Capitolo 3

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Natalie






La prima cosa che mi salta all'occhio entrando a Baltimora è quanto sia pulsante e caotica questa città. Sento lo stomaco sottosopra, un sacco di emozioni contrastanti mi attraversano.

Se da un lato sono elettrizzata per la novità, dall'altro mi sento in colpa per aver lasciato Woodstock e tutto quello che mi teneva, in un certo senso, legata a mia madre.

Ora che ci penso, sono veramente sorpresa di aver affrontato quasi nove ore di viaggio con mister simpatia, senza avere avuto una crisi di nervi.

Ormai è tardo pomeriggio e fa abbastanza caldo. Stiamo passando in prossimità del porto e abbasso il finestrino respirando a pieni polmoni l'aria fresca a causa del movimento dell'auto. Sento la salsedine solleticarmi le narici. Che sensazione piacevole, non sono abituata all'aria di mare.

Forse, tutto sommato, questo posto non è così male come pensavo.

Dopo qualche minuto di viaggio entriamo nel parcheggio di un complesso condominiale alto all'incirca trenta piani, al 414 di Water Street. Questo sì che è un grande cambiamento!

Scendiamo dall'auto senza dire una parola, apro il bagagliaio per cominciare a scaricare qualcosa e gli sento dire con noncuranza: «Tranquilla, Natalie, incaricherò qualcuno di portare i bagagli al nostro appartamento, prendi solo lo stretto necessario.»

«Ma non voglio che qualcuno faccia fatica al posto mio, posso portare benissimo le mie cose da sola.» rispondo infastidita.

«Smetti di fare la bambina. Quel qualcuno è pagato per farlo, si chiama lavoro, Natalie.» dice chiudendo il discorso senza possibilità di replica.

Mi carico con più valigie possibile, lottando con tutta me stessa contro il desiderio di rispondergli a tono. Ecco il solito Richard: crede che tutto si possa risolvere con i soldi. Cosa interessa a lui di fare sgobbare qualcun altro al nostro posto? Lui paga, ordina, e gli altri ubbidiscono. Dio quanto è spocchioso quest'uomo.

Saliamo su un ascensore che ci porta alla hall del complesso, da lì ne prendiamo un altro, diretti al ventottesimo piano. Durante la salita l'aria si può tagliare con il coltello per quanta tensione c'è.

Non posso fare a meno di scrutare di sottecchi l'uomo per cui provo tanto astio. Il suo volto è rilassato e le labbra sono incurvate in un mezzo sorriso mentre mi osserva carica di bagagli.

Mi fa imbestialire il fatto che trovi la cosa così divertente.

Quando si aprono le porte dell'ascensore mi trovo davanti a un lungo corridoio coperto nella sua interezza da un tappeto rosso.

Richard si dirige verso la porta di fronte a noi, con un mazzo di chiavi in mano. Quest'ultima è in legno scuro e ha dei numeri dorati impressi sopra.

Dopo aver aperto annuncia: «Questa è la nostra nuova casa. Fai pure un giro, nel corridoio a destra troverai la tua stanza. Cerca di ambientarti, fatti pure una doccia, troverai già tutto quello che occorre. Se hai fame il frigo è ben rifornito, io devo andare in ospedale per firmare delle carte. Per favore, cerca di non combinare guai o metterci in ridicolo come sei solita fare, io cercherò di tornare il prima possibile.»

Penso che i miei occhi siano già molto eloquenti, se lo sguardo potesse incenerire, il corpo di mio padre sarebbe già sparso per tutto quel grazioso tappeto.

«Cavolo, Richard, hai proprio scombinato i miei piani! E io che in tua assenza pensavo di fare una mega festa, invitando i peggiori personaggi di Baltimora!» rispondo in tono sarcastico incrociando le braccia.

Lui sembra ignorarmi, come è solito fare quando cerco di infastidirlo.

Entro e mentre lui sta per chiudere la porta dietro di me lo sento dire: «Vedi di trovarti qualcosa da fare, invece che punzecchiarmi. Se vuoi un consiglio ci sono molti buoni college in questa zona, soprattutto la Johns Hopkins.» Poi sbatte la porta dietro di sé.

Ed ecco che il genio del male ha lanciato la sua frecciatina. Ora capisco il suo piano diabolico. Mi ha portata fino a qui con l'intento di farmi frequentare il suo stesso college, magari pure la sua stessa facoltà. Posso sembrare una pazza paranoica, ma lui non lascia mai nulla al caso e credo proprio di averci azzeccato.

Ma se pensa questo ha fatto male i suoi conti. Per ora la mia priorità è trovare un lavoro, rendermi indipendente economicamente, e poi valutare i college che mi offre questa città.

Osservo quella che è la mia nuova dimora e non posso fare a meno di considerarla asettica: è arredata con mobili moderni e contiene solamente lo stretto necessario per viverci. Intravedo un corridoio, mi ci fiondo per raggiungere la mia stanza e posare i bagagli. Apro la porta a destra e trovo un arredamento sempre essenziale: un letto ad una piazza e mezza con un comodino a lato, una scrivania e un ampio armadio. Però noto con piacere che ho un bagno tutto per me, con una bella vasca. Non vedo l'ora di farmi un bagno rilassante.

Guardo le pareti azzurrine della camera e noto l'impensabile: uno dei quadri della mamma mi si para davanti agli occhi.

Ritrae un paradisiaco prato fiorito, con tanto di api e farfalle. È così ricco di dettagli, ogni volta che lo osservo ne scopro di nuovi. Come si può non sorridere guardandolo?

Mi pare impossibile che mio padre abbia fatto un gesto del genere. Dopo la morte di mamma aveva tolto dalla casa ogni cosa che potesse ricordarla, come volesse cancellare la sua esistenza.

Però, così facendo, ha solo alimentato il mio grande senso di abbandono e l'astio nei suoi confronti. Mi lasciava sola per giorni in quella casa ormai semivuota, ad affrontare in silenzio la perdita di tutto ciò che era importante nella mia vita.

Una lacrima solitaria scivola sul mio volto. Cerco di scacciare i brutti pensieri tirando fuori le cose dalla prima valigia, tra cui anche il mio adorato album da disegno. Chissà, magari un giorno riuscirò a tornare a disegnare.

Metto sotto carica il telefono e decido di fare un bagno veloce, anche se poi così tanto veloce non è, penso di essere stata a mollo un'ora.

Con i capelli ancora bagnati, indosso l'intimo e la prima maglietta oversize che mi capita tra le mani. Mi butto sul letto, giusto il tempo di rilassarmi un attimo, e lo trovo particolarmente comodo, così mi getto tra le braccia di Morfeo.

***


Cammino per le strade di Baltimora e sento una strana sensazione di inquietudine che mi attanaglia lo stomaco.

Dopo un po' che passeggio mi rendo conto di non sapere dove mi trovo. Provo a chiedere informazioni ad un signore elegante in giacca e cravatta. Mi paro davanti a lui mentre cammina.

«Scusi signore.»

L'uomo mi ignora completamente e continua a camminare, venendomi incontro. Sembra non vedermi. Provo a sventolare la mano davanti al suo viso, ma la sua testa la attraversa. Tutto il suo corpo passa attraverso di me gelandomi il sangue.

Corro, concitata provo a fermare altri passanti, ma succede sempre la stessa cosa. Tento e ritento imperterrita senza fermarmi, ma è tutto inutile.

Vengo assalita da un'enorme senso di angoscia che attanaglia le mie viscere. Non riesco ad avere controllo sulle mie emozioni e non capisco il perché. Presa dalla frustrazione provo a urlare, ma nessuno sembra accorgersene.

Mi inginocchio a terra col terrore che mi scuote le viscere. Non sento nulla, non sento il freddo del suolo così come il calore dei tiepidi raggi del sole.

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