13.1

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«Mamma! Ho paura!» gridò Hermit, appena Anita ebbe chiuso la botola dell'oikarion, finalmente libero di urlare e di piangere senza attirare l'attenzione dei compagni di clan. Insieme alla sorella, si attaccò di nuovo al corpo della madre, con una presa salda, non volendola lasciare andare.

«Hermit, Sofia, adesso potete stare tranquilli» mormorò Anita, abbracciandoli a sua volta, ma ancora senza scomporsi davanti ai due bambini. Era o non era la madre? Non poteva iniziare a lamentarsi davanti ai suoi figli, quando loro per primi avevano la necessità di essere consolati.
«Ma, mamma!» gridò ancora il maggiore dei due, passandosi un palmo su un occhio per poterla vedere. «Quelli avevano le lance e le puntavano contro di te, come... come...» Non riusciva a terminare la frase: Anita immaginava che la prospettiva di perderla davvero fosse intollerabile da parte sua.
«Mamma, ti volevano...» gli fece eco Sofia, che aveva smesso di piangere a dismisura e si limitava a guardarla mogia con i suoi grandi occhi azzurri, faticando anche lei a esprimere l'idea della morte della madre, «mandare in quel posto da cui non si torna più?»

«Lasciate perdere» minimizzò Anita. «Non è importante».
Ma i due, ancora scandalizzati, non l'avrebbero certo ascoltata: avevano bisogno di spiegazioni. «Ma perché? Tu sei tanto buona».
«Esatto, perché? E perché volevano fare male anche ai neoteroi

Ma non c'erano spiegazioni in merito a ciò che avevano visto: non esiste un perché all'odio covato dall'essere umano per gli altri suoi simili.
«Avanti, le conoscete le storie che raccontano sui neoteroi. E allo stesso modo conoscete le leggi dell'isola» troncò la conversazione Anita. Non voleva parlarne. Forse discutere con loro e trovare una spiegazione falsa ma credibile sarebbe stato l'unico modo per tranquillizzare i due piccoli, ma la donna non aveva la forza di ripercorrere ancora i momenti di poco prima e parlarne sarebbe stato equivalente.

«Ma tu sei buona...» continuò a protestare Sofia, che come ogni bambino non si accontentava della prima risposta elargita. «Tu non ci tradiresti mai, e neanche i neoteroi, anche loro sono buoni».

«Sofia, se proprio lo vuoi sapere a questo non c'è una risposta» sbottò Anita, stanca di quelle domande: desiderava solo sdraiarsi sul suo giaciglio, chiudere gli occhi e sperare che la morte la colpisse. Vedendo gli occhi della figlia che continuavano a scrutarla, appena delusi e feriti, si pentì subito di quel pensiero e provò a rimediare: «Ho solo... avanzato delle ipotesi» continuò, addolcendo il tono della voce. «Non può sempre andare tutto bene e quando qualcosa va male non è detto che ci si riesca a spiegare il perché. Così si trova qualcuno su cui riversare la colpa: tra voi del clan non potete farlo, a causa delle leggi dell'isola, ma su quelli di altri nessuno lo vieta. Noi neoteroi diventiamo così il capro espiatorio degli inevitabili problemi che sorgono all'interno di Tou Gheneiou».

Sofia continuava a guardarla, adesso incerta: «Mamma, non capisco».
«Nemmeno io capisco» ribatté Anita. Cosa voleva arrivare a capire? Di razionale nell'essere umano c'è ben poco, e tutto ciò che non lo è non è comprensibile. Come poteva pensare di capire quella paura istintiva e illogica che i Gheneiou avevano nei confronti di loro neoteroi?

«Mamma».
Anita alzò la testa, sentendo di nuovo la voce flebile di Hermit, che cercava di trattenere i singhiozzi, non volendo più piangere e mostrarsi debole.
«Che c'è, Hermit?»
«Non voglio vederti triste» rispose il bambino, indicando la faccia di Anita, che automaticamente la donna andò a toccarsi, percependo una lacrima umida alla base della guancia. Non poteva persino aver pianto di fronte ai suoi figli.

«Non te lo meriti!» completò Sofia, prendendo tra le sue piccole mani quella della madre solcata dalla cicatrice grazie a cui aveva ottenuto i suoi miseri poteri. Anita spostò lo sguardo da quell'ennesimo fallimento, e questo andò spontaneamente a posarsi sui volti dei due bambini, tutto ciò che di buono avesse fatto nella sua vita.

Si slanciò ancora verso di loro, cingendoli più forte, come se fosse lei ora a non volerli lasciare andare.
«Non preoccupatevi per me» sussurrò, sentendo il calore dei figli, che sentiva di dover proteggere, riuscendo a non scomporsi per questo motivo, ma di cui sentiva anche il bisogno: se non ci fossero più stati, loro e gli altri tre, cosa avrebbe potuto fare? «Si risolverà tutto, come è sempre successo» mentì: non si era mai risolto nulla, al massimo la tensione tra lei e il resto del clan era rimasta quiescente. Ma loro avevano bisogno di tranquillizzarsi, di avere un'illusione a cui aggrapparsi, e lei sentiva la necessità di vederli sereni, per non stare ancor più male.
«Anche quelli che volevano farti male torneranno a essere buoni?» chiese conferma Sofia.
«Sì, tesoro, sarà così» rispose Anita, ma senza aggiungere altro. Non disse "te lo prometto", come faceva di solito quando garantiva qualcosa ai suoi figli: non aveva nulla da garantire, possedeva solo qualche vana parola.

Restarono a lungo in quella posizione, mentre la donna sentiva i respiri dei bambini che andavano normalizzandosi. Le urla provenienti da sotto, per quanto continuassero a persistere, si erano per lo meno calmate, per chissà quale motivo adesso, e almeno grazie a questo avevano ottenuto un po' di tregua, per assaporare al meglio, tutti e tre, quel forte abbraccio consolatorio.

«Mamma». Fu Hermit il primo a staccarsi dalla stretta, accertandosi per prima cosa che sul volto di sua madre non fossero scorse altre lacrime. Dopodiché, trattenendo uno sbadiglio, iniziò a osservarla, finché quella non gli rispose: «Sì, Hermit?»
«Posso fare un riposino, anche se è pomeriggio?» borbottò il piccolo, parlando a bassa voce: sapeva che il riposino pomeridiano era un'attività da piccoli e sicuramente si vergognava di averla richiesta dall'alto dei suoi nove anni. «Tutte le urla mi hanno stancato tanto... Ho male alle orecchie» provò a giustificarsi poi, mentre lanciava alcune occhiate a Sofia, per appurare che non lo stesse deridendo. Ma anche la sorellina, sempre pronta a trovare un pretesto per sentirsi superiore al fratello, non avrebbe mai detto nulla contro quella richiesta, che anzi sembrava allettare anche lei; non voleva ammetterlo, così si limitava a spostare lo sguardo da Anita, a Hermit al suo giaciglio, con gli occhi già assonnati.

«Andate pure, per oggi va bene così» diede loro il permesso Anita e i due fratellini si alzarono per precipitarsi sui rispettivi giacigli. La donna li vide infilarsi sotto le coperte e dopo pochi istanti non sentì più altro se non il suono regolare dei loro respiri.

Anita si accasciò a terra, non più costretta a sembrare forte davanti ai suoi figli. Finalmente, trasportati dalle lacrime, potevano fuoriuscire tutti i sentimenti che aveva trattenuto a fatica. Silenziosa, iniziò a piangere, contorcendosi sul pavimento fino a rannicchiarsi in posizione fetale, le mani strette vicino al cuore, che aveva rischiato di smettere di battere, trafitto da una lancia. Anita in realtà lo sentiva dissanguato dalle frecce di odio che per tanto tempo le erano state scagliate addosso, nessuna reale, forse per questo così dolorose.

Ma più di tutte ce n'era una che l'aveva ferita tanto che più di quel dolore poteva esserci solo la morte: quella scagliata da sua figlia.

«Mi ha messo al mondo, è vero. Non ha fatto altro. Non è mia madre». Quelle parole rimbombavano ancora in lei e come un coltello affilato rigiravano l'enorme squarcio che avevano aperto la prima volta, quando era nata, e che da allora non aveva smesso di sanguinare.

Il parto. Il suo primo parto. Una giornata intera - con nessun altro figlio aveva penato tanto - intenta a spingere, ad affaticarsi, a disperarsi per il dolore, pur di disvelare la luce del mondo alla creatura che per nove mesi era rimasta dentro di lei. Si era svegliata la notte, dilaniata dalle contrazioni, e da allora non aveva fatto che ansimare e urlare e mordersi la lingua perché delle altre due azioni non ne poteva più, finché non aveva sentito un grido unanime di gioia - una femmina! - provenire dalla levatrice e da suo marito. E subito dopo un vagito. Le lacrime non si erano fermate, anzi, si erano intensificate per la felicità a sentire la voce di sua figlia. Stanca e dolorante, si era sporta in avanti, tendendo le braccia verso la levatrice, già desiderosa di consolare la sua bambina. E quella l'aveva illusa. Con un sorriso, gliel'aveva mostrata e avvicinata e, mentre lei aveva provato ad afferrarla, per stringerla tra le sue braccia e porgerle il suo seno, l'aveva tirata indietro, tra le proteste di suo marito rimaste ovattate; quindi l'aveva porta all'ultima figura nella stanza, che con il passo sicuro e pesante che la contraddistingueva era uscita dall'oikarion pronunciando poche parole che non sarebbero mai svanite dalla sua mente: «Brava, l'hai messa al mondo. Il tuo compito finisce qui. Non sarà una neotera a essere la madre della futura anaxa di Tou Gheneiou».

Non avrebbe mai immaginato che un giorno sua figlia avrebbe pronunciato frasi così simili a quelle della nonna.

«Anita, di sotto è arrivato Gen-».
Anita alzò la testa, accorgendosi, ancora prima dell'arrivo del giovane uomo, di come si era ridotta: sdraiata sul pavimento, aggrappata con le unghie alle travi di cui era composto fino a formare dei segni sopra di esse. I capelli erano riversati davanti ai suoi occhi, appiccicati su tutta la faccia venendo a contatto con le lacrime. Li scostò dal volto per poter vedere chi fosse sopraggiunto e si stupì percependo quanto fosse bagnato: ma quanto aveva pianto?

Alla fine riconobbe di fianco alla botola ancora aperta la figura snella di Mijime, che la stava guardando sorpreso, ma Anita sapeva che quella era soltanto la maschera per nascondere l'apprensione. Probabilmente, se avesse continuato a piangere davanti a lui, se ne sarebbe andato, ma la donna sentiva il bisogno di avere qualcuno - chiunque! - vicino. Si passò le mani alla meglio per togliersi le lacrime dal viso e si impose di smettere di versarne. Guardò di nuovo verso Mijime: era ancora lì, nella stessa posizione di prima, come unico cambiamento la botola chiusa.

«Scusami» mormorò Anita, rivolgendo gli occhi verso il basso: non voleva essere vista in quello stato così misero, così umiliante, e cercava di nascondersi, invano.
«No, scusami tu» si affrettò a dire Mijime, con il solito tono distaccato, che Anita apprezzava, in particolare in quel momento: si sentiva già abbastanza soffocata dalla vergogna, non aveva bisogno che qualcuno cercasse di consolarla e compatirla con frasi di cortesia. «Non volevo disturbarti. Ero solo venuto per dirti che la prima danzatrice ha condotto sulla piattaforma tuo marito, che adesso li sta mettendo a posto. Una volta finito, arriverà da te».

A quella notizia nell'animo di Anita non mutò nulla: in qualsiasi altra occasione avrebbe sprizzato gioia al solo sentir nominare Genew, quasi fosse ancora una ragazzina innamorata. Ma, come ogni volta che i Gheneiou si sollevavano contro di lei, preferiva che il marito ne restasse fuori: sicuramente sarebbe intervenuto con punizioni varie, rischiando per l'ennesima volta di attirare su di sé l'ira dei compagni. E per cosa? Per lei. Non ne valeva la pena. Ma quando gli rivelava i suoi pensieri lui non lo accettava lo stesso: «Io più di questo non posso fare, ma è pur meglio fare qualcosa che non fare proprio niente: almeno di un passo potrei riuscire a muovermi. Non facendo niente, avrei la certezza di essere rimasto fermo». E così la gettava nell'ansia di poter perdere anche lui. Lui che, insieme ai suoi figli, era tutto ciò che aveva.

«Una rabbia simile non la provavo da tempo» continuava a dire Mijime, riscossosi appena dalla sua apatia: camminava avanti e indietro da una parte all'altra dell'oikarion, stringendo le mani a pugno e sbuffando, furente. Non l'aveva mai visto mostrare così tanto le sue emozioni. «Ma scusa, cosa credono di fare?! Un gregge di pecore, non sono nient'altro che questo! Uno più idiota dell'altro. I pecoroni senza cervello in primis, poi quell'invasato dell'Anziano. Tua figlia, poi...»

A sentire nominare Genew, Anita lo bloccò: non voleva ascoltare altro.
«Mijime, è inutile discuterne» disse, atona, facendo bloccare il giovane da quella sua marcia frenetica; si fermò a osservarla, per poi sbottare ancora, incredulo: «Come sarebbe a dire?! Hanno tentato di ucciderti e tu dici che è inutile discuterne?»

«Perché lo è» continuò quella, la voce sicura. «Sono qui da vent'anni e da tutto questo tempo, in modo più o meno incisivo, mi fanno pesare il fatto che sia una neotera. Non cambieranno mai».
«Tu per prima non tenti di cambiare» insinuò l'altro, infiammando l'animo della donna: «Pensi che non l'abbia fatto, quando ero ancora giovane? Pensi che non abbia provato a stringere delle amicizie, dei rapporti, per non sentirmi tanto sola?»

Si fermò, pentendosi del tono di invettiva che aveva assunto contro il giovane: non era su di lui, che non aveva fatto niente, che doveva riversare la sua collera. Proseguì: «Il massimo che sono riuscita a ottenere è una cortesia da parte dei più tolleranti, da molti l'indifferenza, dagli altri... be', hai visto».

Un sospiro uscì dalle sue labbra: «Eravamo ottimisti, troppo, io e Genew. Pensavamo che la nostra vita sarebbe stata meravigliosa, che la mia diversità non avrebbe cambiato nulla» sorrise malinconicamente al pensiero di loro due, giovani, stretti in un abbraccio, mentre fantasticavano su quel futuro che non avevano mai ottenuto. «Ci sbagliavamo. Lui è diventato troppo presto il capo, venendo sommerso di tutti gli incarichi che gli competono, io non sono stata accettata e, quando non c'è lui, praticamente sempre, sono sola. E non posso cambiare nulla: ormai cosa vuoi che faccia, adesso che i miei capelli hanno iniziato a diventare bianchi?»

Si prese la testa tra le mani e si accasciò di nuovo su se stessa: stava parlando con Mijime, ma era come se stesse intrattenendo un dialogo interiore. E infatti, alla visione di estremo pessimismo e quasi rimpianto, rispose subito un'altra voce, quella che dopotutto non era così insoddisfatta della sua vita; quella che per consolarsi guardava alla sua famiglia.

«Ma non importa» disse questa, convincendo e placando anche l'altra parte. «Non importa. La vita va avanti, il mondo anche. Dopotutto non è tutto male come sto facendo credere adesso. Ho i miei bambini, i miei ragazzi, ormai». Ma anche quest'ultima non riusciva a schermarsi dalla preoccupazione che assaliva l'altra: «Vorrei solo che non avessero visto tutto questo: contro di loro il clan non ha nulla, non voglio che vengano estraniati da esso per causa mia; non voglio che riprendano parte a uno scontro simile, sentendosi costretti a scegliere la parte della madre e a scagliarsi contro il loro stesso clan. Se sono vere le leggende sull'aldilà andrebbero incontro a cose che non augurerei a nessuno... Ma non lo faranno» prese di nuovo posizione la voce più tranquilla e razionale. «Tutto si sistemerà, Genew lo sistemerà».

Mijime vide Anita rivolgere di nuovo gli occhi su di lui e concludere il suo discorso: «Inutile farneticare ancora»
Rimasero in silenzio. Il giovane non sapeva cosa aggiungere: non si era mai preso la briga di consolare qualcuno e non era certo che ne avesse le capacità; ma Anita non meritava di essere consolata in modo superficiale.
«Se devi sfogarti...» la spronò infine, sforzandosi di assumere il tono più empatico che potesse: se fosse stato lui al suo posto l'unica frase che avrebbe ascoltato senza arrabbiarsi sarebbe stata quella.

«No, no» scosse la testa Anita, vigorosamente: lo aveva intrattenuto anche troppo con i suoi discorsi inutili, non era giusto che continuasse a parlare lei. «Piuttosto...» iniziò, cambiando discorso, ma subito notando come il giovane barcollasse anche solo a stare in piedi. «Ma sei stanco morto!» esclamò, alzandosi e avvicinandosi a lui. «Guardati la faccia, stanotte non hai dormito per arrivare qua così presto! Siediti, siediti pure» prese a esortarlo, con la stessa dolcezza che avrebbe rivolto a uno dei suoi figli, piena di vergogna per non essersi accorta prima dello stato in cui si trovava il giovane, troppo occupata a pensare a se stessa.

Mijime si adagiò sul pavimento e Anita, guardando meglio le occhiaie che gli solcavano il volto, disse in fretta: «Adesso ti porto qualcosa da mangiare». Raggiunse in un attimo la zona dell'oikarion in cui preparava le sue lozioni e il cibo per il resto della famiglia; non avendo il tempo di cucinargli qualcosa sul momento, prese qualche frutto e riempì una ciotola d'acqua.

«Tieni» disse, porgendogli il tutto e sedendosi di fianco a lui. Mijime si avventò subito sul cibo, così velocemente che finì in meno di un minuto, e Anita si precipitò a prendergli qualcos'altro. Mentre tornava da lui e gli offriva l'intera cesta di frutta, sospirò, irritata al ricordo dei Gheneiou che si erano precipitati contro di lui, pressandolo perché parlasse: «Impegnati com'erano a darvi contro, non hanno neanche pensato a trattarti con un minimo di umanità. Dunque...» provò a cambiare discorso: dei Gheneiou avevano ormai parlato abbastanza ma di cose da dire Mijime doveva averne, e non poche. «Dalle maghe è andata-» iniziò, ma subito troncata dall'altro.
«Malissimo» biascicò, ancora con la bocca piena, per poi aggiungere, avendo deglutito: «Peggio di quanto potessi immaginare».

La voce era particolarmente scossa e Anita ipotizzò: «Non c'è solo quello che hai detto di sotto, infatti».
«Il mio nome porta in sé un significato oscuro».
«Per questo volevi fartelo cambiare, ma non hanno accettato». Aveva notato che il giovane fosse costantemente turbato dal suo nome, ma non aveva pensato fino a quel punto.
«Perspicace, come al solito» ghignò Mijime.
«Avresti dovuto sapere che non avrebbero acconsentito».

«Quelle maledette!» sbottò infine il giovane, stringendo il frutto che aveva in mano tanto da distruggerlo. Accortosene, si leccò il palmo, quasi non volesse sprecare una sola particella di quel cibo.
«E quindi pensi che sia collegato con quello che vi sta succedendo?» continuò a chiedere Anita, cercando di farlo parlare, come lui aveva fatto prima con lei, perché si sfogasse a sua volta.
«Certo. E la nostra situazione non potrà che peggiorare. Abbiamo anche una divinità avversa a noi».
«Zarkros».
«No, un'altra ancora. È quella che ci ha scagliato la maledizione delle morti, ma non so chi sia. Nel viaggio di ritorno le fate mi hanno scombussolato, parlando di tutte le creature dell'isola, ma tra queste nessuna può averlo fatto».

«Hanno detto altro?» lo incalzò Anita, curiosa di quel fatto strano: da quando era sull'isola, aveva sentito parlare solo una volta di una maledizione, mascherata sotto il nome di benedizione. Una forma di maleficio simile, e tanto tremendo, non pensava potesse esistere.
«Hanno parlato della loro madre, l'Isola».
«Che non può essere stata perché dorme da secoli».
«E hanno parlato di altre... entità»
Improvvisamente Anita capì: le maghe avevano raccontato una delle loro solite mezze verità. «Tyche» mormorò, annuendo.

«Chi?» Mijime tese le orecchie alle parole della donna: voleva sentirlo bene il nome del bastardo che lo aveva costretto a essere legato per tutta la vita a quegli idioti dei suoi compagni!
«Tyche. Colei che scrive il destino degli uomini, quando lo desidera. Ascoltando le maghe, da cui mi ero recata tanti anni fa con Genew, e i racconti di Tou Gheneiou, ho capito questo: esiste un destino prestabilito per i mortali, che Silva può scrutare - non ho mai compreso quanto chiaramente - e dal quale ricava le sue profezie. Questo però non è detto che si dispieghi così come lo prevede Silva: l'uomo può cambiarlo, talvolta anche stravolgerlo. Come hai giustamente detto prima, sull'Isola non ci sono certezze, quindi nemmeno la profezia di Germanico fa parte di queste. Ma se è Tyche a intervenire, a voler che qualcosa si compia in un determinato modo, l'uomo può cercare disperatamente tutte le soluzioni che vuole, ma il destino sarà quello che è stato stabilito. Quella che le maghe vi hanno esposto come una maledizione, forse per depistarvi - si divertono tanto a farlo -, non è altro che il vostro fato: quando due di voi moriranno, le circostanze saranno state create apposta perché vengano a mancare anche gli altri quattro».

Mijime prese l'ultimo frutto nella cesta e lo addentò con forza, quasi a voler scaricare tutta l'ira che provava su di esso. E così, se ciò che diceva Anita era corretto, anche la prospettiva di poter almeno spezzare la maledizione si disintegrava.

«Grazie» mormorò senza scomporsi, porgendo la cesta e la ciotola vuote ad Anita: l'abitudine a mostrare il meno possibile ciò che provava lo aveva colto anche allora, ma nella sua mente aleggiava nascosto solo un turbine di pensieri negativi.
«Ma figurati» sentì dire ad Anita, mentre si alzava per andare a riporre i due oggetti.

Mijime piegò la testa in avanti, provando una sensazione che raramente veniva a fargli visita: la sconfitta. Per quanto spesso si sentisse impotente, come ogni essere umano, la sua forza di volontà, fomentata dall'obiettivo che lo infiammava da tutta la vita, a sua volta lo spingeva ad andare avanti e a non arrendersi. Ma adesso, dopo aver assistito persino alla violenza del popolo che li ospitava contro di loro, non sapeva davvero cosa potesse fare.

«Mijime, non abbatterti» sentì di nuovo la voce di Anita, accompagnata dal tocco che percepì sulla schiena, leggero e materno. Almeno, supponeva fosse così... Represse quel pensiero e si affrettò a rispondere, rintanandosi nel suo apparente disinteresse: «Non sono abbattuto. Sono solo stanco». Guardò alla sua sinistra, dalla parte opposta rispetto a quella dove si trovava Anita, e vide Hermit e Sofia addormentati nei loro giacigli: come voleva essere al loro posto, a riposare le membra, ma soprattutto la testa. Come voleva cadere in un sonno profondo, senza sogni e senza pensieri. Ma non poteva.

«Ma non posso riposarmi» affermò, raddrizzandosi sulla schiena. Non poteva permettersi di dormire: lui e il suo clan erano in costante pericolo. Solo una volta che questo fosse scomparso, o per lo meno diminuito, avrebbe potuto posarsi. Un piano flebile e dai contorni indefiniti iniziò a modellarsi nella sua mente: ne avrebbe cavato fuori qualcosa.

«Come non puoi? Sei appena tornato» obiettò Anita.
«Ho deciso che organizzerò per andarcene da qui» rivelò subito il giovane. «Per quanto mi risulti seccante doverla dare vinta a quella fanatica di tua figlia, non ho voglia di perdere la vita e ogni possibilità di salvezza perché il loro clan non è capace di ragionare».

Anita restò con la bocca appena aperta per qualche istante: evidentemente non se lo aspettava. Poi, un po' incerta e con un mezzo sorriso sulle labbra, annuì: «Forse, per voi che potete, questa è la scelta migliore... Per quanto mi dispiaccia. So che avete legato più con i miei figli che con me, però devo ammettere che la vostra compagnia mi ha fatto riprovare la sensazione di avere degli amici».

Mijime cercò di rimanere impassibile a quelle parole, ma non poteva negare a se stesso di essersi affezionato a quella famiglia: per quanto la sua moralità gli imponesse di non farlo, non era riuscito a non legare con loro. Tuttavia quella era l'unica strada percorribile, ormai, se non volevano persistere nel subire le violenze di Tou Gheneiou. Non essendo ancora vincolati a quella popolazione, come era Anita, dovevano cogliere il momento per andarsene.

La donna dovette aver notato che Mijime si era incupito e riportò il discorso alla realtà: «Be', è meglio smetterla con i sentimentalismi. Dovete pensare concretamente, come dici tu. Dove avresti intenzione di andare?»
«Questo non lo so. Devo ancora organizzare tutto e questo mi richiederà un po' di tempo». Avrebbe chiesto consiglio al capo del clan, che alla fine avrebbe sicuramente accettato la loro scelta, facendosi spiegare i luoghi dell'isola più sicuri e i metodi per cercare di sopravvivere e, volendo, andare alla ricerca del tesoro. E non doveva poi dimenticare l'ultima ruota del carro. «E ovviamente devo sentire dagli altri se sono d'accordo».

«A questo proposito, come farai con Bellatrix?»
Quella domanda fece riaffiorare le emozioni esplosive di Mijime: «Lei!» proruppe, ricordandosi di quella giovane testarda che aveva lasciato da sola perché non voleva dargli retta. «Che essere irritante e impulsivo! Non è possibile che anche stavolta voglia rovinare i miei piani. Senza di lei non possiamo andarcene: dobbiamo restare uniti, d'ora in poi».
«Appiccicati l'uno all'altro, come il miele sulle dita» sentenziò giocosamente Anita, riprendendo il significato del nome del loro clan.
«Esilarante» ribatté pieno di sarcasmo l'altro, rivolgendole un'occhiata bieca.

«Sì, scusami, questa era inopportuna» ridacchiò ancora Anita. Se non altro sembrava essere tornata di buon umore, anche se dall'esterno nessuno avrebbe mai potuto capire cosa provasse davvero quella donna. «Allora, dicevamo: Bellatrix?»
«Vuole diventare una maga».
«Sì, avevo sentito. Ma almeno sa qualcosa in merito?»
«Quello che tu mi avevi detto, che le ho riferito a mia volta».

Anita spalancò gli occhi, come se avesse sentito l'assurdità più strana che potesse immaginare: «Quindi vuoi dirmi che è partita senza neanche sapere dove deve recarsi?»
«Poi spiegami come si fa a restare calmi...» commentò l'altro, passandosi una mano sulla faccia. Così il suo piano sarebbe andato a rilento: avrebbe aspettato che la giovane tornasse - con o senza poteri, non gli importava - e solo allora sarebbero partiti. Magari, concordando tutto questo con i Gheneiou, il clan ospitante avrebbe lasciato loro un periodo di tregua in cui non avrebbero dovuto temere per la propria vita.

Ma anche quella prospettiva stava per essere distrutta dalle parole che Anita pronunciò subito dopo: «E non sa neanche tutti i rischi che si incontrano durante il viaggio!»
Mijime credette che il suo cuore avesse mancato un colpo: «Rischi?» mormorò, impallidito.
«La strada più rapida passa dai territori di un clan chiamato Ton Paidon. Quando andai insieme a Genew riuscimmo a evitarlo, ma so delle storie... Non tutti ne escono vivi».

E con la loro fortuna Bellatrix si sarebbe sicuramente imbattuta in questo popolo. Da sola, con la sua impulsività a guidarla, non sarebbe mai resistita. E questo significava solo una cosa per gli altri Melitos: una sola vita li avrebbe separati dal regno della morte. Con gli altri stralunati del gruppo, sarebbe stato come avere già un piede dentro la fossa.
"Bellatrix, ti detesto" pensò, continuando a massaggiarsi le tempie, ma sorridendo maligno già immaginandosi i modi in cui gliel'avrebbe fatta pagare, non appena l'avesse raggiunta.

«Spiegami tutto quello che devo sapere, Anita: la vado a riprendere».

~

Ma ciao, amici!
E con Mijime disposto a ricongiungersi con Bellatrix si conclude il capitolo 13, che condividono Mijime e Anita per l'ottica da cui è visto. Innanzitutto, non ho apportato una divisione netta dal Pov di Anita a quello di Mijime e volevo chiedervi se questo fosse molto disturbante o più dinamico. Ditemi voi, di solito è una tecnica narrativa che applico solo in capitoli in cui tutti i personaggi hanno qualcosa di piuttosto interessante da esporre. Spero non sia troppo confusionario! Spero si sia colto il parallelismo che voglio far notare tra Anita e Mijime... così diversi, eppure così simili... Non sto cercando di farveli shippare, vi prego, non travisate le mie intenzioni!
Su questo capitolo non ho altro da dire (ma se volete aggiungere voi qualche considerazione, sapete che sono sempre bene accette!) quindi vi lascio e mi fiondo a correggere anche il 14 (sto vedendo la fine di questa revisione pazzesca, non ci credo neanche io! 🤩🤩🤩)
~🐼🐢

P.s. ho seminato alcune piccole chicche su
Mijime durante questo capitolo, che potrebbero essere delle anticipazioni per quello che si verrà a sapere più avanti su di lui. E dopo questa taccio davvero 😶

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