Capitolo XXXIII

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Tredici cadaveri giacevano stesi sotto altrettanti teli bianchi, allineati sui tavoli del freddo scantinato. Irina guardò quei corpi che poche ore prima erano stati uomini, poi la figura spettrale che si muoveva in netta contrapposizione con tutta quell'immobilità, sul lato opposto del lungo stanzone. Era un uomo, avvolto in una spessa tunica di tela cerata, lunghi guanti e un rigido grembiule di cuoio macchiato di sangue, il volto nascosto da una sinistra maschera dal lungo becco. Lavorava a un quattordicesimo corpo su un tavolo separato dagli altri, il cadavere steso sul piano rivestito di metallo era orribilmente sezionato, sventrato come un animale sul banco del macellaio.

Irina sbatté le palpebre per mettere a fuoco la vista. Sentiva i piedi come fasciati di piombo mentre scendeva, uno a uno, i gradini che la avvicinavano al pavimento bagnato. Rinsaldò la presa sull'elsa della spada, concentrando lo sguardo sul volto di cuoio della figura che muoveva le mani dentro al corpo del morto producendo un echeggiante suono umido.

La suola degli stivali sbatté sul pavimento. Allineati sulla destra i teli bianchi sembravano un sinistro picchetto d'onore al suo avanzare. Sette uomini di Roccacorva, sei soldati e un caporale e poi quattro valorosi uomini della sua squadra e, ancora, il loro Comandante.

La vista le tremolò, obbligandola a chiudere ancora gli occhi. Trasse un respiro più lungo e li riaprì.

Dego.

Dego era stato ucciso. Anche lui per mano del Fabbricante. Come Lilia la guaritrice, come Sergio di Tomaiana, come tutti i soldati che con lei erano scesi nelle catacombe a Fleia. Il coraggioso Dego, il leale Dego, il buon Dego le era stato strappato come tutti gli altri.

Le nocche sbiancarono sull'elsa mentre stringeva di nuovo gli occhi e, con un singhiozzo soffocato, perdeva la sua battaglia contro il pianto. Roventi lacrime di debolezza le scesero sulle guance mentre prometteva a sé stessa che sarebbero state le ultime, che sarebbe stata più forte. Tanto forte da uccidere Asmodeo. Gli avrebbe fatto pagare ogni singola stilla di sangue che aveva versato, ogni vita che aveva stroncato. Lo avrebbe fatto per tutti coloro che erano caduti, per tutto quello che le aveva portato via.

Riaprì gli occhi e tornò a fissarli sulla maschera inespressiva dell'uomo sul fondo della stanza. I suoi piedi ripresero a muoversi verso il tavolo rivestito e il cadavere di LorKon.

«Non era necessario che scendessi quaggiù» disse la voce dietro la maschera, distorta dal passaggio nel lungo becco. «Una volta finito, sarei salito io.»

«Volevo vedere con i miei occhi.»

«Allora avvicinati» il guanto fradicio di sangue le indicò i muscoli del braccio liberati dalla pelle che li aveva coperti. «LorKon "dieci-mani" non aveva proprio dieci mani, ma il Fabbricante gli aveva innestato muscoli aggiuntivi prelevati da almeno tre uomini e rinforzato tutto il tronco superiore per supportare una simile forza. Per arrivare a un simile risultato deve aver provato l'intervento su molti altri soggetti prima di arrivare a questo.»

«Ecco come ha fatto a compiere un simile massacro» disse Irina distogliendo lo sguardo dal cadavere, non tanto per la vista del corpo aperto sul banco, ma per il disgusto verso la messa in pratica di un simile abominio.

«Non era comunque solo. In realtà con lui c'era almeno un altro assassino che non si è limitato a tagliare la gola dei feriti, ma ha ucciso almeno sei dei tredici uomini caduti.»

«Nicodemo di Cafria» disse Irina stringendo ancora la mano sull'elsa della spada, guardando verso il telo che copriva Dego. Secondo la ricostruzione fatta da Iorio, Dego era stato ferito da LorKon, ma a ucciderlo era stato il secondo assassino.

«Non sono certo che ci fosse solo Nicodemo di Cafria in quella torre con LorKon. Le due guardie alla porta della città sono state entrambe sgozzate senza riuscire a dare l'allarme e questo può essere successo solo se gli assassini in fuga erano almeno due. Inoltre uno dei soldati delle squadre sui tetti ha inizialmente detto di aver sentito una voce di donna, oltre la porta sbarrata della pusterla. Ha poi omesso la cosa la seconda volta che gli è stato chiesto di raccontare i fatti, probabilmente per un distorto senso di lealtà verso i compagni caduti, per risparmiare loro la possibile onta di essere stati uccisi da una donna.»

Irina non commentò l'idiozia degli uomini. In quel momento non aveva né il tempo né la voglia di farlo. Tutte le sue energie erano volte a contenere il dolore, a comprimerlo e forgiarlo in determinazione. Un'affilata, fredda, implacabile determinazione a trovare Asmodeo e fargli pagare la morte di Dego.

Da dietro le lenti di vetro della maschera, Learco guardò le spalle curve di Irina raddrizzarsi mentre il fuoco della furia divampava, bruciando i gravami del lutto.

«Iorio e i suoi uomini stanno battendo la città e le campagne in cerca di Nicodemo di Cafria. Se esiste una sola possibilità di trovarlo lo troveranno, ma tu dovresti occuparti della donna che nessuno sta cercando. Dall'inizio della caccia Nicodemo è la carota che ci viene sventolata davanti al naso, credo sia ora di smettere di correre dietro a chi Asmodeo ci indica e trovare chi veramente stiamo cercando.»

«La sua bambola» disse Irina con un lampo di comprensione e, dentro la maschera, Learco sorrise. Nonostante tutti i suoi sforzi quell'Inquisitrice caparbia e indisponente gli piaceva.

«Ha orchestrato lei tutto questo» continuò Irina. «Probabilmente è in città che prepara la sua prossima mossa. Guarda l'intera Roccacorva dare la caccia alla persona sbagliata e intanto se la ride.»

Irina aveva ragione. Ka Rhana era tornata a essere l'insospettabile Alice mentre tutta Roccacorva cercava Nicodemo, e inesorabile il piano di Asmodeo si muoveva in avanti, ma su una cosa invece sbagliava: Ka Rhana non rideva. Non rideva affatto.


Ka Rhana allungò la mano sotto il materasso fino a trovare l'impugnatura del pugnale senza distogliere gli occhi dall'uomo che la guardava con un sorriso triste. Sarebbe stato facile ucciderlo in quel preciso momento, era completamente inerme, impreparato. Un movimento rapido, un arco discendente e la lama sarebbe entrata nel collo, reciso le arterie e perforato la trachea, oppure avrebbe potuto optare per abbassare il tiro e raggiungere il cuore: la lama sottile non sarebbe stata intralciata dalla gabbia toracica.

«Perché piangi?» le domandò lui allungando una mano per carezzarle il viso. Non rispose. Si abbandonò contro la mano socchiudendo gli occhi, lasciò che il pollice ruvido le tergesse le lacrime mentre le dita sotto al materasso si serravano contro il morbido cuoio dell'elsa. In quell'esatto momento sarebbe bastato così poco per risolvere l'enorme errore compiuto.

Accompagnata dalla mano, fu tratta verso di lui. Sentendo il calore del petto saldo contro il seno riaprì gli occhi e si trovò di fronte ai suoi, verdi come gli alberi del bosco sul colle, tersi come il cielo d'estate. Distolse lo sguardo e volse il viso cercando di non cadere in quella trappola così ovvia e al tempo stesso così invitante.

Quando la barba incolta le grattò la guancia e le labbra di lui le sfiorarono il collo chiuse di nuovo gli occhi, stringendoli quando la baciò. Mentre altre lacrime gonfiavano sotto le palpebre la mano sotto al materasso si dischiuse come un fiore, lasciando andare il pugnale. Fu così che seppe di aver fallito ancora una volta. Atterrita e nel contempo colma di disperato desiderio cercò la sua bocca. Le labbra si trovarono e, come un sudario, i suoi lunghi capelli li nascosero al mondo.

***

«Non mi aspettavo questo» disse Sebastiano, poco più tardi, mentre giacevano vicini tra le coperte, il battito ancora accelerato per aver appena fatto l'amore per la seconda volta. «Ma sono felice di essere venuto a parlarti» aggiunse prendendole la mano.

Alice non si ritrasse, ma le sue parole furono fredde. «Non saresti dovuto venire, io ho Iorio adesso.»

Sebastiano la guardò distogliere lo sguardo, come a prendere le distanze da lui, ma nel contempo sentì la mano di lei stringersi nella sua.

«Lo so, ma non voglio perderti.»

«Non sai cosa dici. Non c'è niente da perdere» disse lei restando voltata. «Niente.»

La mano di lei lasciò la sua.

«Vattene ora. Questa è stata l'ultima volta.»

Sebastiano la guardò volgergli le spalle, a sottolineare che non c'era altro da aggiungere.

«Alice» anche se sapeva cosa doveva dire, pronunciare il suo nome gli rubò tutto il fiato. Rimase lì, incapace di respirare, a guardare la pallida schiena di lei, la linea morbida delle spalle curvarsi sul collo esile, la chioma di capelli neri sparsi sul cuscino. Non era venuto per farsi cacciare di nuovo, né per fare l'amore con lei un'ultima volta.

«C'è una cosa che devi sapere su Alice» gli aveva detto Dego poche ore prima della sua morte. «La sua bocca parla, ma i suoi occhi e soprattutto il suo cuore dicono cose diverse.»

Sebastiano lo stava aiutando a chiudere le fibbie dell'armatura in previsione dello scontro alla torre.

«Cosa intendete?»

«Intendo che devi avere coraggio, essere uomo e dire quello che vuoi dire. A discapito di tutte le parole che la sua bocca potrà dirti.»

Sebastiano aveva preso tempo per riflettere, continuando a tirare le cinghie mentre pensava alle parole di Dego. L'Inquisitore aveva un modo di parlare che a volte lo confondeva.

«Devo dirle cosa penso?»

«Devi dirle ciò che provi, mio buon amico.»

Dego gli aveva dato una robusta pacca sulla spalla ed era uscito. Era stato il loro ultimo momento insieme.

«Vattene, ho detto» ripeté lei tirando via le coperte per avvolgersi mentre si metteva a sedere sul letto. «È stato un errore farti salire, non dovrei perdere il mio tempo con te.»

Sebastiano la guardò alzarsi, attraversare la stanza, raccogliere i suoi calzoni e lanciarglieli addosso.

«Vestiti! Svelto. Non ti voglio più vedere. Fuori!»

«Alice, io ti amo.»

Silenzio.

Immobile, con la casacca appena raccolta in mano, Alice era come congelata. Sebastiano si era tirato in piedi nel dirglielo, tenendosi le lenzuola attorno alla vita e ora, a sua volta immobile, quasi trattenendo il respiro, attese la sua reazione.

Sospinta dal vento l'imposta della finestra scricchiolò aprendosi lentamente, una lama di luce andò ad allargarsi nella penombra della stanza mentre ancora nessuno dei due si muoveva.

Davanti a lui Alice lo guardava, la sorpresa nei suoi occhi era mutata in turbamento, come se improvvisamente la sconvolgesse trovarselo lì davanti. Stava per fare un passo verso di lei, per confortarla, forse per abbracciarla quando, con sgomento, per la seconda volta quel giorno, vide negli occhi di lei le lacrime sbocciare e cadere lungo le guance. Mortificato vide le sue labbra tremare e poi un singhiozzo scuoterla.

«Ci ucciderà» disse Alice, con la voce rotta dal pianto. Già pronto al benservito, Sebastiano fece fatica a comprendere il significato di quelle parole, non erano certo quelle che si aspettava.

«Il Capitano Iorio?» domandò confuso, ma lei scosse la testa e lui tacque non sapendo che altro fare.

Fu allora che Alice si mosse, colmando tutta la distanza che li separava e sorpreso Sebastiano si ritrovò stretto nel suo abbraccio. Le lacrime di lei gli bagnarono il collo, il suo respiro caldo gli accarezzò la pelle e con il cuore colmo di gioia Sebastiano la strinse forte contro il petto.

«Ti amo» le ripeté.

Lei non proferì parola, ma si strinse più forte a lui.

***

Iorio scese da cavallo e fece cenno ai suoi di procedere. Era quasi il tramonto.

«Stiamo cercando un fuggiasco» disse, ripetendo ancora una volta le stesse parole che aveva pronunciato non sapeva nemmeno lui quante volte quel giorno. Davanti a lui un allevatore e padre di famiglia guardava con un misto di sospetto e timore la banda di uomini armati appena giunti nell'aia della sua casa. «Il mio nome è Iorio, sono il Capitano della Rocca dei Corvi di Roccacorva, stiamo battendo i dintorni in cerca di un uomo, un criminale, un assassino scappato alla cattura.»

«Qui non c'è nessuno» disse l'uomo guardando i soldati smontare ed estrarre le spade. Un bambinetto appena fuoriuscito dalla porta fu rapidamente recuperato dalle mani della madre e ritirato nell'interno della casa.

«Dobbiamo ispezionare stalle, pollai, cantine e sottotetti. Potrebbe nascondersi qui a vostra insaputa.»

«Ho detto che in casa mia non c'è nessuno» ripeté l'uomo stringendo il manico della scure che teneva contro il petto.

Iorio, pur non potendo biasimare l'uomo, era stanco del continuo ripetersi di quella scena. «Mi spiace signore, ma è mio dovere controllare.»

Si mosse verso la casa. «Ispezionerò personalmente la casa, nessuno dei miei uomini entrerà oltre a me. Vi prego di farmi strada.»

L'uomo si piazzò tra lui e la casa, rinsaldando la presa sulla scure con le mani tremanti. «Dovete andarvene Signore. Non voglio guai.»

Il gesto dell'uomo non passò inosservato ai suoi che fecero per muoversi, ma Iorio li fermò con lo sguardo.

«Fatevi da parte» ordinò perentorio fissando l'uomo negli occhi. Lo vide muovere le mani sulla scure come a cercare una presa migliore, ma poi le spalle si afflosciarono e l'uomo si scostò per lasciarlo passare.

La casa era povera, la donna che aveva recuperato il figlioletto era immobile a fianco del camino; atterrita teneva vicino a sé il piccolo e altri tre bambinetti sporchi mentre un ragazzo più grandicello lo squadrava più incuriosito che spaventato.

Iorio diede un'occhiata in giro e poi salì con l'uomo al piano di sopra.

Battere le fattorie e i capanni uno a uno non era il lavoro che avrebbe dovuto fare il Capitano della Rocca, avrebbe potuto benissimo incaricare un subalterno di farlo al posto suo, ma non riusciva a dimenticare ciò che aveva visto nella torre sud. Il corpo senza vita di Vinicio e degli altri, alcuni tanto straziati da non sembrare più uomini, le gole tagliate, il sangue schizzato ovunque. Soprattutto non riusciva a dimenticare il volto di Irina, accorsa assieme a lui dopo che la notizia li aveva raggiunti mentre varcavano l'ingresso della sala della Rocca dei Corvi, convocati da Learco.

Nella torre, in mezzo alla morte e al sangue, si era voltato e l'aveva vista immobile davanti al corpo dell'Inquisitore Dego. La faccia non tradiva la minima emozione, ma gli occhi mostravano l'abisso di sofferenza in cui stava precipitando. Non sapeva che rapporto c'era tra i due, ma in quel momento si era reso conto di quanto lei tenesse a Dego, e vedere tutta quella disperazione trattenuta dalle pastoie del ruolo che rivestiva gli aveva fatto male al cuore.

Quando aveva preso il comando delle ricerche del fuggitivo lei non si era opposta, altro segno del lutto interiore che la consumava. Così aveva messo tre squadre a battere la città e inviato staffette ad avvisare tutti i posti di guardia lungo le strade che lasciavano la Bassa Valle attorno alla città poi aveva fatto sellare i cavalli e aveva lasciato Roccacorva per setacciare personalmente le case, le fattorie e i capanni.

Da tre giorni cavalcava attraverso la valle, dormendo poche ore a notte e spronando i suoi a non cedere. Era sfinito, ma lo teneva in piedi la ferma determinazione a non lasciarsi sfuggire quell'assassino. Lo doveva a coloro che erano morti e soprattutto a chi era rimasto a piangerli. Ogni volta che sentiva le forze venirgli meno, il ricordo nitido del volto inespressivo di Irina e della sofferenza nascosta nei suoi occhi lo faceva rimontare in sella e puntare verso l'edificio successivo.

Uno scricchiolio proveniente dal solaio della soffitta lo fece voltare verso l'alto e poi verso l'uomo che abbassò immediatamente gli occhi, evidentemente nervoso. Iorio sfilò lento la spada dal fodero guardando tra le fessure delle tavole del soffitto sopra di lui.

Afferrò l'uomo per un braccio indicandogli la soffitta e chiedendogli a gesti come salire. L'uomo scosse la testa strizzando gli occhi. «Sono solo topi Signore. Topi, non c'è nient'altro.»

Era evidente che mentiva. Iorio lo scrutò senza perdere di vista il soffitto sopra di lui, in cerca di un qualsiasi movimento sopra le tavole. L'uomo ora era perfettamente immobile, ma si era spostato di lato mentre parlava e si era infrapposto tra lui e una delle porte. Con un brusco spintone Iorio lo scostò spalancando la porta, individuando subito la botola sul soffitto.

Afferrò la scala a pioli posata in un angolo.

«Non c'è nessuno vi dico!» ripeté l'uomo cercando di distoglierlo. «Solo marciume e topi, Signore!»

«Fatevi da parte!» ordinò Iorio, usando poi la scala come ariete contro la botola che si spalancò sbattendo rumorosamente. Uno strillo soffocato frenò l'impeto di Iorio.

«È mia figlia!» gemette l'uomo. «Mia figlia si nasconde in soffitta!»

«Fatela scendere» ordinò Iorio brusco, furioso per la stupidità dell'uomo e frustrato dall'ennesimo buco nell'acqua.

Poco dopo il grazioso viso di una giovane si affacciò alla botola, rigato di lacrime di paura. L'allevatore l'aveva nascosta con il proposito di tenerla al sicuro dalle possibili attenzioni indesiderate dei soldati.

Quando la ragazza fu tra le braccia del padre Iorio salì per controllare che non ci fosse nessun altro quindi riscese.

«Mentire a un uomo di Sua Signoria è un reato grave» tuonò furioso. «Vi dovrei far trascinare fino alle prigioni di Roccacorva!»

In cuor suo comprendeva le ragioni dell'uomo e si pentì almeno in parte dell'evidente terrore sui volti dei due, ma era stanco.

«Siete fortunato che non ho tempo da perdere» tagliò corto ignorando le balbettanti scuse dell'uomo e rinfoderando la spada uscì dalla casa.

I suoi uomini avevano completato l'ispezione, lo attendevano vicino ai cavalli. Iorio montò in sella e fece cenno di rimettersi in marcia.

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