Capitolo 0. In cinque anni (1)

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2 gennaio 2076

Dennis sapeva che non si sarebbe mai abituato a quel posto.

Come marine era pronto ad affrontare molte cose, ma non era semplice allenare una persona alla vita nel pieno deserto. Sarebbe stato complicato in condizioni normali, figurarsi poi in quella situazione: gli sembrava di essere finito in un film di fantascienza vintage.

Se non fosse stato per le temperature, per Dennis e per i suoi compagni non ci sarebbe stata differenza tra giorno e notte: la luce del portale era così intensa che illuminava a distanza di chilometri. Sul campo, malgrado si trovasse a debita distanza dalla misteriosa apertura metafisica, splendeva in continuazione un minuscolo sole; per fortuna erano abbastanza distanti perché il calore emanato si disperdesse prima di arrivare a loro, ma in quel senso ci pensava il clima rigido del Sahara a rendere la vita un vero inferno.

Le uniformi, progettate appositamente per fronteggiare le ripide escursioni termiche, donavano ben poco sollievo durante il giorno, quando la temperatura era così alta che Dennis temeva che l'elmetto avrebbe preso fuoco prima della fine del turno. Nelle ore più calde gli sembrava quasi di sentire il cervello sfrigolare all'interno della scatola cranica, come un uovo al tegamino dimenticato sul fornello.

Di notte, soprattutto in inverno, si congelava, tanto da far rimpiangere quei momenti torridi che, solo poche ore prima, i valorosi marines della brigata avevano maledetto con così tanta convinzione. Montare la guardia durante quelle ore era una tortura silenziosa, uno stillicidio della propria sanità mentale che fluiva via dal cervello insieme a ciò che rimaneva del calore corporeo, disperdendosi tra la polvere e la sabbia di quel luogo dimenticato da Dio, o da qualsiasi altra divinità gli altri si fossero portati da oltre quel varco.

Le giornate parevano tutte uguali, tanto che Dennis non sapeva più dire da quanto tempo si trovassero in missione. La sveglia all'alba, calcolata da un orologio satellitare connesso al chip d'identificazione militare, l'ordine del giorno, la ronda intorno alla loro area, la ricognizione pomeridiana per verificare che i cinesi non provassero a fare nulla di stupido, la cena, la turnazione di guardia. Tutto sotto l'attento sguardo del portale, distante ma vicino; silenzioso ma fragoroso nella sua imponenza.

Quando aveva guardato il telegiornale, quel giorno di giugno di ormai un anno prima, era crollato sulla poltrona e aveva creduto di essere morto; doveva essere morto, non c'era altra spiegazione logica a quello che stava vedendo accadere su quello schermo. Nel mondo reale non potevano esistere portali verso altre realtà, creature mitologiche, elfi, magia e divinità che abitavano altri reami dell'esistenza.

Ma non era morto: le immagini che gli scorrevano dinanzi quel giorno, abbandonato sulla poltrona nel salotto di casa, erano il preludio del cambiamento, il terrificante mutamento della vita e della realtà quotidiana. Molti pensavano che il mondo sarebbe finito con un'esplosione nucleare, o con un virus che avrebbe spazzato via l'umanità e trasformato la Terra in un brullo deserto silenzioso. Il mondo, invece, sarebbe finito così: con delle aperture verso altri mondi, con una migrazione di massa di popoli e razze diverse e con la rottura dell'equilibrio.

Perché, per Dennis era ovvio, l'equilibrio non sarebbe potuto durare ancora a lungo. Quanto poteva andare avanti quella situazione ridicola? Militari cinesi, russi e americani abbarbicati intorno ai portali che si guardavano in cagnesco ogni giorno, ciascuno aspettando che il nemico trovasse il coraggio di fare la prima mossa. Era sicuro che i loro governanti non stessero aspettando altro che un errore, una fatalità, il classico pretesto da addurre come scusa per concludere quella ridicola guerra fredda e dare il via al conflitto aperto.

«Den, che cazzo hai?»

Per Dennis fu come svegliarsi da un sogno a occhi aperti. Era caduto così in profondità nei meandri dei suoi pensieri che non si era neanche accorto dell'avviso che gli lampeggiava davanti, sulle lenti della visiera protettiva.

Sbatté le palpebre un paio di volte e scrollò le spalle, battendo un buffetto sulla spalla di Roger.

«Scusami, questo freddo mi ha congelato il cervello,» disse, sistemandosi sul sedile della Jeep da ricognizione.

Roger era al volante e lo guardava fisso, le iridi acquamarina velate di preoccupazione erano ben visibili persino attraverso l'elmetto militare chiuso che gli proteggeva il volto.

«Hai sentito cosa ti ho detto?» chiese Roger, scandendo le sillabe.

Dennis sbuffò e si voltò a guardare fuori dal finestrino. Come se ci fosse qualcosa d'interessante da vedere: sabbia bianca, polvere brulla, un infinito spazio lattescente che sembrava condurre lì, nel punto dove l'immenso portale congiungeva il cielo con il suolo.

Fino a qualche mese prima quell'affare sputava fuori mostri e esseri di altre razze, e il loro compito lì, almeno all'inizio, era quello di radunare i profughi e dare loro assistenza. Nessuno dei nuovi arrivati parlava l'inglese (o qualsiasi altra lingua conosciuta sulla Terra), ma qualche settimana dopo l'apertura dei portali erano intervenuti i maghi ad aiutare i militari con la comunicazione.

I maghi. Solo pensarlo gli sembrava un'assurdità.

«No, Roger. Non ho sentito, scusami.»

Roger sbuffò e appoggiò i palmi guantati sul volante.

«Scusa tanto se ho provato a chiacchierare,» fece, esibendo un evidente tono polemico. «Rimaniamo nel silenzio completo per la prossima ora che ci rimane.»

Dennis roteò gli occhi. Avrebbe potuto sopportare qualsiasi cosa se avesse avuto Charlie accanto, ma il suo amico era stato inviato in Cina e, poteva giurarlo, se la passava molto meglio di lui, in quel buco di sabbia del cazzo. Le ronde notturne con Roger erano la cosa peggiore della missione: il compagno d'armi era antipatico, borioso, suscettibile e presuntuoso. Nessuno, nella brigata, lo sopportava e Dennis giurava che fosse per una sorta di dispetto del fato che Roger capitasse come compagno sempre a lui.

«Roger, senti,» esordì Dennis, voltandosi a cercare il viso del camerata. «Ero sovrappensiero, si gela e oggi sono... sono un po' giù, va bene? Non sono in forma, non sono in forma nella testa. È questo... questo posto di merda: ti fa uscire pazzo.»

Roger rimase muto per qualche istante, poi annuì.

«Non è facile, è vero,» rispose, a mezza voce. «Non è facile per un cazzo.»

Cadde di nuovo un silenzio teso, ma questa volta Dennis si guardò bene dall'affondare tra ricordi e pensieri cupi. Rimase ad ascoltare il duetto dei loro due respiri sincronizzati, unico alito di vita nel raggio di chilometri.

«Pensi che arriverà ancora qualcuno?» chiese Roger, all'improvviso.

Dennis scosse la testa.

«Non si vede anima viva da ottobre,» commentò, socchiudendo gli le palpebre per spostare lo sguardo sui contorni incandescenti del portale. «Qualsiasi cosa ci sia dall'altra parte, non è rimasto nessuno.»

«Parlavano di un pianeta in via d'estinzione,» mormorò Roger, fissando un punto indistinto oltre il parabrezza. «I loro maghi hanno aperto quei passaggi per salvare ciò che rimaneva della vita del loro mondo. Ti rendi conto, Den? Esistono miliardi di galassie e miliardi di mondi, eppure il caso ha voluto che finissero proprio qui.»

«Pensa un po' che culo,» mugugnò Dennis.

Roger esplose in una grassa risata e Dennis finì per farsi contagiare.

«Credi che finiremo anche noi come loro, prima o poi?» chiese Roger, dopo aver preso una lunga boccata d'aria.

«No,» rispose Dennis, fermo. «Noi no. Io e te moriremo ben prima. Non faremo in tempo a vedere elfi, nani e orchi andare a comprare il tacchino per la festa del ringraziamento.»

Cambiò posizione sul sedile scomodo della Jeep e allungò le gambe.

«Io e te non ce ne andremo vivi da questo buco di culo,» continuò, alzando la visiera e togliendosi l'elmetto tattico. Faceva un freddo assurdo, ma aveva iniziato a sudare e sentiva il bisogno di prendere aria.

«Stai esagerando, Den,» lo rimproverò il compagno, con voce roca. «Dobbiamo soltanto aspettare che la situazione si stabilizzi; ci rimanderanno a casa prestissimo, vedrai!»

Per la prima volta da quando lo conosceva, Roger non sembrava molto convinto di quello che stava dicendo.

«La situazione non si stabilizzerà, tutti vogliono quell'affare!» sbottò Roger, indicando rabbioso la colonna di luce bianca accecante che illuminava il loro piccolo mondo. «Non ci manderanno a casa finché il presidente del cazzo non avrà cacciato via tutti gli altri cani che si contendono l'osso. Pensi che sia così stupido da lasciare il controllo del portale alla Cina? Gli stiamo alitando sul collo perfino a casa loro! La Russia ha già-»

«Che cos'è quell'affare?»

Roger lo interruppe e lo strano timbro urgente che gli vibrava in gola convinse Dennis a interrompere quello sfogo e voltarsi verso la porzione di deserto che il suo compare stava indicando.

Qualcosa si stava muovendo a est rispetto alla loro posizione, e si faceva sempre più vicino.

«È una macchina?» chiese Dennis, assottigliando gli occhi. «Nessun civile può avvicinarsi al portale e di là...»

«Di là ci sono i cinesi,» ringhiò Roger.

Con il cuore che iniziava a galoppare frenetico, Dennis si infilò l'elmetto e abbassò la visiera. Roger accese la Jeep premendo il tasto d'accensione sul quadro con mano tremante e pestò sull'acceleratore. Gli pneumatici grattarono la sabbia e il mezzo scattò senza indugio verso est, iniziando a sfrecciare in direzione della sagoma che si faceva via via sempre più definita.

Era niente più che un piccolo veicolo da trasporto della Repubblica Militare Cinese: sfrecciava al massimo della velocità nel il deserto, smuovendo una nuvola di polvere che lo seguiva come un turbinante mantello.

«Che cazzo stanno facendo?» sibilò Roger.

Era terrorizzato.

«Se vanno avanti sconfineranno nel nostro territorio,» commentò Dennis.

Sarebbe stato un disastro. Lo stato maggiore non avrebbe accettato un'invasione del genere, avrebbero risposto a tono e... sì, un vero disastro.

«Prova a entrare in contatto, abbiamo le loro frequenze!» urlò Roger.

Dennis si sporse indietro e armeggiò sul ripiano piazzato nella parte retrostante della Jeep; aveva usato quella radio migliaia di volte, poteva ripetere a memoria ogni codice o frequenza militare di ogni paese, ma in quel momento fu come se il cervello gli si fosse liquefatto. Riuscì a mettere a fuoco l'ampio schermo lucido soltanto dopo aver preso due interminabili respiri, poi inizio a battere sulla superficie touch e connesse il dispositivo alla frequenza utilizzata dai militari cinesi. La radio si collegò al suo dispositivo di comunicazione personale qualche secondo più tardi.

«Attenzione, state sconfinando in una zona sottoposta alla giurisdizione militare degli Stati Uniti D'America.»

Dennis scandì le parole e parlò il più lento possibile; fu un'impresa sovrumana mantenere la calma quando avrebbe voluto solo urlare insulti, girare l'auto e scappare indietro al campo base.

Nessuno rispose all'avviso. Il veicolo corazzato cinese si stava facendo sempre più vicino, tanto da poter distinguere alcune sagome oltre il parabrezza opacizzato.

«Porca puttana,» sibilò Dennis.

Cambiò frequenza e ripeté le medesime parole, ma non gli rispose che il rombare del motore lanciato in corsa.

«Si sono fermati!» urlò Roger, all'improvviso. «Cazzo, sì! Si sono fermati!»

Rallentò l'andatura, ma continuò a far procedere la Jeep verso il mezzo di trasporto della nazione opposta che si era fermato dopo una brusca virata. Soltanto qualche centinaio di metri separava i due veicoli ormai.

«Ma che stanno facendo?» sussurrò Dennis, guardando fisso la portiera del mezzo di trasporto cinese che si apriva, slittando di lato.

Ne emerse la sagoma umana di un militare, vestito di nero e con il volto coperto da un passamontagna; reggeva in mano un lungo fucile argentato, dalla canna squadrata e lucida, ma fu la luminosa batteria rossa incassata sul calcio scuro ad attirare l'attenzione di Dennis.

«Cazzo, armi termiche!» urlò.

Roger strinse le mani sul volante e sterzò a fondo, lanciando una bestemmia. Calcò sull'acceleratore per imprimere fretta alla loro Jeep, ma era ormai troppo tardi.

Prima venne il bagliore rossastro, poi la scintilla scarlatta sul cofano della loro auto; un sibilo acuto e continuo precedette l'esplosione del motore.

La Jeep si ribaltò su sé stessa, e Dennis si sentì sballottare a destra e a sinistra.

Quando riaprì gli occhi non sentiva più il braccio sinistro e la prima immagina che lo accolse fu la sua gamba destra piegata innaturalmente di lato all'altezza del ginocchio. Non si trovava più a bordo della Jeep di servizio ed era coricato con la schiena appoggiata a qualcosa di duro e caldo. Un crepitare sinistro proveniva da un punto imprecisato alle sue spalle e il tanfo di bruciato gli procurò un conato; fece appena in tempo ad alzare la visiera crepata e malfunzionante e piegarsi di lato prima di vomitare un fiotto di sangue e bile.

Riprese fiato, singhiozzando isterico, e alzò lo sguardo.

Davanti a lui c'erano due uomini. Indossavano la divisa dei militari della Repubblica Popolare Cinese, ma il volto di entrambi era coperto da un elmetto nero integrale. Neanche un millimetro di pelle era visibile sotto l'uniforme scura.

Quello che aveva sparato reggeva ancora il fucile termico tra le mani.

Dennis maledisse la noncuranza dei suoi superiori che lo avevano mandato in quella missioni di ronda notturna. "Portate l'essenziale, niente armi pesanti; siamo qui per controllare che tutto rimanga così, non per ammazzare cinesi e russi". Sì, un paio di palle. Alla fine le armi pesanti le avevano portate quei bastardi comunisti.

Con la vista annebbiata, il marine spostò l'unica mano che sentiva ancora attaccata al corpo verso la cintura e raggiunse la fondina, dove le dita si serrarono sul calcio tiepido della pistola d'ordinanza. Sarebbe morto con le armi in pugno, non avrebbe mai dato la soddisfazione a quei mangiariso del cazzo di vederlo supplicare per avere salva la vita.

I due cinesi lo guardarono estrarre a fatica l'arma e provare a stendere il braccio verso l'alto, ma le forze abbandonarono Dennis a metà del movimento e la mano gli ricadde in grembo.

Il soldato armato puntò il fucile e, riflesso nella canna lucida, c'era lui, l'origine dei suoi guai: il maledetto portale. Uno di quei tre merdosissimi portali che avevano distrutto l'equilibrio della vita sulla Terra. Ce l'aveva fatta, alla fine: si era preso gli ultimi mesi di Dennis, si era preso la sua speranza, la sua sanità mentale e, infine, persino la sua vita.

«Spero proprio che vi piacciano le radiazioni, pezzi di merda,» sputò Dennis, fissando con odio il punto dell'elmetto dietro al quale erano nascosti gli occhi a mandorla del suo assassino.

Non lo consolava la consapevolezza che lui e Roger sarebbero stati vendicati.

No, non lo consolava sapere che quei due stronzi avevano appena dato inizio a una guerra, e non ci voleva un genio per capire che quello rischiava di essere l'ultimo conflitto che la Terra avrebbe visto.

Quando la batteria del fucile termico tornò a ronzare e il bagliore scarlatto gli riempì la vista, Dennis pensò che avrebbe dovuto raccogliere il suggerimento della mamma e aprire una macelleria ad Harlem per vivere una noiosa e lunga vita.

Gli sarebbe piaciuto davvero un sacco vendere un tacchino a un elfo, il giorno della festa del ringraziamento.

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