Capitolo I - Vania (passato)

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ATTENZIONE! LA STORIA CONTIENE SCENE DI VIOLENZA CHE POTREBBERO URTARE LA SENSIBILITA' DI ALCUNI LETTORI


La neve cadeva lenta dal cielo bianco, la sentiva posarsi sulle labbra, gelida. Non sapeva da quanto tempo fosse lì, stesa a terra, ma da un po' la vista le si era appannata e non riusciva più a vederla.

All'inizio c'era stato il dolore, feroce e intollerabile, presente e crudo come le pietre che la circondavano. Era sopraggiunta la paura. Aveva urlato, pianto e chiesto aiuto. Aveva spinto e tirato fino a sentire i sensi venir meno per la sofferenza, ma aveva provato ancora, anche quando era divenuto chiaro che non sarebbe riuscita a liberarsi da sola. La neve insensibile aveva continuato a cadere sul suo corpo, intrappolato sotto quello che restava della sua casa, il braccio e la gamba destri schiacciati sotto rocce inamovibili. Era sopraggiunto il freddo a intorpidire le membra e a farle battere i denti.

Ora non li sentiva quasi più, ma non erano né il dolore né il freddo che se ne stavano andando. Era lei a farsi sempre più lontana. Anche se rifiutava di arrendersi, il suo corpo la stava abbandonando. Provò ancora a chiamare aiuto, ma la bocca stupidamente rimase chiusa. Cercò di aprirla con la mano libera, ma anche quella rifiutò di muoversi.

La mamma non doveva essere lontana. Forse la stava cercando. Provò ancora a chiamare, ma il suo stupido corpo le si opponeva. Aveva ancora paura, una grande paura, ma cercò comunque di farsi coraggio e provò di nuovo. Un debole lamento fu tutto quello che ottenne. Non era molto, ma forse sarebbe bastato. Lo sforzo l'aveva sfinita e sentiva le palpebre pesanti, così socchiuse gli occhi. Giusto per un po', si disse. La tenebra dopotutto era piacevole, meglio del vacuo biancore del cielo. Non le avrebbe fatto male riposarsi un po'.

Da qualche parte sentì un suono, voci lontane forse. No, era la mamma che la chiamava e c'era anche sua sorella Mina. Il cielo era tornato azzurro e alto grano la circondava. Le sentì ancora, ridevano. Si sollevò a sedere, il colle era coperto da un mare verde che frusciava nel vento e la grande casa di pietra era ancora al suo posto. Non era reale, il dolore le diceva che era ancora stesa sotto le rocce, ma comunque si volse verso la mamma e Mina. Indossavano i vestiti della festa e correvano dietro il fienile chiamandola. Si guardò attorno, le piaceva così tanto la primavera sul colle. La fattoria dominava il trionfo di verde della valle, quello acceso dei campi di grano e quello più scuro dei boschi che si stendevano sulla parte alta delle colline; il fiume brillava lontano.

Provò ad alzarsi e ci riuscì con facilità. Anche lei indossava il vestito della festa, quello con le margherite ricamate. Le piaceva così tanto quando la mamma glielo metteva. Corse verso il fienile, voleva raggiungere la mamma e anche Mina. Non era più arrabbiata con sua sorella, non ricordava nemmeno perché quella mattina avessero litigato.

Non c'era nessuno. Dietro il fienile la grande aia era immersa nell'ombra ed era di nuovo sola. Faceva di nuovo freddo e il cielo era tornato bianco.

«...ancora viva» disse l'ombra. Una sagoma scura scese su di lei fino a dominare il suo campo visivo «Sembra che tu non voglia proprio arrenderti» la voce non era cavernosa come le era parsa all'inizio, ma era profonda, di un uomo adulto. Sbatté gli occhi. L'aia era scomparsa ed era tornata a essere stesa sotto le rocce. Con la vista ancora appannata non riuscì a mettere a fuoco la figura sopra di lei. Le sembrava dello stesso colore della tenebra, a eccezione del volto pallido sotto il cappuccio. Forse era la Morte, venuta a prenderla come nei racconti di paura che Mina si divertiva tanto a raccontarle.

«Vuoi vivere piccola?»

Era una domanda stupida da parte della Morte, ma si sforzò di rispondere. La voce non venne fuori, ma riuscì a muovere la testa per annuire.

«Farà male e forse morirai comunque, ma potrebbe essere interessante» stabilì terrificante la Morte, ma con tono neutro, come se parlasse del più e del meno. La vide estrarre qualcosa di luccicante che nella mano bianca mutò rapidamente di colore fino a divenire luminosa. L'aria attorno all'oggetto adesso tremolava per il calore. Era magia, non c'erano dubbi. La prima che avesse mai visto.

Vide l'oggetto calare verso di lei e pur non comprendendo cosa volesse fare ebbe paura. Adesso avrebbe voluto urlarle di fermarsi, ma non aveva alcuna voce per farlo, né forze per muoversi. Sentì il calore passarle accanto al viso, poi penetrarle nella carne. Urlò. La sua voce si levò alta sulle macerie della casa di pietra, sul nero scheletro del fienile in fiamme, sui corpi immobili riversi a terra tra la neve e il sangue rappreso.

***

Al riaffiorare della coscienza non era più sotto il cielo. La luce tremula delle lanterne faceva muovere lunghe ombre su un basso soffitto. Si trovava in una stanza cupa, stesa su un duro tavolo di legno, col corpo trattenuto da cinghie di cuoio. Impaurita si rese conto che non poteva muoversi e che non aveva più vestiti. Tremava di freddo e ardeva per la febbre alta, tutta la parte destra del corpo le faceva male, sentiva la testa intorpidita e gli occhi pesanti.

Non ebbe il coraggio di chiedere aiuto, atterrita dall'idea che la Morte sarebbe tornata a farle di nuovo del male. Pianse fino a quando la debolezza e la febbre non la portarono a sprofondare nuovamente nell'incoscienza.

Sonno e veglia si alternarono più volte, confondendosi nel delirio febbrile. Sul soffitto vedeva le ombre muoversi inquiete tra i rientri del legno, danzare minacciose come mostri, e come nei peggiori incubi le vedeva animarsi per calare su di lei. Urlava mentre lunghi arti di oscurità si protendevano a ghermirla, la agguantavano e la immobilizzavano. Crudeli fauci la deridevano prima di azzannarla, lei urlava ancora e loro ridevano più forte. Ma nell'indistinto confine tra incubo e realtà non c'erano solo le ombre a tenerle compagnia, una figura indistinta con abito cremisi si aggirava per la stanza, parlando una lingua che lei non riusciva a capire, sorda alle suppliche e alle richieste di aiuto.

I mostri strisciavano lungo le tetre pareti di pietra per venire a tormentarla con zanne e coltelli, tagliando e pungendo, tirando e strappando. Temeva che la volessero mangiare e forse si erano già presi il braccio e la gamba destri. Non riusciva più a sentirli. Ogni volta che tornavano lei urlava e supplicava che la lasciassero in pace, che non le mangiassero altro, ma né la figura cremisi né i mostri sembravano provare la minima pietà per lei.

Ricordava la bambina. Era comparsa sul tavolo di fianco al suo, giaceva stesa immobile, gli occhi chiusi, la pelle pallida come cera bianca. Era molto graziosa, mora come lei. L'aveva chiamata, ma non aveva ricevuto risposta. I mostri erano tornati, neri e cremisi con lame luccicanti. Le aveva urlato di svegliarsi, di scappare, ma non era servito a niente. La bambina non si era mossa, non ci aveva neppure provato e i mostri l'avevano presa. Atterrita aveva visto le ombre calare, qualcosa che veniva preso da neri arti e portato via. Era stato troppo. Era svenuta.


Al risveglio la bambina era scomparsa così come i mostri e le ombre. Una pezza bagnata le teneva fresca la fronte, era stesa su un morbido materasso e lenzuola profumate di pulito la coprivano. La prima cosa che fece fu alzare le coltri, lo fece con la mano sinistra, ma con enorme sollievo anche la destra risultò essere ancora al suo posto, così come la gamba. Erano fasciate e inerti, ma erano lì dove ci si aspettava che fossero.

Si dedicò dunque a guardare l'ambiente che la circondava. Era una stanza ordinata, una camera immersa nel fievole chiarore del primo mattino. Non aveva mai avuto una camera tutta sua. La luce entrava da una finestra con le imposte socchiuse, sulla parete opposta c'era una porta e di fianco una cassapanca. Non conosceva quella stanza. Non sapeva dove fosse, ma era lieta di non essere più ostaggio dei mostri. Si domandò dove fosse finita la bambina, dove fossero la mamma, il papà, sua sorella Mina, e continuando a porsi domande prive di risposta tornò a dormire.

L'oblio del sonno si impastò con sprazzi di ricordo. C'erano urla, rumori aspri e l'aria odorava di fumo, ma era stata la voce del papà che parlava alla mamma a svegliarla del tutto «Prendi le bambine, portale via di qui!»

Aveva solo intravisto la sua figura poi lo aveva sentito scendere rapidamente le scale.

«Sbrigati svelta!» aveva detto la mamma con un tono che l'aveva messa in allarme. La coperta le era stata tirata via di dosso. «Alzati piccola mia, su avanti!» La mamma aveva gli occhi spaventati.

Si era tirata su. Mina era già in piedi, piangeva. Era scoppiata in lacrime anche lei. La mamma aveva proteso la mano per prenderla, poi c'era stato un gran fragore e nonostante né lei né la mamma si fossero mosse, la distanza tra loro aveva preso ad aumentare mentre tutto cadeva verso il basso.

Si destò di scatto. Era di nuovo nella camera e un uomo le stava controllando le bende del braccio. Era vestito come un signore importante, aveva il viso severo e l'aria concentrata. Lui notò che si era svegliata ma non sembrò curarsene. Lei non osò proferire parola, troppo intimidita dall'aria grave di quell'uomo impassibile.

Sentiva l'avambraccio come ovattato, come quando le si addormentava perché ci dormiva sopra. Avvertiva a malapena le dita dell'uomo che lo tastavano. Al contrario la parte superiore le doleva terribilmente. Avvertiva come se decine di api avessero deciso di pungerla tutte assieme. Trattenne le lacrime più per vergogna che per altro: non le andava l'idea di piangere davanti a uno sconosciuto.

«Riesci a muovere le dita Ka Rhana?»Non era il suo nome, ma ci provò comunque. Il dolore si fece lancinante, ma le sue dita rimasero inerti. Alla sofferenza si aggiunse la paura e non fu più in grado di ricacciare indietro le lacrime.

«Deludente» fu l'unico commento dell'uomo mentre si alzava dal letto. «Tornerò più tardi. Vedi di riuscire a muoverle per allora.»

Con il viso rigato di lacrime guardò spaventata l'uomo che usciva dalla stanza e la sua mano immobile sulle coperte. Sola, diede sfogo al pianto fino a sprofondare sfinita nel sonno.

Nel sogno era di nuovo sulla collina della fattoria, ma adesso era inverno e la neve copriva tutto. Le porte e le finestre della grande casa di pietra erano tutte sprangate, ma non aveva bisogno di entrare per sapere che non c'era nessuno al suo interno. Se ne erano andati tutti e lei era rimasta sola. Alle sue spalle la bambina la osservava. Era bianca come la neve che la circondava, i capelli scuri agitati dal vento, se ne stava ferma in piedi sull'unica gamba che aveva, l'unico braccio abbandonato lungo il corpo nudo, insensibile al freddo. Terrorizzata fece per arretrare, ma le mancò il sostegno della gamba e cadde. Gocce cremisi macchiarono il candore della neve. Là dove si aspettava che ci fosse la sua gamba, ora non c'era più niente.

Spalancare gli occhi e trovarsi nel letto della camera fu quasi un sollievo. Ancora spaventata per l'incubo tirò via le coperte per vedere la gamba fasciata. Era intorpidita come il braccio. Provò a muoverla ma non ci riuscì, tentò ancora concentrandosi sul piede, ma per quanto si sforzasse le dita rimasero immobili tra le bende. Scuotendo la testa scacciò via le lacrime che le colmavano gli occhi e tornò a dedicarsi alla mano. Doveva riuscire a muoverla. Provò ad aiutarsi con l'altra mano. La mano destra era fredda, insensibile, avvertiva a mala pena il tocco sulla pelle. Il contatto la fece rabbrividire: era come se non le appartenesse. Scacciò quel pensiero e fletté ogni singolo dito più e più volte aiutandosi con la sinistra, ignorò il dolore sempre più acuto che si irradiava dal gomito alla spalla estendendosi progressivamente all'avambraccio e al petto. Le lacrime bagnavano il cuscino e un sudore freddo le velava la pelle, ma non intendeva darsi per vinta. Continuò fino a quando la sofferenza non le tolse ogni forza di andare avanti.

La frustrazione di non riuscire era peggiore del dolore, avrebbe voluto urlare ma tutto ciò che riuscì a fare fu emettere un lamento rabbioso. Il suo stupido corpo la tradiva ancora, imprigionando la sua forza di volontà in una gabbia immobile.

Semi incosciente, la vista appannata, vide la porta aprirsi. Entrò qualcuno, non riusciva a mettere a fuoco l'immagine, ma avrebbe tanto voluto che fosse la mamma. Chiuse gli occhi. Sì, era la mamma: aveva un vassoio con del brodo fumante, un sorriso dolce e parole di conforto.

Al risveglio era ancora sola, ma qualcuno aveva effettivamente portato una ciotola con un cucchiaio e l'aveva lasciata di fianco al suo letto. Aveva fame e protese la mano per prenderla. Solo dopo si rese conto che la mano che si era mossa era la destra. Le faceva ancora male, ma essere riuscita a muoverla la rese felice.


L'uomo tornò quando la luce nella stanza iniziava ad affievolirsi. All'esterno il sole tramontava oltre le punte di larici pieni di ombre. Venne a sedersi sul letto, la osservò con profondi occhi scuri. Si sentiva intimidita, c'era qualcosa nel modo in cui la guardava che le metteva paura. Abbassò gli occhi per non dover sostenere oltre quello sguardo.

«Muovi le dita Ka Rhana» disse lui e lei lo fece. Le sue dita si mossero.

«Puoi muovere anche il braccio?»

Strinse i denti e gli mostrò che ne era capace, il dolore le strappò un lamento, ma riuscì a sollevare il braccio dalle lenzuola.

«Brava» era il primo complimento che le rivolgeva e questo la rese orgogliosa del suo lavoro. L'uomo si rialzò, prese la ciotola vuota e le versò altra acqua nella tazza.

«Domani dovrai mostrarmi come muovi il piede e la gamba Ka Rhana

«Non mi chiamo Karana» la sua voce era uscita flebile, a malapena udibile.

«Ti sbagli. Il tuo nome adesso è Ka Rhana

«Mi chiamo Vania.»

L'uomo si volse a guardarla negli occhi facendola pentire di aver aperto bocca. «Dimentica quel nome. Non ti appartiene più e non lo riavrai» il tono era definitivo e non ammetteva repliche.

Un terribile silenzio calò nella stanza. Non potersi più chiamare Vania era spaventoso. Quando la mamma fosse venuta a prenderla l'avrebbe voluta ancora se non si chiamava più come sua figlia? Il non sapere la risposta la fece scoppiare a piangere. Voleva il suo vecchio nome, voleva essere Vania, non Karana.

***

Era nuovamente sul colle, circondata dalle messi dorate, stesa in uno spiazzo tra le stoppie della mietitura. Nuvole pigre scorrevano nel cielo e le spighe del grano ondeggiavano lievi. Le era parso di udire in lontananza il canto della mamma, ma tendendo l'orecchio riuscì a sentire solo il fruscio degli steli agitati dal vento caldo. Avrebbe voluto alzarsi per guardarsi attorno, ma il braccio destro sembrava aver ripreso a fare i capricci.

«Sembra un bel posto per stare sdraiate» disse una voce al suo fianco facendola voltare. La bambina dai lunghi capelli neri era stesa di fianco a lei nel circolo di grano mietuto.

«Sì, lo è. Mi nascondo sempre qui per non dover aiutare mia sorella a legare i covoni.»

«E cosa fai?»

«Resto qui stesa a guardare le nuvole passare.»

«Non sembra molto divertente.»

«Tu riesci ad alzarti?» domandò. «Io non ci riesco, mi fa male il braccio.»

Voleva mettersi in piedi e guardare oltre il grano. Era certa che oltre la cortina di spighe avrebbe visto la mamma, Mina e il papà. La bambina si volse a guardarla. Aveva enormi occhi grigi e sembrava perplessa «Di quale braccio parli?»

Con un improvviso senso di vuoto e un crescente terrore sollevò la testa. Oltre la sua spalla non c'era niente, nessun braccio. Urlò atterrita.

«Non preoccuparti, va tutto bene» le sorrise la bambina. «Ecco, prendi il mio» così dicendo le porse il suo braccio destro, grondante di sangue. «A me non serve.»

Urlò di nuovo, tentando di spingersi lontana dalla bambina e dal braccio, ma aveva una sola gamba da puntare a terra. Le zolle scure del terreno si stavano macchiando di sangue.

Una terribile fitta di dolore la fece destare, fradicia di sudore. Ansimante, con cieca frenesia strattonò le lenzuola e le coperte in cui era avvolta, gemendo di dolore e serrando i denti per non desistere. Infine riuscì a liberare le braccia e a portarsi entrambe le mani davanti al viso.

«No» gemette guardandole disperata. La mano destra era diversa. Non era la sua.

«No!» urlò. «No! No! NO!»

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