Capitolo 26 - Nel nome di Deladan

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Tutto si sarebbe aspettato dalla vita, meno che diventare il lacchè personale della presidentessa degli Stati Uniti.

Darren sospirò scrutando oltre le tende della finestra fino alla strada sottostante. I politici non gli erano mai piaciuti: erano tutti farabutti che si nascondevano dietro una maschera per nascondere le loro vere intenzioni e per quanto affascinante e brava potesse sembrare Amanda Lawson, sempre una politica rimaneva.

Una politica affascinante e testarda, come una versione di Theresa ma con più autorevolezza e arroganza.

Non gli aveva neanche permesso di rimanere nella stessa stanza con lei e l'aveva gentilmente invitato ad accomodarsi nell'altra camera. Non si rendeva proprio conto della situazione di merda in cui si trovava.

Il mezzelfo era seduto su una sedia davanti alla finestra in completo silenzio: se ci fosse stato un movimento strano nella stanza oltre la parete lui l'avrebbe sentito e sarebbe corso a controllare, fregandosene della privacy della presidentessa. La privacy personale era un concetto ormai superato, visto chi li stava inseguendo.

Qualcuno bussò alla porta della camera e il cacciatore di taglie sobbalzò, la mano già pronta ad afferrare uno dei suoi coltelli.

Aveva i nervi a fior di pelle e dormiva male da tantissime notti; se non si fosse dato una calmata avrebbe ammazzato la prima persona che gli avrebbe starnutito troppo vicino.

Si mosse con passo leggero e smosse la porta per aprire soltanto un sottile spiraglio: Amanda Lawson era in piedi nel corridoio, vestita con un paio di pantaloni comodi da viaggio e una camicia bianca che le aderiva fin troppo bene al corpo snello e alle forme ben proporzionate. Cazzo, stava fissando le tette alla presidentessa degli Stati Uniti; era fuori di cervello?

«Posso entrare?» chiese.

Aveva abbandonato quell'espressione regale che si portava appresso quando era insieme agli altri e sembrava nervosa; gli occhi erano lucidi e riflettevano la luce della lampada che pendeva del soffitto.

Se era venuta lì per cercare una qualche forma di conforto aveva toppato di brutto. Darren non era dell'umore giusto per consolare nessuno e riusciva soltanto a pensare a Elizabeth City e al quel mostro che era a un dito di distanza dal trucidare la sua famiglia per intero.

Se prima pensa che avrebbero potuto cavarsela aiutando Amanda a tornarsene a Washington, dopo il giorno della commemorazione aveva iniziato a comprendere il gran cazzo di casino in cui era finito. Stavano parlando di demoni, cazzo! Non di qualche orco o di qualche mostro squamato con il muso da lucertola che attaccava una carovana di commercianti itineranti. Un fottuto demone uscito da chissà quale inferno!

Il cacciatore di taglie si limitò ad annuire e lasciò che la porta girasse sui cardini, Amanda varcò la soglia con un semplice cenno e si fermò al centro della stanza, guardandosi intorno con falsa curiosità, come se quel nuovo ambiente fosse diverso dalla camera in cui si era insediata poco prima.

«Che c'è?» domandò il mezzelfo, chiudendo la porta e appoggiandosi con la schiena al legno lucido.

«Sei così gentile con tutte le donne che ti entrano in camera?»

Lei si girò e gli rivolse un sorriso affabile.

Ecco l'esperta politica che veniva fuori. Peccato che lui non fosse un'idiota: non sarebbe mai bastato un sorriso e un paio di occhi umidi per fargli cambiare idea su di lei.

«Hai bisogno di qualcosa?» incalzò, modulando il tono di voce più cortese che conoscesse. «Perché non mi sembrava che avessi bisogno di me poco fa, quando mi hai buttato fuori da camera tua per rimanere da sola.»

Lei sbuffò e si sedette sul bordo del più vicino dei tre letti singoli.

«Scusami, va bene?» disse, fissandolo con quegli occhi così pieni di sentimento.

Erano sempre freddi e asciutti, di solito; faceva strano vederla così.

«Avevo bisogno di stare sola qualche minuto,» continuò, abbassando il mento per studiarsi i palmi delle mani appoggiate sulle gambe. «Lo sai che non sono mai stata sola da quando mi sono risvegliata nel nascondiglio di Annabelle?»

Lui annuì e addolcì il viso. L'aveva forse giudicata un po' troppo rapidamente? Non si era mai fermato a pensare a quanto potesse essere stato difficile per lei: svegliarsi di botto in un luogo sconosciuto, venire a sapere tutto quello che era successo, doversi affidare a degli sconosciuti. Era una politica, ma era pur sempre umana.

«Hai ragione, non ci avevo pensato,» ammise il mezzelfo, alzando le sopracciglia e grattandosi la barbetta ispida di qualche giorno che non era riuscito a radersi durante il viaggio.

«Volevo soltanto dirti che sono riconoscente per quello che state facendo per me,» continuò Amanda, schiarendosi la gola. «Dubito che altre persone nella vostra situazione avrebbero intrapreso questa strada al mio fianco.»

Darren scrollò le spalle.

«Secondo Jacob sono un furfante, un poco di buono che vive al confine tra la legge e la criminalità e che specula per vivere su delle mancanze di gestione interne. Ecco, forse sull'ultimo punto sono anche d'accordo, ma non mi sono mai considerato un uomo senza morale.»

Si staccò dalla porta e raggiunse la sedia accanto alla finestra.

«Quello che ti hanno fatto e che stanno facendo anche ora è sbagliato,» proseguì, sedendosi. «Theresa lo fa perché pensa di poter cambiare il mondo, io lo faccio perché quando ho adottato quei due orfani ho deciso che li avrei educati secondo un'idea precisa: che bene e male non esistono, ma che giusto e sbagliato invece sì.»

Lei annuì lentamente, poi sorrise ancora. Quel maledetto sorriso di chi sa di poter manipolare le persone.

«Ti ringrazio per quello che tu e la tua famiglia state facendo. Quando avremo sistemato questa brutta storia, verrete ricompensati a dovere.»

Lui ridacchiò e allungo le gambe per sgranchirsele.

«Lo spero bene!» esclamò. «C'è una bella villetta in vendita a Juno Beach che ho addocchiato da un po'.»




Theresa scoccò un'occhiata repentina al ragazzo alla reception intento a salutare a gran voce i suoi clienti.

Anche Michael scrutò con occhio critico il portiere dell'hotel prima di seguire Jacob e Alex lungo il corridoio verso le camere.

«Lui è conciato proprio male,» commentò il paladino di Ilimroth con voce cupa. «Il resto dei paladini e dei sacerdoti presenti in città soffre di un condizionamento simile ma meno accentuato.»

«È preoccupante che anche i sacri rappresentati degli dei sulla Terra siano stati colpiti da questo maleficio,» commentò Theresa a mezza voce. Dovevano fare qualcosa, non potevano ignorare un simile scempio!

«Siamo comunque mortali, Theresa; non dimenticarlo mai,» la redarguì il massiccio combattente in nero. «Per quanto la nostra fede possa essere salda, gli dei non sono onnipotenti.»

Theresa aspirò una grande boccata d'aria e irrigidì le spalle. Lo aveva detto davvero? Il capitano dei paladini della sacra chiesa di Ilimroth aveva appena negato il potere delle divinità sul mondo? Doveva aver sentito male, o forse... sì, forse quel maleficio che rendeva tutti felici stava iniziando a colpire anche Michael e a farlo parlare a vanvera e a dire stupidaggini!

«Lord Hemsworth,» esordì la novizia, incespicando sulle parole. «Gli dei sono onnipotenti. Sono dei.»

Jacob si schiarì la voce e iniziò a salire i gradini verso il piano superiore, affrettando il passo. Alex lanciò una veloce occhiata alle sue spalle, incrociò gli occhi perplessi della sorella e seguì il federale su per le scale con una gran fretta.

A suo fratello non erano mai piaciuti i discorsi teologici e ogni volta che si parlava di divinità e religione all'orfanotrofio finiva sempre per imboscarsi da qualche parte. Ma non gliene faceva una colpa: la fede era un cammino irto e non era per tutti.

«Se gli dei fossero onnipotenti non avremmo le guerre e i disastri naturali,» spiegò Michael, facendo un galante cenno della mano per invitare Theresa a salire le scale prima di lui. «Gli dei agiscono nel mondo tramite quelle persone che hanno fede in loro. Il potere degli dei è in realtà il nostro potere.»

«Questo è...»

Theresa cercò le parole giuste, ma non le trovò.

«Strano?» domandò Michael. «Sì, forse lo è. So che molti non si trovano d'accordo con la mia personale visione della religione, ma prova a pensarci: se la nostra Signora Ilimroth fosse onnipotente, perché permetterebbe una deturpazione dell'equilibrio come l'incantesimo che affligge Richmond?»

Theresa si fermò un instante sul pianerottolo e si portò l'indice al labbro, richiamando alla mente le ore e ore di lezioni alla chiesa di Deladan.

«Per il libero arbitrio?» azzardò.

Michael le posò una mano sulla spalla e sorrise.

«Libero arbitrio. Un concetto molto comodo per nascondere una verità innegabile: che gli dei esistono, ma la loro presa su di noi è limitata.»

«Se così fosse, come spiega il fatto che io abbia...» Esitò. La parola che stava cercando era ucciso, ma era così difficile da pronunciare. «Che io abbia sconfitto un demone con una spada non affilata?»

Alzò il palmo della mano davanti al volto e ne studiò le intricate linee sottili. La sensazione che aveva provato quel giorno era così lontana che se la ricordava a fatica.

«Sentivo un potere innaturale pervadere la lama. Era rovente e vibrava di energia che non era mia.»

«Ne sei così sicura?» fece, criptico, il guerriero della chiesa. «Come fai a dire che quella forza non veniva da te?»

Theresa appoggiò il piede sull'ultimo gradino e fissò il fondo del corridoio, ignorando Jacob e Alex davanti alla porta della camera di Amanda.

Quella forza veniva da lei? No, impossibile. Lei non era nulla senza il suo dio. Come avrebbe potuto esercitare un tale potere da sola, senza essere accompagnata da Deladan e da tutti gli altri onnipotenti? Lei da sola non era nulla, ecco cosa le avevano insegnato in tutti quegli anni di noviziato tra i paladini di Deladan. Il più potente dei guerrieri sebbene armato della spada di migliore fattura del mondo non era nulla senza la sua fede negli dei.

«Io... io non posseggo una tale forza,» mormorò, alzando gli occhi sul viso scolpito di Michael. La stava guardando con una curiosa espressione dolce, così poco adatta ai lineamenti duri e alla mascella squadrata che caratterizzavano l'aspetto del paladino di Ilimroth. «Senza gli dei, noi non siamo capaci di nulla. Non sono neanche una vera paladina: la mia spada è smussata e non posso portare armi, non posso combattere nel nome di Deladan.»

Senza neanche accorgersene aveva iniziato a piangere in modo sommesso.

«Ho ucciso un essere vivente. Era un'aberrazione del male, ma era un essere vivente: provava paura e dolore, proprio come me.»

Una lacrima le si insinuò tra le labbra e il sapore salato le divampò sulla lingua.

«E l'avrei fatto senza la benedizione di Deladan, secondo lei, Lord Hemsworth?» domandò, fissando la figura sfocata attraverso le lacrime. «Ho ucciso qualcuno e non l'ho fatto nel nome di Deladan?»

Senza volerlo aveva alzato il tono della voce e la porta di una delle loro due camere si era aperta e una faccia indistinta aveva fatto capolino all'esterno. A metà del corridoio distingueva appena le sagome di Alex e di Jacob che la fissavano.

Il paladino le si avvicinò e le cinse le spalle in un abbraccio. Faceva caldo e l'odore forte dell'uomo le colpì le narici come un pugno sul viso, ma quel contatto era piacevole. Zio Darren l'aveva abbracciata tante volte, ma ora era diverso: Michael era come lei, la poteva capire. Sapeva che cosa stava provando, al contrario di Alex o dello zio, così pragmatico da non dare alcuna importanza alla religione o ai dilemmi etici.

«La fede risiede in un cuore saldo,» le sussurrò Michael all'orecchio. «E quando cerchi il divino, è nel tuo cuore che lo puoi trovare. Non hai bisogno che sia un prete avvolto in ricche vesti a dirti chi sei e nel nome di chi puoi combattere.»

Michael le si allontanò e le asciugò una lacrima dalla guancia.

Era bellissimo e maestoso, e Theresa avrebbe desiderato rimanere tra le sue braccia per tutto il resto della vita.

«Asciugati le lacrime, paladina di Deladan,» aggiunse, con tono più forte e deciso, ma senza mai indurire l'espressione del volto. «E non vergognarti di quello che hai fatto: altre vite riponevano la loro fiducia nelle tue azioni. Hai fatto la cosa più giusta.»

Lei tirò su con il naso e, a fatica, distolse gli occhi da lui. Si strofinò il dorso della mano sugli occhi umidi e balbettò un parola esitante di ringraziamento.

L'uomo le batté una pacca sulla spalla e le voltò le spalle per procedere lungo il corridoio e Theresa si prese qualche attimo in più per respirare a fondo e calmare gli spasmi del pianto che l'avevano colta.

Si sentiva meglio finalmente, dopo tutti quei giorni a rimuginare su ciò che era successo. Uccidere era un atto orrendo in ogni caso e Theresa non riusciva ancora ad assolversi del tutto per il suo comportamento a Elizabeth City, ma il suo cuore era come più leggero e meno... lontano: dopo il giorno della commemorazione, ogni volta che batteva era come sentirsi un corpo estraneo radicato nel petto tentare di liberarsi dalla cassa toracica, batteva e batteva con forza e insistenza per distruggerle il petto e schizzarle fuori, allontanarsi da lei e lasciarla amorfa e senza vita.

Batteva ancora, e con la stessa forza di prima, ma era il suo cuore: non voleva più fuggire da lei.

Batteva per lei e, si rese conto guardando la schiena di Lord Hemsworth, anche per qualcun altro.




Alex era rimasto muto e in disparte mentre Jacob e zio Darren si alternavano a raccontare gli eventi delle ultime settimane.

Amanda Lawson aveva mantenuto uno strano silenzio, limitandosi a studiare il paladino vestito di nero con fugaci occhiate tipiche di una scolaretta che spia il compagno che le piace durante le lezioni. E non era l'unica a farlo: anche Theresa faticava a staccare i suoi grandi occhioni dalla figura di Michael Hemsworth e la sua espressione era strana, si poteva quasi dire che fosse rapita.

Bah, non che gli importasse che cosa gli altri pensassero del capo dei paladini di Ilimroth; ad Alex non piaceva. Gli ricordava un odioso quarterback di una squadra di qualche università costoso, uno di quelli che gira per strada attorniato da ragazzine urlanti e che se la tira perché è convinto di aver raggiunto un obiettivo nella vita. Lui, in effetti, aveva raggiunto un considerevole traguardo, ma quell'aura di supponenza tipica di chi sapeva di essere migliore degli altri non l'aveva abbandonato.

Non era con loro neanche da una giornata e già si era permesso di allungare le mani su Theresa, consolarla e sbatterle addosso massime da grande saggio... come se Theresa non avesse mai avuto nessuno su cui fare affidamento. Zio Darren l'aveva sempre sostenuta e consolata e perfino Alex, per quanto non fosse un buon momento per il loro rapporto fraterno, non l'aveva mai abbandonata in quei rari momenti di difficoltà emotiva. Lei aveva la sua famiglia, non aveva bisogno che uno sconosciuto le rifilasse parole consolatorie sapiente zen.

«Quindi, giusto per fare il punto della situazione,» esordì Michael, in piedi al centro della stanza come una meravigliosa statua antica. «Una finta presidentessa sta organizzando una guerra con l'Europa ed era affiliata con un demone.»

Darren si limitò ad annuire.

Hiss si appoggiò timidamente sulla spalla di Alex e sibilò sommesso. Già: a sentirlo così quel racconto sembrava davvero poco credibile.

«Non v'è menzogna nelle vostre parole,» annunciò il combattente di Ilimroth con voce profonda e impostata. «Se aveste mentito, lo avrei saputo subito, ma ciò non è avvenuto. Credo davvero che abbiate bisogno della mia assistenza e il mio ruolo di guida dei sacro guerrieri della chiesa di Ilimroth mi impone di fare il mio dovere e dare tutto il mio supporto alla guida del nostro grande Paese.»

Amanda Lawson sospirò e rilasso gli arti, innaturalmente irrigiditi fino a pochi attimi prima.

Fantastico, se lo sarebbero dovuti portare dietro, quindi? Alex scoccò un'occhiata obliqua a Hiss e arricciò il labbro, e il serpente si limitò a sbattere le palpebre in segno di solidarietà.

«Però anche qui a Richmond è richiesta la mia assistenza,» continuò Michael, alzando il palmo della mano verso Darren per frenarlo dal parlare. «Non posso lasciare questa città senza prima aver capito che cosa perturba la mente di questa povera gente.»

Zio Darren schioccò la lingua contro il palato e assottigliò lo sguardo.

«Credo che la presidentessa degli Stati Uniti sia più importante di una città dove tutti sono felici, o no?» chiese, acido.

«No,» replicò Michael, ma vedendo il viso contrariato di Amanda si affrettò ad aggiungere: «Con tutto il rispetto che io rivolgo alla sua alta carica, non posso permettere di anteporre il bisogno di un singolo a quello di molti. Non lascerò Richmond in questa condizione di depravazione e schiavitù mentale.»

Theresa annuì, ma si bloccò subito quando incrociò lo sguardo scocciato di zio Darren.

«Possiamo scoprirlo anche subito, allora,» disse Alex.

Michael si girò e lo guardò stupito come se non si fosse accorto della sua presenza prima di quel momento.

«Sono qui da qualche settimana e non ho scoperto nulla,» disse, dubbioso. «Nessuno si rende conto di nulla e il maleficio è potente e intricato da seguire. Copre tutta la città come un'immonda ragnatela, scoprirne il punto d'origine è impossibile.»

«Magari nessuno si rende conto di nulla, ma la propria personalità subconscia esiste e potrebbe aiutarci,» replicò il bibliotecario di Filadelfia, distogliendo lo sguardo per sfuggire a quello intenso e rovente del paladino. «Basterà fare un giro nei sogni di qualcuno, la risposta potrebbe essere lì.»

E avrebbe potuto parlare con Hiss, per davvero questa volta. Non se ne sarebbero andati finché quell'infido rettile non gli avesse spiegato per filo e per segno che cosa lo disturbava in quei giorni.

«Perché non ci abbiamo pensato prima?» si chiese Jacob, alzando le sopracciglia.

«Perché nessuno di voi voleva aiutare gli abitanti di Richmond,» rispose piccata Amanda.

«D'accordo, facciamolo,» disse Michael, senza mai staccare gli occhi da Alex.

Il mago si azzardò a studiare qualche istante i lineamenti duri del paladino e rabbrividì. Anche Theresa sarebbe diventata così spaventosa una volta ottenuto il titolo? Non era sicuro che sarebbe riuscito a starle accanto se avesse emanato anche lei quella stessa aura di autorità.

«Mi serve una persona da far addormentare,» azzardò a mezza voce.

«Il ragazzo alla reception,» propose Theresa.

Sì, il ragazzo alla reception andava benissimo, era una delle persone più felici che Alex avesse mai incontrato.

Non attesero neanche un suo cenno di assenso: Michael prese la porta e Theresa gli andò dietro come un cagnolino.

«Lo portiamo qui.» La voce di Michael giunse dal corridoio, abbastanza forte da risuonare fino alla camera.

Alex si asciugò una gocciolina di sudore dall'attaccatura dei capelli e rivolse un'occhiata dubbiosa a zio Darren; il mezzelfo rispose alzandosi dalla sedia su cui era appollaiato per appoggiargli una mano sulla spalla.

«Non male come pensata,» gli disse, annuendo. «Vediamo di risolvere questa scocciatura e di muoverci a Washington quanto prima.»

Si girò a scoccare un'occhiata furba alla presidentessa.

«Non so quante altre notti in questo hotel potrò permettermi.»

Alex ridacchiò e il moto di angoscia che gli stava risalendo l'esofago si sopì subito. Zio Darren sapeva sempre cosa dire per farlo stare meglio, in ogni situazione.

Non rimasero da soli a lungo, perché dei pesanti passi nel corridoio annunciarono il ritorno dei due paladini. Il sorridente receptionist fu il primo a entrare nella stanza, guardandosi intorno con aria curiosa e serena.

«Mi hanno detto che posso aiutarvi a risolvere un problema,» disse, sgargiante, facendo passare gli occhi su tutti i presenti. «Strano che ci sia un problema: qui a Richmond va sempre tutto bene e non accade mai nulla che—»

Alex scagliò la magia sul ragazzo, colpendolo con violenza per oltrepassare l'intricato groviglio dell'incantesimo che alterava le sue emozioni.

Il receptionist rovesciò gli occhi all'indietro e il suo corpo divenne improvvisamente floscio, come un sacco svuotato; Michael lo afferrò per le spalle e lo posò a terra con una delicatezza incredibile per un uomo della sua stazza.

«Alex.» Sua sorella gli fece un timido sorriso e indicò il receptionist addormentato sul pavimento.

Il mago annuì piano. L'aveva già fatto in tantissime occasioni, ma ne sarebbe stato capace quel giorno? Ogni volta era come la prima, i vecchi dubbi non sfumavano mai. E se la magia avesse deciso di abbandonarlo? Se l'incantesimo avesse fatto cilecca? Avrebbero tutti riso di lui, ancora e ancora.

Hiss gli sfiorò il collo con la coda sinuosa e Alex annuì. Avanti, poteva farlo! Pure sotto lo sguardo inquisitorio del paladino. Non era diverso dalle altre volte, era come sempre: una semplice passeggiata nei sogni di un ignaro ragazzino. Dalle sue capacità non dipendevano le sorti di una città intera e forse di una nazione. No: era una semplice passeggiata nel subconscio, niente di nuovo.

Alex si chinò sul viso serenamente addormentato del portiere e gli appoggiò i polpastrelli sulle tempie calde.

La magia rispose fin troppo in fretta.




Era freddo e buio e uno sgocciolio ritmico gli urtava i timpani: era forte come il gong di un tempio asiatico.

Prima ancora di riuscire a distinguere qualcosa nell'oscurità, arrivò l'odore. Era aspro e urticante e gli tornò alla mente quel lontano giorno di novembre dell'anno precedente: pioveva a dirotto e la signora Clayton era entrata in biblioteca insieme al suo grosso cane da pastore fradicio dalla testa ai piedi.

L'odore che lo circondava era lo stesso che emanava il cane quel giorno. Pelo bagnato. Per quale cazzo di motivo il portiere dell'hotel stava sognando buio e pelliccia di cane bagnato?

«Alex, non dovremmo essere qui.»

La voce baritonale di Hiss scavalcò i colpi della goccia-gong.

«Hai paura, Hiss,» mormorò Alex, portandosi le mani alle orecchie nel vano tentativo di proteggersi dal rumore assordante. «Di cosa hai paura?»

«Alex, abbiamo poco tempo.»

Hiss era nel panico. Non lo aveva mai visto così: gli occhi erano minuscoli e serrati, la coda ondeggiava frenetica e nervosa; perfino le striature stellate sulle sue squame rifulgevano più rapide e incontrollate.

«Perché sei scappato dal demone a Elizabeth City?» incalzò Alex. Tossì e si strofinò il naso, ma l'odore era sempre più acuto e pungente.

«Lo dico perché ci tengo a te, devi ascoltarmi!» La voce del serpente, di solito bassa e melodiosa, si era fatta più alta e stridula. «Prendi la tua famiglia e vattene da Richmond. Lasciate perdere anche la presidentessa, è troppo pericoloso.»

Alex alzò gli occhi sul serpente fluttuante a pochi passi da lui.

«Perché mi dici questo solo ora? Che cosa sai?» incalzò.

Hiss esitò.

«Io... non pensavo che fossero loro, all'inizio. Dammi ascolto: dimentichiamoci questa faccenda. Lasciamo Amanda Lawson con Jacob e il prete di Ilimroth e torniamocene a Filadelfia a vivere la nostra vita.»

Alex serrò i pugni e strinse i denti.

Un colpo di goccia troppo vicino gli fece vibrare il timpano e tutto il resto della nuca.

«Io ti ho sempre detto tutto!» urlò, all'improvviso. «Sai tutto di me, ogni cosa. I miei desideri, le mie paure; hai visto i miei sogni. Io mi fido di te così tanto da lasciarti entrare nella mia anima. Perché tu no?»

Hiss abbassò la testa e il suo lungo corpo rabbrividì come se fosse stato colpito da un nodoso bastone.

«Alex, ci sono cose che neanche tu puoi sapere. Per il tuo bene.»

I due si guardarono. Il gong aumentò d'intensità e il puzzo si fece così potente che Alex pensò di dover vomitare.

Poi tutto si fermò e rimase solo il buio e il silenzio.

Il serpente alzò la testa, nervoso.

«Troppo tardi,» sussurrò.

Eccovi.

La voce giunse dall'interno del suo cervello e quasi Alex credette di essersela immaginata.

Kah'shix, mi hai portato un regalo.

Alex rabbrividì e prese a guardarsi intorno, ma vedeva soltanto nero. Era come essere immersi in una vasca di petrolio.

«Alex, usciamo di qui. Ora.»

Il bisbiglio di Hiss gli arrivò ovattato e lontano.

All'improvviso l'oscurità si incendiò davanti ai suoi occhi. Una nube di fuoco bianco esplose nel nulla e vorticò su sé stessa, assumendo una forma sempre più distinta.

Un viso? No, non con quelle fattezza così spigolose e allungate... un muso? Un animale? Un lupo, sembrava il muso di un lupo, o forse di un cane. Gli occhi a mandorla della tremenda apparizione erano lattiginosi e vacui, e si posarono su Alex per studiarlo.

Aspettami, Kah'Shix. Arrivo subito.

Una fortissima pressione schiacciò il petto di Alex.

Urlò e chiuse gli occhi mentre il dolore gli risaliva tutto il corpo.




Un bruciore fortissimo alla faccia lo accolse quando aprì gli occhi.

Era sdraiato sul pavimento della stanza dell'hotel, i vestiti sudati appiccicati al corpo e il volto umido.

Gli altri erano chini su di lui e lo osservavano terrorizzati, soprattutto Theresa, con i suoi occhi arrossati e gonfi di pianto.

«Cosa...» provò a dire, ma il corpulento paladino di Ilimroth lo zittì.

«Dopo pochi attimi hai iniziato a urlare come un pazzo, ma non ti svegliavi,» spiegò Michael. «Ho dovuto colpirti il volto più e più volte per farti riprendere.»

«Sta arrivando,» mormorò Alex, mettendosi a sedere di scatto e cercando Hiss.

Lo trovò disteso sul pavimento a qualche metro da lui, dietro all'esile sagoma di zio Darren. Sembrava sveglio perché muoveva la coda, anche se a fatica.

Il bibliotecario di Filadelfia fece per alzarsi, ma il suono improvviso di tessuto strappato lo bloccò. Michael si alzò di scatto e mise mano al suo falcetto, mentre zio Darren si chinò ancora di più a proteggerlo, coltello alla mano.

Quattro elfi, uno per angolo, erano comparsi nella stanza. Indossavano delle tuniche cerimoniali con complicati intarsi dorati lungo i bordi e i loro volti erano maschere di impassibilità.

«Vi esortiamo a non compiere bruschi movimenti,» disse uno di loro, rimanendo immobile. «Questo non è un arresto formale quanto più un invito, ma non avete la libertà di rifiutarlo.»

«Ma che cazzo...» fece Jacob, a denti stretti.

«Vi prego di venire con noi, siete stati richiesti a un'udienza privata,» continuò un secondo mago, protendendo la mano verso di loro.

«E chi ci richiede?» domandò Amanda, contrariata ma sempre esibendo il suo tono autorevole.

«La governatrice della Virginia ha richiesto la vostra presenza,» spiegò il mago, imperscrutabile. «Vi esortiamo a raccogliere il suo invito immediatamente.»

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro