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Due piccoli esseri erano spuntati alle loro spalle, l'uno furioso, l'altro incapace di smettere di sghignazzare. Mijime, ancora provato dal sogno, spalancò gli occhi in un'espressione al limite della disperazione: erano uguali alle fate. O meglio, vi somigliavano solo per la piccola statura e la perfezione dei tratti, gli unici elementi che colse, mentre ogni cosa diveniva finalmente chiara e un solo pensiero andava a occupare la sua mente: folletti.

«Tu, bastardo!» proseguì quello che aveva già proferito parola, mentre l'azzurro del suo incarnato, in contrasto con la chioma rossa splendente, si intensificava a ogni parola. «Io ti voglio morto! Se te ne fossi rimasto ancora per un po' nel tuo bel sogno mi sarei sbarazzato di te in fretta, letame! E invece no! Non solo hai notato che era tutto finto, escremento che sei, ma te ne sei pure andato!»

Avrebbe dovuto capirlo da subito che quell'assurdità era stata creata dai folletti. "Le magie che producono sono piccole e insulse ma, essendo i maestri dell'inganno, riescono a farle sembrare enormi e potentissime". Le fate avevano detto proprio così. Ora che lo aveva sperimentato, non poteva che dar loro ragione: potente, già, era stato potente, tanto da fargli smuovere quelle poche emozioni che ancora albergavano in lui. Se non altro, il rimorso per essersene andato sarebbe diminuito: almeno sapeva di non essere diventato il pasto di quell'esserino petulante.

Il folletto continuava a guardarlo truce, ma non provocando alcun turbamento nell'animo di Mijime, già troppo sconvolto perché un'inezia simile lo toccasse. Che facesse ciò che voleva, che lo insultasse come preferiva: non gl'importava più nulla, nemmeno sapere per quale motivo la creatura fosse tanto accanita nei suoi confronti.

Fu il compagno, dalla pelle verde e coriacea come quella di un rettile, a ravvivare quello statico scambio di occhiate, con la sua risata pulita e cristallina.

«Che sfigato, Memuneo! Se lo avessi voluto davvero saresti riuscito a intrappolarlo, in realtà» proferì, appoggiandosi alla spalla dell'altro, di poco più basso. «E invece si è rivelata come al solito la tua incapacità. Lo sai che, mentre lo stavi producendo, ho potuto ammirare questo tuo capolavoro? Non ne ho mai visto uno peggiore! Il posto era vuoto, i due tizi che hai plasmato anonimi! Ma è ovvio che si è accorto che era tutto finto!»

«È colpa mia se questa feccia non ha uno straccio di ricordo felice da fargli rivivere?!» gridò quello azzurro, spingendo l'altro folletto. «Hai presente il nulla più totale? Ecco, questo è quello che mi sono trovato davanti quando ho cercato nella sua memoria. E ho cercato bene e a modo».

«Certo, sicuramente». L'altro alzò gli occhi al cielo. «Non avrai cercato abbastanza bene. È impossibile che non abbia un ricordo felice. In duemila anni non hai idea di quanti ne abbia incantati e almeno un ricordo felice c'era sempre».

«Oh, Kyri, occhio a come ti atteggi, ché ti manca una E per essere signore*!» urlò infine, restando per un attimo inebetito a guardare il vuoto, per poi iniziare inspiegabilmente a ridere.
«La stessa battuta creata mille anni fa...» roteò le pupille Kyri. «Come se facesse ancora ridere».
«E va bene, signor-quasi-signore» si ricompose Memuneo. «Neanche la signorina di cui dovevi occuparti tu, maestro dell'inganno, è rimasta intrappolata».

«Sai, non ne avevo interesse, quindi non mi sono impegnato troppo» fece Kyri, con un sorrisetto sereno.
«Come non ne avevi interesse?! Tu sai quanto io stia male per quello che è successo!»
«Infatti ti ho detto che ti avrei aiutato, ed è ciò che ho fatto. Non ho mai specificato che avrei eseguito il mio lavoro bene, facendo comparire proprio tutti i dettagli: sai che è faticoso e non avevo fame».

Sconfortato, Memuneo si buttò a terra, sospirando profondamente. «Se solo non ci fossi stato tu ma uno più serio adesso li avremmo mangiati entrambi! Invece quella si è svegliata ed è andata a disturbare anche questo scempio umano, che tutte le maledizioni dei daimona possano incombere sul suo capo!»
«Memuneo, te lo dico sinceramente: a nessuno frega niente della tua ossessione per Elvira».
«Ma questo non è giusto! Tutti voi folletti avete almeno una fata! Voglio averne una anche io!»

A queste ultime parole, l'attenzione di Kyri fu destata. Sollevò per la tunica Memuneo finché non fu alla sua stessa altezza, con uno sguardo molto più minaccioso di quello con cui il compagno blu aveva osservato prima Mijime.«Prova a toccare Elpenore e ti faccio rimpiangere di essere nato immortale».

«Ma certo, ma certo, Kyri». Memuneo si affrettò a calmarlo, improvvisamente servile. «La tua Elpenore non la tocco, ci mancherebbe altro». Il folletto verde mutò di nuovo atteggiamento, riponendo con cura il compagno, già dimenticatosi di tutto.

«Però Elvira...» continuò afflitto Memuneo. «Lei non ha mai accettato nessuno. Ha sempre una scusa per defilarsi dai folletti: prima diceva che la nostra area di isola è brutta, poi, quando per accompagnare Elpenore da te veniva lo stesso, ha iniziato a dire che noi folletti siamo sciocchi e non voleva avere nulla a che fare con noi. E adesso se ne esce con un mortale?! Questo io non lo accetto!»

«Lo spadi?» chiese Kyri sogghignando, e Memuneo iniziò a guardarlo con perplessità. «E poi ti chiedi perché non piaci a nessuna» sbuffò il compagno verde.

"Che perdita di tempo inaudita". Mijime distolse lo sguardo da quei due folletti così insignificanti per lui e prese Bellatrix per un polso. L'abbraccio con quelli che avrebbero potuto essere i suoi genitori era ancora vivo dentro di lui e stava facendo riaffiorare alla sua mente tanti ricordi... Non poteva cadere in preda a essi! L'unico modo era concentrarsi esclusivamente su se stesso, tenendo la mente occupata come ormai aveva imparato a fare: altro che ascoltare quegli esseri insulsi; doveva solo andarsene. Fece per passare oltre.

«No, mortale!» gridò ancora Memuneo. «Non ho finito con te!»
Con una risatina tra l'insofferenza e il solito sarcasmo, Mijime lo squadrò. «E anche se fosse? Cosa avresti intenzione di farmi?»
«Affrontarti».
«Questa mi sembra l'idiozia più grande che abbia mai sentito» proferì, considerando nuovamente le dimensioni del suo eventuale avversario e la sua mancanza di poteri. Sarebbe stato più facile pestare lui che ammazzare una mosca.

«Ah ah! Memuneo, il mortale ha ragione!» rise Kyri. «Sei rimasto fregato per l'ennesima volta: non puoi creare un'altra visione, ché tanto non cascherebbe due volte nella stessa trappola».

La creaturina blu si piantò a terra a braccia incrociate e con un'espressione corrucciata, rimuginando tra sé.
"Bene, finalmente questa farsa è finita". Mijime aveva già mosso due passi, quando il volto di Memuneo si illuminò di nuovo: si alzò in fretta, andando a pararsi davanti ai due mortali.

«Sbaglio» iniziò, con aria di sfida, «o Zarkros ce l'ha con voi due?»

Mijime raggelò, dimenticando per un momento il suo animo tormentato.
«Già, Elpenore ti aveva detto il vero, Kyri» sogghignò ancora il folletto. «Oh, già lo immagino: Zarkros ha tante questioni e probabilmente si sarà dimenticato di voi, avendo da sbrigare faccende più urgenti. Ma non c'è problema: glielo ricorderò io, oh, sì, che glielo ricorderò, aggiungendo quanto voi due siate meschini, insopportabili, supponenti-».

«Memuneo! Sempre tu!»

Mijime non poté non riconoscere all'istante anche quella voce: "Non bastavano due esseri magici più piccoli di una mano a torturarmi. Doveva sopraggiungere anche lei".
Il folletto smise all'istante di ridacchiare; ogni sua attenzione era concentrata sulla creatura appena giunta, l'espressione del volto completamente rivoluzionata, senza alcuna traccia di ira ma solo un sorriso ebete.

«Elvira! Dolce, soave, bellissima Elvira! Che gioia poterti vedere!»
«Non da parte mia!» sbottò la fata, furiosa come non s'era mai vista. «Non è possibile che ogni volta che io ed Elpenore ci allontaniamo dai mortali per un motivo o un altro succeda qualcosa! Cosa stai facendo, Memuneo? Perché impedisci loro il passaggio?»

Il corpo di Memuneo divenne di pietra e ritirò la testa nelle spalle, intimorito. «D-dolcezza...»
«Che si brucino le tue parole di ossequio! Dammi una valida spiegazione, senza giri di parole!»
«Elvira mia,» proseguì il folletto, umile e sottomesso, «sai bene che Zarkros gli è avverso... Elpenore stessa lo ha detto a Kyri...»

Elvira sbuffò pesantemente, sbattendosi le mani sulla faccia. «E invece no! Non più. Ci siamo allontanate proprio per questo - Selena ci aveva detto che Zarkros era piuttosto libero e non lo avremmo disturbato - per persuaderlo a revocare le sue minacce nei loro confronti. Ma non è servito: uno del loro clan aveva già fatto sì che si tranquillizzasse prima che noi due arrivassimo dal signore del vento».

Doveva essere una splendida notizia: un nemico in meno da temere, e che genere di nemico! Si erano salvati, fino ad allora, solo perché ai suoi occhi erano microbi insignificanti, piccole schegge fastidiose di cui avrebbe potuto occuparsi in un secondo momento. Altrimenti, il loro destino sarebbe stato ineluttabile.

"Allora perché non riesco a felicitarmene?"

«Ma... ma... ma...» continuava a balbettare Memuneo, gli occhi praticamente fuori dalle orbite.
«E in ogni caso,» tossicchiò Elvira, per richiamare l'attenzione del folletto, «se Zarkros avesse voluto, avrebbe fatto giustizia da sé. Non era tuo compito intrometterti. Anzi, uccidendoli avresti disobbedito alla Legge».
«Io? Ma come, Elvira mia?»
«Non mi sembra che tu sia affamato, e se anche dissimulassi così bene, sappi che ho gli occhi: vedo che non c'è affatto sovrabbondanza di mortali, dunque è impossibile che tu abbia fame! E sai bene che uccidere o aiutare i mortali è contro la Legge».
«E tu, andando da Zarkros, non li avresti aiutati?»
«Certo che no, dovevo solo far notare al mio signore che perseguitarli sarebbe stata una perdita di tempo. Hai altro da dire, a tua discolpa, Memuneo?»

«Ehm... ehm...» Il folletto era ormai rimasto disarmato, davanti alle inattaccabili risposte della fata dei fiori. Schioccava le dita, quasi potesse sovvenirgli più velocemente un argomento con cui ribattere. «Sì! Adesso, adesso li stai aiutando! Sei venuta qua a intrometterti tra me e lui apposta!»

Appagato, credendo di essere riuscito a salvarsi in tempo, Memuneo rabbrividì quando inaspettatamente Elvira iniziò a ridere; nel suo tono spiccava, velata, una punta acida.
«Ingenuo Memuneo, sono venuta per accompagnare Elpenore da Kyri e per caso abbiamo notato che tu stavi aggirando la Legge. Vero, Elpenore?»
Tirò una leggera gomitata alla compagna, tutta assorta dal suo arrivo nella contemplazione del folletto verde.

«Oh, ehm, sì!» si risvegliò improvvisamente. «Sì, esatto! Quindi, Elvira, non serve più che ti stia dietro per renderti più minacciosa, adesso? Posso... andare?»
«Siamo venute apposta» fece Elvira, accomodante, con un sorrisetto malignamente soddisfatto.
Elpenore non se lo fece ripetere: in meno d'un battito d'ali si ritrovò avvinghiata a Kyri, le bocche unite in un bacio appassionato.

Le pupille di Memuneo scattavano da quella scena alla figura di Elvira, ancora in aria a osservare ciò che si stagliava sotto di lei; gli occhi divennero lucidi.
«Ma non è giusto!» Il folletto non riuscì più a trattenersi, iniziando a pestare i piedi, con i pugni stretti e la faccia ormai deformata dal pianto.

Un fulmine furente sfolgorò sulle iridi di Elvira, che si scagliò come una saetta contro il folletto. «Essere abietto» scandì. Afferrato per la tunica lo portò a mezz'aria, stringendolo ben più forte di come aveva fatto prima Kyri. «Non esiterò a rivelare alla boulé la tua intenzione, se continuerai a mostrarti così poco collaborativo».

Memuneo era paralizzato: non tremava nemmeno, tanto la fata doveva averlo scosso.
«Intesi?» si accertò Elvira, seguita da un vigoroso assenso del folletto, la testa una molla che non faceva che spostarsi rapidamente su e giù.

Elvira mollò la presa, senza smettere di scrutare bieca Memuneo, che, capitombolato di nuovo a terra, scattò in piedi per correre tra la vegetazione; si fermò solo un istante, come se avesse scordato qualcosa, per voltarsi e mandare da lontano un ultimo, rapido bacio alla fata dei fiori, e si dileguò.

Sembrava non fosse accaduto nulla, tanta era la silenziosa quiete rimasta, interrotta solo talvolta da qualche mugugno di Elpenore, ancora avvinghiata al suo folletto. Sul volto della compagna, invece, un grande sorriso, dedicato tutto a Mijime. Lo raggiunse in un attimo, lasciando che tra loro intercorresse solo una minima distanza, e posò con delicatezza una mano sulla sua guancia.

«Mijime, sei felice?» chiese, gli occhi che luccicavano. «Sei scampato all'inganno dei folletti, come a tutte le altre disavventure che ti sono capitate, Zarkros vi ha dimenticati e non potrà più farvi del male e, infine, stai per raggiungere Robero e ottenere i poteri! Allora, sei felice?»

Il giovane sentiva tutta l'euforia che trasudava il corpicino della fata, che avrebbe dovuto essere avulsa da ogni sentimento, per degli eventi che in realtà non la toccavano nemmeno. Gli occhi ametista gli sorridevano, materni e amorevoli: la stessa espressione che aveva visto sul volto della donna della visione.

Voltò le spalle alla fata e riprese a camminare; non sapeva neanche la direzione che aveva preso, tanto di lì a poco avrebbe capito dove si trovava e avrebbe ripreso a orientarsi. Ora non era importante: voleva solo andarsene, smettere di pensare, dimenticare quell'ultima vicenda e il vortice di dolore che continuava a tempestarlo, fomentato da ogni elemento che gli si presentava.

Ma lo sguardo della fata si era scolpito in lui.

Elvira, contenta, per la fortuna che fingeva di sorridergli.

Il sorriso di sua madre.

L'abbraccio di suo padre.

Calore, tiepido e piacevole come il sole di inizio estate.

Amore.

Ti voglio bene, tesoro.

Sei felice, Mijime?

Si rese conto di star ansimando, appoggiato al tronco di un albero, solo quando sentì il tocco di Bellatrix sulla sua spalla: le fate erano scomparse, la foresta intorno a lui era cambiata ancora, sempre più rada. Quanto aveva camminato? Era solo, con la sua compagna di viaggio, che lo osservava con apprensione. Apprensione? Ma cosa aveva fatto, come si era ridotto? Le stava facendo pena? Girò le spalle anche a lei; non poteva vederlo in quello stato pietoso. Alzato lo sguardo, la figura di Robero occupò tutto il suo campo visivo: avevano raggiunto il margine della piana che ospitava l'imponente Vulcano. Ma non gl'importava.

«Ecco, siamo arrivati» disse, apatico, fingendo che non fosse accaduto nulla. «Te l'avevo detto: entro sera l'avremmo raggiunto. Forza, manca poco. Prima che scenda il buio saremo alle sue pendici».

~

Mijime raccolse alcuni sassi e rametti e accese un falò, portando una luce calda nella vallata già buia. Bellatrix non riuscì a prendere nemmeno qualche pietra, che il compagno aveva già eseguito tutto, con la massima efficienza e nel più rigoroso silenzio. La stessa condizione che lo accompagnava da quando lo aveva ritrovato.

La giovane sospirò, guardandolo mentre si sdraiava a terra di peso, il volto un libro aperto: era sempre stato abilissimo nel mascherare ogni sua emozione, ma quella volta un'incredibile malinconia lo sovrastava. Erano arrivati alle pendici del Vulcano, che avrebbero iniziato a scalare l'indomani a mezzogiorno, per affrontare sotto il torrido sole di quella zona solo la parte meno impervia; la fata aveva detto bene: ormai avevano scavalcato ogni ostacolo, avrebbero dovuto essere solo felici. E invece Mijime sembrava più afflitto che mai.

"Devo fare qualcosa per risollevargli il morale..." Ma cosa? Non era mai stata una brava consolatrice. "Pensa, Bellatrix, pensa. Ci sarà qualcosa che considera piacevole e che lo faccia star bene". Proprio mentre quell'idea si componeva nella sua mente, aveva già iniziato a sorridere.

Si sdraiò dalla parte opposta del falò, ponendosi su un fianco perché potesse osservarlo.
«Il modo in cui suoni è davvero stupendo» mormorò, ancora incerta se quella fosse la maniera giusta per aiutarlo. Ne attirò comunque l'attenzione: Mijime spostò le pupille nella sua direzione, senza che l'aria indolente l'abbandonasse.

Sospirò, amaro, distogliendo subito lo sguardo. «Non ho mai suonato in realtà. Quel sogno era solo tutto ciò che abbia mai desiderato... Nulla di quello che hai visto era vero».

Bellatrix rabbrividì a quell'affermazione tanto accorata.
«Scusa, io...» cominciò, cercando di farsi venire parole che non lo ferissero ancora. Cosa aveva pensato? Di poterlo aiutare? L'aveva sentita anche lei la conversazione dei folletti: nessun ricordo felice. E lei non aveva fatto che rimarcarlo! Stupida, stupida, stupida! «Io non avrei...»

«Non importa». La giovane ammutolì, mentre il senso di colpa nella sua testa martellava sentenze che lo rendevano sempre più pesante: stava iniziando a calmarsi, adesso si cruccerà ancora a lungo. Non puoi fare niente per aiutarlo. Piuttosto, dovresti smettere di lamentarti della tua vita: davanti agli occhi hai un esempio ben più tragico.

Ma a un tratto il collo di Mijime si sporse di nuovo alla ricerca dei suoi occhi, un sorrisetto ironico brillava alla luce della luna. «Mi fa piacere però che una che fino a ieri considerava la musica una perdita di tempo sia arrivata in così poco a definirla addirittura stupenda».

Bellatrix arrossì prepotentemente, stringendosi nelle spalle. È vero, aveva davvero avuto il coraggio di fare simili discorsi...
«Ho cambiato idea» disse, tutto d'un fiato, ma appena sollevata dalla reazione del compagno, la cui afflizione sembrava diminuita. «Con questo brano non sarei riuscita a fare altrimenti».

«Non posso darti torto» annuì Mijime, sospirando. «Notturno in Do Diesis Minore. Chopin. Uno dei miei brani preferiti. Dolce e struggente, una carezza che rende il cuore un fiume grondante di sangue».

La giovane sentì un altro brivido percorrerle le spalle, mentre gli occhi si perdevano a osservare il profilo del giovane, da cui non traspariva alcuna emozione se non quando esprimeva i suoi pensieri con frasi lucide e tormentate.
«Perché ti fa stare così male?» chiese, senza rifletterci: in testa aveva soltanto la melodia, di cui ricordava ancora i tratti più leggeri, quelli che più aveva apprezzato e che non accettava fossero sminuiti in virtù del principale tema straziante. «Probabilmente io non sarò profonda come te, però... però non mi sembrava così doloroso. Non tutto almeno».

«Ti sarai accorta che l'ho interrotto bruscamente, mentre lo stavo eseguendo».
Un po' contrariata dal fatto che non provasse a mettersi nella sua ottica, Bellatrix riconsiderò di nuovo il brano. «Sì, adesso che mi ci fai pensare, sì» mormorò, mentre ancora cercava di capire cosa c'entrasse con lo stato d'animo del compagno. «È stata l'unica parte che ha stonato un poco».

«Ovviamente» ridacchiò lui, amaro. «Nella partitura non è così, un finale c'è, ed era prossimo ad arrivare».
«Ma allora perché ti sei fermato poco prima?»
«Ho dimenticato il seguito. So che subito dopo l'ultima nota che hai sentito ci sono delle cadenze, scale velocissime, ma non ricordo il loro suono». Si massaggiava le tempie, come a voler stimolare la sua mente, a far riaffiorare il ricordo di quella conclusione che per lui pareva tanto importante. «E per finire, il vuoto più assoluto».
«Pensi ci sia un motivo?»
«Preferisco non pensarci». Si girò di nuovo: il momento di sollievo che Bellatrix aveva percepito poco prima era già scomparso.

Cosa poteva fare? Doveva davvero rassegnarsi a saperlo così infelice? Di lì a qualche giorno avrebbe ripreso a rivolgerlesi con il solito tono canzonatorio, ma lei non avrebbe dimenticato l'immagine della sua schiena, dietro cui si nascondeva per vergogna, del suo corpo rannicchiato, come a voler cercare un qualsiasi conforto. Era certa di non poter fare davvero nulla?

«Però...» azzardò, arrestandosi ancora: no, no, non poteva rischiare di farlo precipitare ancor più nello scoraggiamento! Ascoltare la sua esperienza non gli avrebbe giovato. O forse sì.
«Dimmi».

"Ma perché non riesco a tener chiusa la mia dannata boccaccia!" Ormai però non poteva più tirarsi indietro. In cuor suo, poi, sapeva che si sarebbe attaccata a qualunque motivazione pur di raccontargli ciò che aveva metabolizzato quel pomeriggio, che le faceva spuntare il sorriso solo a pensarci.
«Anche dalle cose più dolorose può scaturire qualcosa di bello» disse, da preambolo, vergognandosi subito per aver scelto quella frase fatta: il suo discorso non era affatto banale, ne era certa.

«Sentiamo cos'hai da dire» ridacchiò pungente Mijime, ma senza che Bellatrix potesse scoraggiarsi, convinta più che mai a raccontargli la sua storia, o meglio, quello che aveva capito di essa.
«Sai, penso di aver ritrovato me stessa» affermò, non potendo far altro che sorridere. «Ed è stato solo grazie all'isola e a tutte le difficoltà che mi ha messo davanti».

Quelle parole dovettero risvegliare l'attenzione del suo compagno, che, messosi seduto, si sdraiò di nuovo per poterla guardare negli occhi. La giovane sperò con tutta se stessa che il sorriso sbocciato sulle sue labbra, che finalmente vedeva anche lui, potesse influenzarlo, almeno un po'. Sembrò leggerle nel pensiero, quando anche lui sfoderò il mezzo sorriso sarcastico che lo caratterizzava sempre. Bellatrix poté iniziare.

«Da quando sono qui, i miei comportamenti hanno iniziato, pian piano, a farsi sempre più irrazionali e confusionari. Pensavo fosse l'isola a mandarmi fuori di testa, ma non era così. Io non sono razionale» scandì, con tutta la soddisfazione che si prova a dire per la prima volta un pensiero di cui si va tanto fieri. «Ho sempre dovuto esserlo, ma in realtà la mia indole è creativa e curiosa, e sull'isola, senza alcun vincolo, ha potuto finalmente mostrarsi, come accadeva una volta, quando ero libera».

Dallo sguardo di Mijime, era improbabile avesse immaginato qualcosa del suo passato; era comprensibile: se fino a poco prima non era stato chiaro nemmeno a lei, come poteva essere trasparito a un esterno?
«Prima non lo eri?» si limitò a chiedere, anche se i suoi occhi tradivano una curiosità che non sarebbe stata placata da quella semplice risposta: Bellatrix si sarebbe premurata di soddisfare anche le domande che non aveva la sfrontatezza di porle.

«No, la mia vita si basava sull'immagine che mia madre aveva creato per me» rivelò, pacata, senza alcun rancore. Intanto, di fianco a Mijime si materializzava la figura della donna che condivideva i suoi stessi capelli, il cui sguardo arcigno attirò subito l'attenzione della giovane. Sempre con il sorriso sul volto, la guardò a sua volta, notando come fossero diverse nel naso, nel taglio degli occhi, nell'intera composizione del viso: osservandola, non si sentiva più davanti a uno specchio.
"Non ti temo più, mamma". E, così com'era venuta, scomparve.

«È sempre stata una persona particolare» riprese a raccontare. «Fissata con la giustizia in una maniera fuori dal normale e pronta davvero a tutto pur di portare avanti questo suo ideale».
«Non che tu fossi molto diversa» notò Mijime.
«È stata lei a volermi così. Ma partiamo dall'inizio. A vent'anni rimase incinta di me, per errore, quasi sicuramente. Ero solo un peso, così prima ancora che nascessi decise che non sarebbe stata lei a crescermi. Per fortuna c'era mia nonna». Il sorriso crebbe a ripensare a lei, accompagnato solo da una lieve nota penosa per la sua mancanza, che sentiva più forte da quando l'aveva lasciata di nuovo nella visione.

«Ah sì, ho avuto modo di conoscerla». Mijime la distrasse, facendola sobbalzare.
«Aspetta, cosa?»
«Le parlavi spesso, mentre eri convalescente, così come parlavi di tua madre, del fatto che non ti volesse».
Bellatrix sbatté le palpebre un paio di volte, ancora incredula, per poi arrossire di nuovo.
"Cos'altro avrà sentito? Speriamo solo che non abbia detto nulla di compromettente".
«Quante cose si scoprono!» esclamò, con un risolino imbarazzato, per poi tagliare corto sull'argomento. «Be', allora cosa sto a raccontarti? Sai già tutto».

«Il seguito no». Mijime si sporse un po' più verso di lei, mentre la guardava assiduamente. «In un qualche modo tua madre deve essere riuscita a influenzarti».
Quell'improvvisa attenzione da parte del perennemente annoiato compagno le provocò un leggero fremito di piacere, subito sostituito dall'amarezza che ancora sentiva in gola per la parte più dolorosa del suo passato, che però non poteva esimersi dal raccontare.

«Un giorno mia nonna si ammalò» disse, la voce più grave, mentre con gli occhi cercava il conforto delle candide stelle. «Un morbo ingiusto decise di consumarla nel corpo e nello spirito, lei che era così buona, così saggia, così preziosa, lei che era stata per me non solo una nonna, ma anche una madre, un'amica, una guida. Lei che era tutto per me. La malattia volle lasciare lei in uno stato di miseria, me nella più totale solitudine».

Mijime non parlava, ma il suo silenzio l'aiutava più di qualsiasi vuota parola di circostanza. Non lo stava guardando, ma percepiva i piccoli movimenti con cui le si avvicinava sempre più e il suo respiro, l'unico suono che rimaneva quando prendeva delle pause tra una frase e l'altra. Sentiva la sua presenza e, con essa, la sua comprensione.

«Non si poteva più occupare di me. Mia madre la mandò all'ospedale alla prima occasione e io ebbi il terrore che volesse liberarsi anche di me. Da sempre sapevo che non le piaceva il mio carattere: le poche volte che veniva a trovare me e la nonna lo faceva sempre intendere, storcendo il naso quando le raccontavo i miei sogni o quando la tempestavo di domande, come ero solita fare con tutti. Tutti i bambini sono così, irrequieti, desiderosi di attenzioni, pieni di vitalità, ma io molto di più. In quei momenti mi sentivo così... sbagliata. Però allora c'era la nonna che mi tranquillizzava, così mia madre rimaneva un'ombra, un mostro sotto al letto, capace di farmi spaventare ma non davvero reale. Ma quando mi fu annunciato che la nonna "sarebbe rimasta in struttura per un po' " capii che non l'avrei mai più rivista. Non mi avrebbe più protetta e, se non volevo essere abbandonata, dovevo cambiare».

Bellatrix sospirò e il tormento che ancora provava per quegli eventi così lontani, ora che aveva terminato il racconto della parte peggiore, uscì da lei, restituendole la lucidità necessaria per accorgersi che, nel mentre, Mijime aveva stretto la propria mano alla sua. Una lieve commozione avvolse la giovane: la sua storia gl'importava davvero, lei gl'importava davvero.

«E cambiai. Oh, se cambiai... Arrivai a provare due sole emozioni: il dolore per la perdita della nonna e la paura di fare un passo falso con mia madre, che intanto capì che avrei potuto esserle utile, se mi avesse inserita nel suo malato disegno per creare un mondo dove vigesse la sola giustizia. Divenni presto la sua piccola copia, ovviamente sbiadita e dai contorni sfocati, perché, per quanto lo si imiti, l'originale non sarà mai replicato. Forse era per questo che, per quanto mi dessi da fare, per quanto faticassi durante gli addestramenti cui mi sottoponeva, per quanto ottenessi ottimi risultati, mia madre continuava a non apprezzarmi, a guardarmi con quell'aria di sufficienza che mi feriva ogni volta. Il mio più grande desiderio era solo questo: renderla fiera di me, far sì che un giorno mi avrebbe guardata sorridendo. Iniziai a impegnarmi ancora di più, reprimendo tanto la mia indole, che a un certo punto credetti non fosse mai esistita la bambina che ero stata».

La mano di Mijime era rigida, intrecciata alla sua, come se lui stesso avesse cominciato a empatizzare con la piccola del racconto, come se cercasse di raccogliere la sua sofferenza; ma Bellatrix era ormai giunta alla parte in cui tutta la vicenda si risollevava. Rigirandosi sul fianco, strinse più forte la mano del giovane e gli sorrise come mai prima d'allora. «Ma quella bambina non scomparve mai del tutto, rimanendo solo latente, aspettando il momento buono per riemergere; e quel momento fu il mio arrivo sull'isola. Mentre io pensavo di essere giunta al punto più alto della mia esistenza, cui mancava, per essere perfetta, soltanto l'approvazione di mia madre, il mio animo soffriva, intrappolato nell'oscurità dove l'avevo confinato, e, violento e impetuoso, volle ribellarsi, per emergere nuovamente, rivedere la luce».

Soddisfatta per aver sentito uscire dalle sue labbra quella frase, ribaltò la testa all'indietro, scontrandosi di nuovo con l'etere stellato, così bello che non poteva distogliere gli occhi da esso. Un'improvvisa intuizione la colse.

«È durata a lungo, questa battaglia. Solo adesso, che ho compreso tutto, sento di essere in pace; non potrei essere altrimenti: la mia irrazionalità è tornata a veder le stelle». La sua mano si staccò da quella di Mijime, puntando un dito verso il cielo, acceso dalla miriade di lumi da cui era tempestato. Solo ora li vedeva davvero, li sentiva vicini, non più solo come un ordinario elemento della natura circostante: aveva dovuto portare a termine il suo cammino, affermare con sicurezza i suoi pensieri, prima che ciò potesse accadere. E ora che lo aveva fatto non sentiva più il bisogno di fuggire dall'oscurità: tutto era luce, fuori e dentro di lei. "Io sono Bellatrix e, come le mie compagne, brillo".

«È bellissimo». Il commento di Mijime la riportò coi piedi per terra. Anche il suo volto era assorto nella contemplazione degli astri.
«Cosa?»
«Tutto. Questo tuo percorso, la negazione di te stessa che però ti ha portato a una maggiore consapevolezza di chi sei, la tua volontà, che ti spinge sempre a ricercare la luce, per scappare dalle tenebre dentro di te. Come può non essere bellissimo, anche solo da pensare?»

Bellatrix roteò gli occhi. «Non è stato così bello, finché non sono giunta alla fine della battaglia tra razionalità e irrazionalità».
«Per giungere a una meta meravigliosa non si può pensare che la via sia sempre dritta».

Il volto di Bellatrix si aprì di nuovo in un grande sorriso. «Allora anche sul tuo sentiero tortuoso può comparire una luce» esclamò, riprendendo la metafora del compagno. Finalmente una considerazione positiva! Forse era riuscita nel suo scopo. Incrociò le dita, sperando che potesse darle ragione.
«Ma non è detto» la smentì invece, suscitandole una certa irritazione.
«Allora puoi trovartela da te» continuò a spronarlo lei, cercando di mantenere la calma.
«Ah sì? E come?»
«Intanto, smettendo di essere tanto pessimista».

Mijime sfoderò uno dei suoi migliori sorrisi beffardi. «Mia cara, il pessimismo è solo il mezzo per non rimanere illusi dall'arida realtà».
«Il pessimismo è solo il mezzo per non rimanere illusi» scimmiottò Bellatrix, sempre più insofferente. «Io preferisco credere il contrario, che sulla propria strada si possa sempre trovare una luce, più o meno piccola. Sta solo a noi scegliere se notarla. Tu ci hai mai provato?»

Il sorrisetto che si era amplificato quando lo aveva imitato era velocemente scomparso; gli occhi non guardavano più il cielo con meraviglia, ma erano persi in chissà quale angoscia, sofferenza passata.
«Oh, Mijime...» mormorò Bellatrix, affranta a vederlo ancora così. Gli si avvicinò, per abbracciarlo da un lato, come a chiedergli perdono per la sua insistenza, ma il giovane si ritrasse.
«Non fa niente».

"E tu non puoi farci niente" le suggeriva una vocetta da dentro, alla quale non voleva credere. Con un sospiro si decise a riprovarci: «Sai, parlarne secondo me può farti bene».
«No, non è vero» disse, sempre più perentorio. «Devo solo dimenticare, come sto facendo».
«Se hai dimenticato, perché allora soffri?»

Mijime rimase in silenzio. Bellatrix capì all'istante dove si trovava il nodo di tutti i suoi problemi: nella sua incapacità di accettare il passato, di cui, per quanto volesse negarla, era consapevole anche lui. Ma non poteva costringerlo: come lo era stato il suo, anche quello di lui doveva essere un percorso graduale, dove nulla accadesse in modo forzato. Altrimenti sarebbe stato più dannoso che altro. Se un giorno avesse voluto rivelarle ciò che tanto lo affliggeva, lei sarebbe stata al suo fianco per ascoltarlo.

«Vedi tu» fece, a mo' di conclusione. «Io penso che, se a suo tempo, quando avevo appena perso la nonna, avessi avuto qualcuno con cui parlarne, probabilmente la tristezza e la paura non avrebbero preso il sopravvento su di me. Certo, non qualcuno a caso. Qualcuno come te».

Mijime si riscosse, sollevando un sopracciglio, incerto. «Come me?»
Bellatrix rise: si mostrava tanto perspicace, e ancora non aveva capito quella cosa così elementare. «Un amico che sappia ascoltare» disse infine, lasciando Mijime ancor più scettico: chissà cosa ci vedeva di strano.
«Quindi adesso sarei questo?»
«Non ti piace come definizione?»
«Oh, no, anzi, è solo... Come puoi esserne sicura? Come sai che ti stia ascoltando, che mi interessi davvero di te, io che dopotutto sono solo un subdolo opportunista?»

Dunque era così che continuava a percepirsi? Quando lei stessa ormai aveva compreso che fosse ben diverso dall'immagine che si era fatta di lui appena sbarcati sull'isola, lui credeva ancora di essere barricato dietro al muro di sarcasmo, indifferenza e individualismo che si era sempre retto davanti. Non aveva capito che, aiutandola come aveva fatto, l'aveva già abbattuto, che, mostrandole tutte le sue apprensioni, si era già aperto a lei?

Sorrise un'altra volta, per l'ingenuità dell'amico, riproducendo la smorfia beffarda che era solito rivolgerle lui. «Sei molto meno enigmatico di quanto pensi, mio caro Mijime».

~

Questa volta non ho specificazioni da aggiungere: penso che Bellatrix e Mijime siano stati molto più eloquenti di quanto potessi esserlo io con i miei interminabili spiegoni. Dunque vi lascio solo con le loro parole, cariche di riflessioni e, si spera, di un po' di poesia. Del resto, ve lo avevo detto che con Bellatrix avevo voluto creare un parallelismo con le stelle che prendesse spunto da Dante. Lasciate pure una riflessione anche voi, se vi va. Io vi aspetto al prossimo capitolo: FINALMENTE scaliamo Robero : ))))
Bye bye
~🐼🐢

* il riferimento è al vocativo di kyrios, kyrie appunto, che in greco significa signore.

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