Capitolo XXXIV

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Nicodemo si stese tra la paglia, sfinito. Fuori dal fienile si era fatto scuro e nell'aria gelida le stelle erano le uniche padrone del cielo. Ka Rhana l'aveva di nuovo messo a fare la lepre per i cani di Roccacorva, ma il gioco iniziava a farsi duro. Il Capitano Iorio era un cacciatore implacabile e lo stava incalzando sempre più dappresso, ci era andato vicino due volte quel giorno. Se chiudeva gli occhi quasi gli sembrava di sentire ancora gli zoccoli dei cavalli che sopraggiungevano.

Si massaggiò la mano intorpidita, la cicatrice l'aveva fatto dannare per tutto il pomeriggio, pungendo e dolendo a tratti fino a divenire un tormento. Si augurò che non fosse il tempo che stava per cambiare, se avesse ripreso a nevicare sarebbe stato un bel problema per lui. Doveva resistere ancora qualche giorno e poi avrebbe potuto tirare il fiato, il Capitano avrebbe dovuto desistere, ridurre gli uomini che lo braccavano. Con una guerra alle porte non poteva permettersi un tale dispendio di forze per un solo uomo. Inoltre non avevano ucciso nessuno di veramente importante: solo qualche soldato e il tirapiedi dell'Inquisitrice dei Sette Chiodi. Quel Dego aveva avuto la sfacciata presunzione di provare a cavarsela, gli era andata bene con Lor Kon, aveva provato un certo rispetto per lui quando l'aveva visto abbattere il gigante, ma con Ka Rhana non aveva avuto nessuna possibilità. Ripensare alla fluidità con cui lei si muoveva attorno a lui, anticipando i suoi movimenti, frustrando i suoi tentativi di attaccare, gli fece correre un brivido lungo la schiena. Era stato incredibile vederla all'opera, terrificante e sublime al tempo stesso.

Una nuova fitta alla mano gli fece digrignare i denti. Aprì e chiuse le dita stringendole a pugno guardandole contro la luce notturna. Non era mai successo prima che gli facesse così male.


Un lieve scricchiolio fece aprire gli occhi a Milla. La porta della sua stanza si era appena aperta e anche se nell'oscurità quasi completa non vedeva niente, sentiva di non essere più sola. Strinse gli occhi e spinse la vista nell'Oltre, individuando la sagoma di Sisifo che recuperava la ciotola vuota della sua cena dal tavolo per poi avvicinarsi al letto. Lo guardò chinarsi verso di lei senza il minimo suono e dilatare le narici di quel disgustoso volto senza occhi per poi annusarla. Rimase immobile.

«Il tuo cuore e il tuo respiro ti tradiscono vasetto di miele» ghignò Sisifo ritraendosi. «Lo sento che sei sveglia e che mi hai sentito.»

«Non sei poi così silenzioso. Vattene brutto pervertito!»

Ripiombando nell'oscurità del mondo reale lo sentì ghignare divertito e poi la porta richiudersi. Strinse di nuovo gli occhi per vedere se era realmente uscito e solo quando fu certa di essere sola si strinse meglio nelle coperte e poi si spinse fuori, tornando nell'Oltre.

Si tirò su a sedere, guardando il suo corpo disteso nel letto. Nell'Oltre non esisteva differenza tra giorno e notte, poteva comunque vedere le sagome luminose di tutto ciò che la circondava: l'aura fumosa della pietra, quella azzurrina del legno dell'edificio e quella più vivida, di un azzurro intenso, delle piante vive che circondavano il rudere. Per questo nell'Oltre riusciva a vedere la pallida sagoma di Sisifo anche nel buio della stanza.

Oltrepassò la porta avvertendo la consistenza del legno attraverso la sua anima, o quello che era, pur continuando a sentire il calore delle coperte attorno al corpo. Uscì nel corridoio e per prima cosa controllò che Asmodeo non si fosse mosso. Non era difficile capirlo visto che era il fulcro di tutti i tralci sparsi sui pavimenti del sotterraneo. Accertato che fosse ancora nel suo laboratorio prese la rincorsa e si lanciò contro il muro di fronte; il freddo brivido prodotto dalla pietra era un po'come lanciarsi in uno stagno ghiacciato e sebbene fosse molto pratico poter attraversare i muri, non era altrettanto piacevole. Girò allargo dal tavolo ove era stata a lungo legata guardando con timore la massa fremente di lunghi tentacoli nero rossicci che si contorcevano aggrappati alle fibre del legno e scavalcò alcuni legami facendo attenzione a non inciamparci.


Il tralcio che aveva frettolosamente lasciato andare quando lo scricchiolio della porta l'aveva richiamata nel suo corpo reale era ancora nell'angolo dove l'aveva trovato. Lo prese con la mano e si lasciò trasportare fino alla sua estremità tornando nel fienile dove si nascondeva il mercante di spezie, il cui vero nome aveva appreso essere Nicodemo.

Viaggiando lungo i tralci non sentiva i suoni, non afferrava le parole che venivano pronunciate, ma poteva distinguere emozioni e pensieri dei "Legati". Così aveva appreso il nome di Nicodemo e così sapeva che era nei pasticci. Guai grossi a dire il vero. C'era qualcuno che lo braccava da vicino, qualcuno che gli avrebbe fatto cose davvero brutte se lo avesse trovato.

Milla provava una certa soddisfazione a sapere che Nicodemo era così preoccupato. Era stato lui a trascinarla in quell'incubo, lui l'aveva consegnata ad Asmodeo, sua la colpa se non aveva più i suoi occhi. Il fatto che anche lui fosse un "Legato" non glielo faceva risultare meno colpevole. Così quando quel pomeriggio, in un momento di ozio, si era trovata il suo tralcio tra le mani e aveva scoperto la situazione in cui si trovava, aveva deciso di ripagarlo di tutto il male che le aveva fatto.

Non poteva interagire con le persone nel mondo reale, ma aveva scoperto che poteva influire sui "Legati" tramite i tralci. Poteva tirarli provocando loro intorpidimento e con strattoni più forti causare anche fitte di dolore. Così Milla aveva preso a tirare il tralcio ed era andata avanti per tutto il pomeriggio, ogni volta che ne aveva avuto l'occasione. Per quello adesso era lì, per restituire a Nicodemo un po' della sofferenza che le aveva inflitto.

Lo guardò rintanato come un ratto sotto la paglia. Percepiva il suo nervosismo e anche la stanchezza che lo pervadeva e che stava per fargli guadagnare la serena incoscienza del sonno. Lei però non intendeva rendergli le cose facili. Tirò il tralcio sentendolo trasalire per una fitta di dolore. Lasciò andare un po' la presa guardandolo massaggiarsi la mano e poi tirò di nuovo. Sarebbe stata una lunga notte.

***

Inginocchiato nel suo studio, Asmodeo aveva tracciato a terra i tredici simboli che raffiguravano guida e legame, il serpente Ouroboros, Marte e Venere, affiancati ancora dal simbolo di Venere, il pianeta nel segno di Evi Rhana. Aveva poi atteso fino a sentire il contatto, il momento in cui la mente della sua bambola fosse passata sotto l'ala del corvo entrando nello stato di quiete associato al sonno.

Quando la mente di Evi Rhana sfiorò la sua, segnò con il sangue il numero magico del loro legame, ruppe la superficie della materia e chiuse gli occhi poiché dove stava andando non serviva guardare per vedere.

Evi Rhana comparve portando con sé l'immagine del sogno in cui la sua mente era rinchiusa. Ognuna delle sue bambole portava dentro di sé l'immagine di un particolare luogo legato a un ricordo che avevano di lui. Nell'immagine di quel luogo ogni volta lui le raggiungeva in sogno, come un ragno che raggiunge la sua preda intrappolata in un bozzolo di seta.

Per quello aveva chiesto a Ka Rhana di uccidere il messaggero. L'ultima volta che l'aveva raggiunta, lei per la prima volta aveva scelto un luogo nuovo e portato il bifolco con sé nel sogno. Questo poteva significare solo che si stava creando una forte connessione tra i due. Quella sciocca si stava innamorando e non poteva permettere che succedesse. L'unico legame che lei potesse avere era quello con lui. Solo con una totale dipendenza poteva garantirsi cieca ubbidienza.


Il luogo di Evi Rhana era il bordello in cui l'aveva conosciuta, incinta, in pieno travaglio e prossima alla morte per via del bastardo che le era cresciuto nel ventre e che si rivelava tanto inetto da non avere la forza di nascere. Quel giorno l'aveva salvata estirpando il piccolo parassita e poi l'aveva portata con sé per curare il suo corpo e il suo cuore malandato, prendendosi in cambio la sua vita.

Evi Rhana entrò nella sala del bordello appoggiandosi languida contro la porta, indossava un abito provocante, un sapiente equilibrio di sfarzo e impudicizia. I boccoli biondo miele erano acconciati con sapienza per incoraggiare lo sguardo a percorrere la linea candida e nuda del collo.

«Iniziavo a pensare che vi foste dimenticato di me» esordì con un sorriso sornione. «La vita di corte mi piace, ma alla lunga mi annoio. Sono stanca di giocare con quel maiale di Goffredo e di frustrare l'ego di quell'oca giuliva di sua moglie. Ditemi che avete qualcosa di nuovo per me.»

«Tu hai qualcosa per me?»

«Tutto quello che volete» sorrise ammiccante EviRhana attraversando la sala verso lo scaffale dei liquori. Asmodeo rifiutò con un gesto secco l'offerta di unirsi a lei e la osservò in silenzio versarsi da bere. Lei si prese il suo tempo per gustare il liquore e il crescente cipiglio del suo Signore. Prese a parlare un momento prima che lui decidesse di rimetterla in riga, rabbrividendo di piacere nel vederlo trattenere la rabbia.

«Se vi riferite solo alle notizie su questa barbosa guerra allora ho delle novità. Goffredo ha ricevuto finalmente i dispacci che attendeva. Le forze di Marteana si muovono. La falsa missiva di Varona che ho fatto intercettare, in cui si prendevano accordi con Roccacorva per nuovi contratti commerciali ai danni della confederazione dei mercanti di Marteana, ha dato la giusta spinta in tal senso. Sono state superate tutte le ritrosie del nostro alleato a mettersi in marcia prima della primavera. I ricognitori dicono che la strada per l'Altavalle è sgombra e transitabile e che anche il Passo dell'Orso sarà percorribile per quando l'esercito sarà giunto. Già nei prossimi giorni si prevede l'invio di un distaccamento in avanguardia.»

Il silenzio di Asmodeo le disse che aveva fatto un buon lavoro e che poteva osare ancora un po'.

«Ora ditemi che sono brava e datemi qualcosa di nuovo da fare. A breve Goffredo partirà con l'esercito e non avrò più nessuno da fare fesso o da tormentare. Non vorrete mica lasciarmi nell'ozio? Divento indisciplinata se mi annoio.»

«Farai quello che ti dico, quando te lo dico» disse secco Asmodeo.

«Siete ingiusto con me! Io faccio la brava e tutto il divertimento lo riservate alle altre.»

Sostenne caparbia lo sguardo di Asmodeo e poi con un sorriso sfrontato tornò a bere. Il Padrone doveva proprio essere soddisfatto del suo operato se le permetteva di passarla liscia. Gli scoccò un'occhiata vittoriosa da sopra il bordo del calice e fu allora che si accorse del suo errore.

Il Padrone non le aveva concesso un bel niente, si era semplicemente disinteressato di lei, distratto da qualcosa che ora lo faceva dissolvere in neri filamenti di oscurità. Con uno strillo furioso Evi Rhana scagliò il bicchiere contro la nuvola nera che era stato Asmodeo. Rimasta sola urlò di nuovo e lanciò la bottiglia contro lo scaffale, poi con un ultimo strillo, imbronciata si lasciò cadere su una sedia nella sala vuota.

***

Milla tirò ancora il tralcio, più forte, guardando Nicodemo trasalire di nuovo. Lo guardò sollevarsi a sedere, massaggiarsi la mano intormentita poi scrollarsi di dosso il fieno che lo copriva e rabbrividire nella gelida aria notturna mentre si riallacciava la cintura con il fodero del lungo pugnale e infilava gli stivali.

In un primo momento pensò che avesse deciso di rinunciare a dormire poi, tra le tavole del fienile e le ombre azzurrine della vegetazione, vide le quattro sagome di luce degli uomini e quelle altrettanto luminose dei loro cavalli. Nicodemo forse non riusciva a vederli per via dell'oscurità, ma probabilmente li aveva sentiti.

Lo guardò uscire furtivo dal fienile e strisciare dietro la vegetazione mentre i quattro uomini giungevano dal sentiero sul lato opposto. Sui corpi luminosi degli uomini vedeva il grigio scuro dell'acciaio, lunghe spade, scudi e il fitto reticolo delle cotte di maglia. Aggrappata al legame di Nicodemo si lasciò trainare, seguendolo fuori dal fienile. Strinse gli occhi e vide nell'oscurità notturna, inconfondibili, i colori delle gualdrappe di Roccacorva. Non aveva mai simpatizzato per i soldati, ma era da loro che Nicodemo fuggiva e una volta tanto si trovò a parteggiare per loro.

Tornò a guardare nell'Oltre. I corpi dei cavalli e quelli degli uomini avevano colori che variavano dal roseo al dorato al rosso, mentre quello di Nicodemo era bianco lattiginoso come il suo. Aveva già notato come i corpi dei Legati fossero bianchi, a volte striati di nero, mentre quelli delle persone normali portavano in sé più colori che si mescolavano continuamente dando origine a sfumature dal rosa al dorato al rosso, a volte al grigio. In quel momento quella variazione cromatica, la differenza tra il bianco malato di Nicodemo e il caldo colore vivo dei quattro che sopraggiungevano, le fece provare un vivo disgusto.

Subito dopo giunse amaro il pensiero che pur senza volere aveva aiutato Nicodemo. Era riuscito a sentire i soldati perché era sveglio ed era sveglio perché lei non l'aveva fatto assopire. Ora, per colpa sua, rischiava di farla franca e questo non poteva permetterlo.

Tirò con tutte le forze il tralcio, sentì il dolore di Nicodemo, ma lo vide stringere il pugno e continuare a muoversi. I soldati adesso erano vicinissimi a lui, ma non potevano vederlo. Avrebbe atteso che loro entrassero nel fienile per darsela a gambe. Milla non voleva che accadesse. Puntò i piedi e tirò ancora nel tentativo di rallentarlo, di fargli tanto male da fargli scappare un urlo, ma priva di peso e di consistenza non sortì alcun effetto.

Tirò ancora poi, senza sapere veramente quello che stava facendo, afferrò il tralcio e girò attorno a Nicodemo nel tentativo di legarlo con esso, ma il legame si limitò ad attraversare il corpo di lui senza interferire in nessun modo.

I soldati stavano scendendo da cavallo: erano a meno di cinque metri da lui e al tempo stesso irrimediabilmente prossimi a lasciarselo scappare. Una volta entrati nel cono d'ombra del fienile lui avrebbe avuto la via libera per allontanarsi senza essere scorto e una volta che fosse stato sufficientemente distante, l'oscurità e la vegetazione avrebbero protetto la sua fuga.

Milla tirò e tirò ancora, ma non funzionava. Ogni suo sforzo si stava rivelando inutile.

Si volse a guardare i soldati. In tre stavano avanzando verso il fienile, allargandosi per circondare il fabbricato, il quarto restava vicino ai cavalli. Pochi passi ancora e nessuno avrebbe più potuto vederlo fuggire. Sentì la paura e la stanchezza di Nicodemo mutare in una beffarda gioia. A dispetto di tutto l'avrebbe fatta franca di nuovo.

Piena di frustrante impotenza Milla tornò ad afferrare il tralcio con entrambe le mani. Ci fu un'esplosione di luce bianca e subito dopo avvertì una spaventosa sensazione di debolezza. Come tramortita Milla vide la sua mano sinistra cambiare dal bianco al rosso e poi il filo d'oro che passava tra l'indice il medio. L'aveva accidentalmente intercettato con la mano mentre afferrava il legame di Nicodemo e aveva stretto assieme filo e tralcio.

Cercò di lasciare andare la presa, ma la mano sembrava pietrificata e lei si sentiva come risucchiare.

Devo muovermi se non voglio farmi beccare.

Era un pensiero di Nicodemo, ma era nella sua testa. Cercò di ignorarlo, doveva staccare la mano a ogni costo.

Fa' un altro passo amico, avanti! Togliti dai piedi!

Anche quel pensiero non le apparteneva, così come l'urgenza quasi fisica di vedere il soldato sparire oltre la linea dei cespugli. Milla cercò di concentrarsi sui propri pensieri, guardando le sue dita farsi nere e secche come carboni anneriti mentre il tralcio che stringeva prendeva a illuminarsi di luce dapprima rossa e poi bianca. Fu allora che le sue gambe presero a muoversi senza che lei lo volesse e nel più totale panico sentì sul volto un sorriso che non le apparteneva.

Nicodemo scivolò fuori dal nascondiglio e conquistò la sua occasione di fuga.

Ancora pochi passi e ce l'ho fatta!

Milla cercò disperatamente di ritrovare il controllo del corpo guardando il suo avambraccio bruciare di luce rossa, lasciandosi dietro un moncherino nero e spento. Era tutto inutile, le sue braccia non volevano muoversi e le sue gambe invece si muovevano senza potersi fermare. I pensieri di Nicodemo le urlavano nella testa più forte dei suoi, annichiliti dall'orrore.

Ce l'ho fatta! Portate i miei saluti al vostro Capitano e baciatemi il culo!

Si sentiva sempre più confusa, il suo panico e la folle gioia di Nicodemo coesistevano e si mescolavano senza senso. Il filo d'oro mandava scariche di luce bianca contro il tralcio davanti ai suoi occhi, galleggiando senza peso in quel mondo di silenzio. Lo guardò senza essere certa di riuscire a capire cosa stesse vedendo. Vedeva anche erba alta, cespugli e oscurità, la linea del bosco sempre più vicina. Il cuore batteva forte per la corsa. O era per la paura?

Questa dannata mano d'inferno mi ha salvato la pellaccia!

La sua mano destra galleggiava vicino al filo dorato. Ma era o non era lei che stava correndo via dai soldati?

No. Lei si stava spegnendo come un tizzone consumato dal fuoco. Il nero le aveva risalito quasi tutto il braccio.

Sto morendo

Quel pensiero tanto forte e tanto fuori luogo trafisse Nicodemo come un pugnale. Non era suo quel pensiero, non era sua neppure la voce che l'aveva pensato. Quell'esitazione, quel breve vuoto si riempì del terrore di Milla. Nicodemo cacciò un grido strozzato dando voce a un terrore non suo e fu tradito dalle sue stesse gambe. Incespicò e incapace di ritrovare l'equilibrio cadde faccia in avanti.

Sto morendo!

La spaventosa realtà di quel pensiero fu capace di riscuotere Milla. Allungò la mano destra, afferrò il filo dorato e tirò con tutte le forze che le rimanevano. Vide la mano sinistra annerita spezzarsi, andare in briciole, il filo avviluppato al tralcio di Nicodemo stringersi e schiantarlo. Tranciato di netto, il legame si carbonizzò all'istante lasciando dietro di sé frammenti e polvere neri. Vide Nicodemo urlare afferrandosi la mano mentre lei veniva risucchiata nella tenebra.

***

Asmodeo dischiuse gli occhi nel suo studio e si alzò in piedi. Aveva rotto il contatto con Evi Rhana perché qualcosa di inaspettato era accaduto. Uno dei suoi servi era appena morto. Il legame si era interrotto all'improvviso e in modo tanto netto da non lasciare dubbi sulla natura violenta della morte.

Si versò un bicchiere di liquore massaggiandosi la testa. Si sentiva lievemente tramortito per l'impatto della morte sull'equilibrio dell'Atanator, il vortice di energia che per anni aveva accresciuto attorno a sé con ripetuti prelievi di forza vitale e che usava come fornace per forgiare i suoi legami. Ci sarebbe voluta qualche ora perché i flussi di energia si stabilizzassero e l'Atanator riprendesse una rotazione regolare. Era stato insolitamente intenso. Si domandò se fosse stata uccisa una delle sue bambole. Era con loro che l'Atanator aveva vincoli più intensi.

Doveva accertare cosa fosse successo e doveva farlo rapidamente. Se avevano ucciso Ka Rhana l'intero piano rischiava di andare a rotoli, se invece era stata uccisa Hie Rhana allora avrebbe dovuto trovare rapidamente dei rinforzi per compensare la perdita. In ogni caso non sarebbe stato facile. Se Learco avesse avuto il tempo di mettere insieme troppi indizi rischiava di comprendere il suo vero obiettivo.

Nonostante il senso di vertigine e una lieve nausea tornò a inginocchiarsi. Tracciò a terra tredici nuovi simboli che raffiguravano ricerca e legame, ancora il serpente Ouroboros e poi Sole, Luna e il simbolo del ferro. Con il sangue segnò il numero magico delle due bambole.

Le trovò entrambe. Erano vive. Ripeté ancora aggiungendo i numeri di ogni legame partendo da quelli maggiormente esposti. Nicodemo fu tra i primi e Asmodeo scoprì chi era colui che era morto.

Era un'eventualità a cui avrebbe dovuto pensare: dopotutto da giorni Nicodemo si tirava dietro il Capitano Iorio e i suoi uomini. Non gli era chiaro come mai avesse avvertito un impatto così forte, ma accantonò l'interrogativo per valutare il più pressante quesito di come la morte di quell'inetto potesse influire sul progredire del piano.

Dopo il suo coinvolgimento nella storia di Lucrezia, Nicodemo non aveva più nessun ruolo chiave nello schema delle cose e dopo la morte di Lor Kon, la morte di un suo secondo servitore non avrebbe dato altri indizi rilevanti ai suoi nemici. Poteva anzi sembrare che le sue forze nella città fossero state sbaragliate. Era in fin dei conti un danno minore, ma non gli piaceva la quantità di imprevisti che si stavano verificando, tutti causati dalle disattenzioni di Ka Rhana.

Prima l'errore fatto con la Badessa e poi il piano che l'aveva portata a dover sacrificare due pedine per riuscire ad uccidere un solo Inquisitore. Nonostante tutto l'addestramento si stava dimostrando debole. Troppo emotiva. Quando tutto fosse finito avrebbe dovuto prendere provvedimenti e magari, per evitare ulteriori deviazioni, avrebbe potuto sostituirle il cuore, il centro dei sentimenti, come aveva fatto con Evi Rhana.

***

Le urla di Nicodemo richiamarono i soldati. Lo raggiunsero trovandolo a terra che schiumava dalla bocca tenendosi la mano. Era violacea e gonfia, lucida come cera, sotto la superficie le vene erano divenute nere. In più punti lungo la vecchia cicatrice la carne si era squarciata e fuoriusciva pus giallastro. Anche il ventre si era gonfiato ed era nero, come se la cancrena avesse covato nei suoi visceri per anni e ora, all'improvviso fosse dilagata come un incendio sull'erba secca.

Nessuno dei quattro uomini ebbe il coraggio di avvicinarsi a sufficienza da porre fine alla tremenda agonia che lo faceva dibattere come una bestia rabbiosa. Restarono a guardarlo inorriditi, colti da un terrore superstizioso mentre le urla divenivano gorgoglii e le convulsioni si facevano sempre meno intense fino a cessare del tutto. Non si avvicinarono nemmeno quando fu chiaro che fosse morto.

***

Stesa nel letto Milla spalancò gli occhi e si volse per vomitare. Cercò di soffocare i conati per non farsi sentire poi restò stesa nel letto, fradicia di sudore e al tempo stesso gelida, con il battito del cuore come impazzito, il respiro accelerato e lo stomaco tormentato dalla nausea.

Il braccio e la mano sinistra nel mondo reale c'erano ancora anche se erano intorpiditi e insensibili come se ci avesse dormito sopra. Non aveva il coraggio di guardare nell'Oltre. Non voleva più vedere quello spaventoso moncherino annerito. Non voleva più provare la tremenda sensazione di smarrire la mente e la consapevolezza di chi era. Fu scossa ancora dai conati, ma non vomitò niente se non un po'di bile. Il suo stomaco era ormai vuoto.

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