillo. Comincio a sbuffare. «Alisya!» - mi risponde una voce calda ed affettuosa, mentre io sono sull'orlo di una crisi di pianto.

Trattengo il fiato, nascondendo il labbro superiore sotto quello inferiore. «Ciao, Michelangelo» - rispondo con educazione, ma l'elettricità che ho nel petto sono certa gli sia arrivata.

«Dove sei?!» - domanda, fin troppo allegro per i miei gusti. Okay che ti ho richiamata io, ma calmati, bello.

Mi schiarisco la voce. «Fuori lo Shine, appena uscita.» -rispondo, presa comunque dall'eccitazione. Vorrei saltellare allegramente e sfoggiare tutte le acrobazie che meglio mi riescono, ma non mi sembra il caso. Non vorrei mi vedesse con l'osso del collo spezzato.

«Tra due minuti arrivo. Resta lì.» - attacca, senza darmi nemmeno il tempo di rispondere. Aggrotto le sopracciglia e spalanco la bocca, inebetita Ripongo il telefono in tasca, restando a labbra schiuse. Oh mio Dio, sto per vederlo. Credevo che non l'avrei mai più rivisto, e invece adesso sta per accadere. Sta per tornare da te!, urla eccitata la mia vocina, scuotendomi ripetutamente e festeggiando con calici di champagne. Abbasso Marta, viva Alisya!

Poggio la schiena al muro, cercando di respirare regolarmente. «Oh cazzo» - sibilo, correndo di nuovo nello Shine. «Devo andare in bagno» - avviso di sfuggita Jessica, che sistema delle carte sul bancone.

Entro nel piccolo spazio, ma fornito per fortuna di un sapone decente, e non di quelli scadenti degli altri bar. Ridacchio nervosamente per quello che sto facendo: ripongo una grossa quantità di sapone nei palmi, sfrego velocemente sulle braccia e anche sotto l'ascella, sul collo, sul viso, anche se, ahimè, non dev'essere molto igienico. Sciacquo con una grossa quantità d'acqua e asciugo con miliardi di fazzoletti di carta. Sospiro, annusandomi, nel constatare che la puzza, almeno in quella zona, è sparita.

Fuoriesco dal bagno con un'aria molto più spensierata e, quando mi annuso le mani, Jessica comprende e scoppia a ridere. Esco e riconosco la sua macchina grigia; lo intravedo, concentrato a parcheggiare e a fare delle manovre.

Mi avvicino, timorosa. E' successo tutto così velocemente ed inaspettatamente, che non ho davvero idea di cosa dire. Santo cielo, qualcuno mi aiuti, questa situazione è così imbarazzante.

Apre la portiera ed esce dalla macchina, ci gira attorno; più si avvicina, più il mio cuore implora di uscire dalla cassa toracica. Quasi mi stupisco della delusione che provo, quando si ferma ad un metro da me.

Fisso il mio sguardo nel suo e capisco solo ora quanto mi sia mancato, l'emozione che provo in questo momento supera il disagio ed il malessere che ho provato sabato sera, e anche ieri mattina al supermercato, quando l'ho visto con Marta. Degli strani animaletti soggiornano nel mio stomaco. Forse draghi.

Michelangelo sorride, ed io faccio lo stesso. Si avvicina, esitante, ed io mando all'aria il mio progetto inconscio di fare la preziosa, e mi scaravento fra le sue braccia, senza ritegno. Avvolgo le mani dietro la sua nuca e sfioro col naso il suo collo; Michelangelo circonda i miei fianchi con le sue forti braccia. «Mi sei mancata.» - sussurra, senza celare l'esitazione e l'imbarazzo che prova nel dirlo.

Ed è in questo momento che capisco quanto si sia pentito di tutto ciò che ha fatto. Suvvia, ho bisogno di sentirglielo dire? Non ci vuole un genio per arrivarci. Mi distanzio di poco e sollevo il viso, per guardarlo negli occhi. «Credevo che...» comincio, ma sono interrotta dall'andamento inafferrabile della sua testa, che si muove a destra e a sinistra, invitandomi al silenzio. In un'altra situazione mi sarei indispettita, perché, sinceramente, col cavolo che mi zittisce. Però... forse, ha ragione: questo è un momento magico, e le parole potrebbero solo rovinarlo.

Non ci abbracciamo nuovamente ma, anzi, continuiamo a fissarci. Mi perdo nell'azzurro dei suoi occhi, ma non come si è solito dire; mica mi perdo nel mare che ha dietro le palpebre? Sono smarrita negli infiniti sentimenti che i suoi occhi mi comunicano, lo sguardo è indescrivibile, parla chiaro, mi sta dicendo che sono l'unica in grado di curarlo sulla terra, da cosa non lo so, ma è certo che anche io provo lo stesso per lui. Mi stringe, nuovamente, circondandomi le spalle con le braccia e lasciandomi un bacio sulla guancia. Sospiro, adagiandomi al suo petto, desiderando restare così per ore ed ore.

«Dove vuoi andare, bambolina?» - chiede con gentilezza, accarezzandomi una guancia. Con l'altra mano, mi cinge il polso delicatamente, intrecciando poi le nostre dita. Con gran stupore, non mi infastidisce, anzi; sono proprio io a serbare il nostro contatto.

Decido di rispondergli con sincerità. «A casa, ti prego. Ho bisogno di una doccia.» - mi lamento, facendo aria con l'altra mano. E ho bisogno anche di tranquillità, se proprio vogliamo parlare. Bisogna discutere di tante cose e metterle in chiaro. Necessito di un luogo in cui sia a mio agio; soprattutto, ho bisogno di cibo.

«Va bene, andiamo allora.»

Si distanzia, per raggiungere la sua portiera, ed entriamo in macchina. Mette in moto e, prima di immettersi sulla corsia, mi rivolge un ultimo sguardo felice. Con tutti questi sorrisi, mi sta trasmettendo davvero tanta serenità, ed è una bella sensazione.

«Non mi dire che hai già mangiato!» - esclamo, celando una chiara richiesta di pranzare insieme.

Scuote la testa. «Non ho ancora pranzato.» - risponde, scrollando le spalle.

«Mh, va bene...» - mormoro, incerta, sperando che Perla l'aspiratutto abbia lasciato qualcosa da mangiare in casa.

«Sai, ieri è tornata mia sorella da Napoli.» comincia, per mettere su un discorso.

Non sapevo avesse una sorella; ma, più in generale, non so quasi niente di lui. «E' più grande di te?» - domando, educata, cercando di immaginarla. Chissà se si somigliano.

Annuisce. «Ha quasi ventisette anni, e un bambino di uno. Mi assomiglia tantissimo.» - sorride, fiero, con aria modesta.

«Ah, ah!» -ridacchio, schernendolo. «Quindi qui abbiamo un vecchio zio!» - aggiungo, continuando a punzecchiarlo.

«Vecchio ma attivo, bambolina.» - risponde, voltandosi per fare un veloce occhiolino.

E ti pareva. Alzo gli occhi al cielo. «Sei davvero un idiota.» - ribatto, mentre lui resta in silenzio; decido quindi di fare lo stesso, ancora un po' stordita dal brusco risveglio.

_

«Scusa, devo fare una doccia.» - lo avviso, quando siamo entrati in casa. «Ci metto dieci minuti, se vuoi inizia a mangiare qualcosa, dopo cucino io.» - aggiungo, parlando a raffica e chiudendo la porta del bagno alle mie spalle, senza dargli motivo di ribattere. Spero con tutto il cuore che non ci sia troppo disordine in giro, ma, dopotutto, non avrei mai immaginato che ci saremmo rivisti, addirittura che sarebbe entrato in casa.

Mi spoglio rapidamente, e getto i panni sudati nella cesta. Faccio scorrere l'acqua nella doccia, aspettando che diventi tiepida, e mi specchio, osservando sconvolta la mia espressione pallida e per nulla gradevole.

Storco la bocca e lego i capelli in uno chignon disordinato; anche se mi ci vorrebbe un bel bagno rilassante, per quanto sono stressata, decido di fare una rapida doccia, perché ci metterei troppo tempo e sarebbe scortese fallo aspettare.

Dopo dieci minuti, quindi, strofino col telo energicamente, annusando il profumo di zucchero filato che si è diramato nella stanza. Sono davvero felice che stamattina si sia presentato allo Shine. Ma ho comunque paura, devo ammetterlo. Da un lato, mi rincuora che mi abbia cercata; dall'altro, però, nella mia testa rimbomba ancora l'eco del suo "E' lei che amo". Finirò per impazzire con quel ragazzo, ormai è chiaro.

Abilmente esco dalla vasca, e mi avvicino all'armadietto, ma quando constato che la sua superficie è priva di abiti puliti, mi ricordo di non averli presi dalla mia stanza quando sono entrata. «Che sfigata» - mormoro, mentre penso a cosa diamine fare.

La soluzione che trovo è quella più adatta, ma anche la più imbarazzante. Apro l'anta dell'armadietto e afferro un telo pulito, che avvolgo dal mio petto fino alle ginocchia. Senza un minimo di pudore, apro la porta del bagno, uscendone.

Con la coda dell'occhio scruto il salone, appurando che lui è ancora sul divano, assorto nel suo telefono. Ma, quando il suo sguardo incrocia la mia figura, io strabuzzo gli occhi e scappo nella mia camera. Mi ha vista, penso, senza proferir il minimo respiro.

Mentre frugo nell'armadio, alla ricerca di una comoda tuta da infilare per stare in casa, avverto i suoi passi fare eco nel corridoio e, dopo un secondo, appare sulla soglia.

Alzo gli occhi al cielo. «Ti pareva.» - sussurro, esasperata, rafforzando la presa dell'asciugamano, ma una piccola parte di me trova questa situazione super super eccitante.

«Svergognata, vestiti!» - esclama, con tono drammatico e l'espressione di disgusto.

«Se te ne vai lo faccio, grazie!» - ribatto, con un sorriso acido, mentre in realtà vorrei semplicemente slacciare il telo e fare uno spettacolo degno di una velina di Striscia la Notizia.

«Posso vestirti io, dato che non ne sei capace.» - mi provoca, appoggiandosi all'anta della porta e incrociando le braccia al petto.

Ti prego, va' via, è già abbastanza difficile così. «Cretino.» - mormoro, afferrando un pantaloncino e una canotta pratici.

Resta in silenzio, guardandomi ancora con un sorriso beffardo, mentre attraverso la stanza per tornare in bagno. «Al massimo ti lascio svestirmi.» - sussurro, quando gli sono vicina, senza guardarlo negli occhi.

Quando entro nel bagno e chiudo la porta a chiave, quasi soffoco una risata, immaginando la sua reazione. Sistemo i capelli; sarebbe ridicolo scioglierli in casa, quindi li lego ordinatamente. Finalmente mi vesto e, a mio agio, faccio il mio ingresso nel salone, dove lo trovo nuovamente sul divano, assorto nel telefono. Quando mi vede, lo infila in tasca e mi sorride. «Vieni qui, Ali.» - mi invita, battendo la mano sul posto accanto a sé.

Alzo un sopracciglio, divertita.«Stai invitando la padrona di casa a sedersi sul proprio divano?».

Mi guarda, esasperato e divertito nello stesso momento. «Non ce la fai proprio a star zitta, una volta ogni tanto?» - ribatte, prendendomi in giro.

Scuoto la testa. «Assolutamente no.» - dichiaro, prendendo posto a gambe incrociate, al suo fianco. Ho fame, ma se vuole mettere subito in chiaro la nostra situazione un po' confusa, non mi resta che assecondarlo.

«Devo spiegarti alcune cose, Alisya.».

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