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Centinaia di spade davanti ai suoi occhi si scontravano, producendo scintille e rumori assordanti. Guerrieri, miriadi di guerrieri caricavano gli uni contro gli altri, in file che sembravano non finire mai e che gli scorrevano dinanzi. E infine lui, al centro di tutto, con la chioma fulva aleggiante nel vento e un ghigno malefico che preannunciava la morte. Estrasse la spada e iniziò a correre.

Mijime si svegliò di soprassalto, con la mano infilata nella camicia a cercare il suo coltello. Gli occhi già vigili scrutarono nell'oscurità alla ricerca di nemici inesistenti, mentre il suo corpo si irrigidiva, pronto a difendersi. Intorno a lui solo il buio, immerso in un silenzio totale, esclusi i respiri che si sentivano in sottofondo. Il giovane si ributtò a terra, ridacchiando per essersi fatto ingannare così da un sogno. Un incubo. Da quanto tempo non venivano a fargli compagnia...

Ora doveva solo stabilire quando fosse partito: l'ipotesi migliore era quella che trovava l'inizio di tutto nella partenza da Genova. Poco probabile. Si sarebbe fatto bastare che fosse cominciato prima della loro perlustrazione e del loro incontro con quella specie di barbari. Così in quel momento si sarebbe trovato all'accampamento del suo clan, pronto per una stupenda giornata caratterizzata da raccolta di frutta, litigi e una noia che avrebbe cercato di colmare con futili attività. Ma che bella prospettiva.

Sicuro di essere nel bel boschetto sotto cui avevano trovato la loro base, si alzò di nuovo ma non credette ai suoi occhi, non appena si vide davanti qualcosa di ben diverso dalla conosciuta foresta. Era all'interno di un piccolo edificio circolare le cui pareti sembravano composte da un groviglio di piante, probabilmente liane, intrecciate tra loro. L'intrico si formava da un fulcro legato a qualcosa di esterno e scendeva fino alle estremità della circonferenza del pavimento, formato da grossi tronchi di legno. Sforzò meglio la vista per capire cosa fosse quel posto, ma la luce fioca penetrava appena dalle piccole fessure tra una liana e un'altra. Ma dove diamine era finito? E come aveva fatto?

A terra si trovavano addormentati i suoi compagni, conciati decisamente male: Em e Spiro avevano il corpo pieno di percosse, la faccia e le membra di Morag erano quasi tumefatte e sul volto di Germanico spuntava vistoso un occhio nero. Solo Bellatrix non presentava ferite o lividi, ma in compenso aveva le mani e gli avambracci imbrattati di sangue.

Ed ecco che anche la speranza di aver solo sognato il combattimento con i barbari era stata vanificata. Erano forse stati portati al loro accampamento? Allora perché non li avevano già ammazzati? Era stato l'uomo dai capelli rossi, il loro capo sicuramente. Cosa aveva in mente?

Quella situazione non lo convinceva. A ogni secondo che passava si rendeva sempre più conto di essere tornato prigioniero: la mancanza di luminosità, di fonti di luce, di vie di uscita, quel perpetuo senso di oppressione... Conosceva fin troppo bene tutto ciò.

Un rumore improvviso proveniente da sotto il pavimento lo riscosse dalla sua meditazione. Al centro una luce accecante fece irruzione nella capanna, subito seguita dalla figura di un uomo che entrò, appoggiando davanti a sé due ciotole. Muzan serrò le labbra e trattenne il respiro: era uno dei barbari? Il buio non gli permetteva di vedere bene ma gli sembrava di non averlo intravisto tra i membri di quel clan. Però poteva essere comunque uno di loro: indosso portava una tunica ocra molto semplice, non diversa da quelle dei guerrieri, e alla cintola teneva diversi coltelli. 

L'uomo iniziò a osservare l'ambiente come se non avesse avuto bisogno di adattare gli occhi all'oscurità e subito vide Mijime, che non aveva nemmeno fatto in tempo a rimettersi a terra fingendosi addormentato. Mentre già provava a pensare a un modo per affrontarlo, quello gli rivolse un grande sorriso e gli porse le due ciotole.

«Buongiorno, neotere» disse pacatamente, con una voce rilassante che comunicava calma e tranquillità. Anche lo sguardo, con quei grandi occhi scuri, dello stesso colore della carnagione, conferiva lo stesso effetto all'interlocutore. Tuttavia non erano solo bontà e quiete a colorarli; in mezzo si scorgeva anche una forte curiosità.

Mijime però non si fidava e rimase in silenzio, continuando a scrutarlo e a fare congetture su chi fosse e perché mantenesse un comportamento così placido nei suoi confronti.

L'altro amplificò il sorriso, quasi a ridacchiare, vedendo l'espressione corrucciata del giovane: «Non temere: non ho niente a che fare con quelli che vi hanno aggredito ieri» lo rassicurò, continuando a tendergli le ciotole, che Mijime non guardò nemmeno.

«Dove mi trovo?»
«Oh, che sbadato!» esclamò l'uomo sbattendosi una mano sulla testa. «Dopo quello che ti è successo è ovvio che tu sia un po' disorientato e, anche se non lo fossi, non potresti certo sapere dove sei stato portato. Benvenuto all'accampamento di Tou Gheneiou, nella foresta di mangrovie».

«M-mangrovie?!» Cosa aveva appena sentito? Ma quell'uomo era forse pazzo? E come erano capitati lì, se si erano scontrati con i guerrieri nel bosco, ben lontano da quella foresta pluviale?!
Tou Gheneiou, un altro di quei nomi... ma che significavano? E quello chi era?!

«Tranquillo, neotere» ridacchiò l'uomo, vedendo gli occhi sgranati del giovane, che sentiva la testa scoppiare dalla quantità di domande che lo premevano e di informazioni riportate solo a metà. «Alla fine le mangrovie sono un bel posto. Se non ci credi vieni con me: ti mostro una parte del nostro villaggio, anche se avrai molte altre occasioni per vederlo tutto».

Mijime continuava a guardarlo diffidente. Non capiva proprio dove volesse andare a parare e quella sua inestinguibile allegria non lo rassicurava: doveva essere falsa - per forza! - e lui particolarmente bravo a dissimulare. Tuttavia osservare il villaggio non doveva essere una scelta sbagliata: poteva iniziare a ispezionarlo, vederne i punti deboli, utili per il suo piano.

«Prima vorrei sapere chi sei e capire cosa ci è successo» disse, educato e quieto a sua volta: non poteva certo inimicarselo subito.
«Certo, ti spiegherò e potrai farmi sempre tutte le domande che vorrai. Anche adesso durante il breve tragitto verso il mio oikarion, dove devo prendere le cure necessarie per i tuoi compagni. Se vuoi venire...» sorrise quello, alzandosi in piedi.
«Eh?» fece Mijime, all'ennesima parola ignota.
«Iniziamo subito, vedo. Un oikarion è il luogo in cui ti trovi ora. Sono le nostre abitazioni. Se scendi te la mostro per bene».

Così dicendo, tornò presso la botola, togliendo il fermo e lasciandola cadere nel vuoto. Mijime si avvicinò all'apertura e scorse sotto di lui una scala di corda che scendeva per qualche metro fino a giungere su una piattaforma di legno. L'uomo si calò per primo e il giovane, avendo constatato che sembrava abbastanza sicuro, lo seguì. Pochi istanti dopo si trovò immerso nel verde più lussureggiante che avesse mai visto. Lo circondavano alberi dai fusti enormi, con rami di dimensioni altrettanto notevoli che andavano a intricarsi con quelli adiacenti, formando vere e proprie sculture, abbellite dalle foglie che impregnavano la foresta del loro colore. Mijime trattenne a stento un'esclamazione stupita a quella visione favolosa.

Guardando in alto, vide la costruzione in cui era stato poco prima, che ora poteva capire come era strutturata: su un ramo era posizionato il fulcro, a cui erano legate tutte le liane che componevano la struttura. Sotto era poi presente un piano circolare, ancorato saldamente a un'altra diramazione, e alle sue estremità erano legate tutte quelle piante allungate. Presentava così una caratteristica forma conica, che quasi lo mimetizzava nella foresta. Ma il resto del villaggio dov'era?

Senza badare al sorrisetto divertito dell'uomo, iniziò ad aggirarsi per la piattaforma, fino ad arrivare al bordo, dove ebbe la sventurata idea di guardare in basso: non riuscendo a scorgere il terreno su cui erano radicate le piante, capì subito che non si era mai trovato a un'altezza tanto vistosa.

«Ma... ma... quanto distiamo da terra?!» esclamò immediatamente, saltando sul posto. Quegli alberi erano così grandi da svettare per centinaia di metri?! Una cosa simile in natura non poteva esistere!

«Un bel po'» rispose pacatamente l'uomo, osservando sorridente ciò che si trovava intorno a lui. «Quello in cui sorge il nostro villaggio è il punto in cui si trovano gli alberi più alti di tutta l'isola. Almeno, stando a quello che ho sentito; sono pochi ad averla vista tutta, l'isola. Comunque, prima ti dicevo che è un bel posto; per la sicurezza sicuramente: nessuno riesce ad arrivare qui in alto, infatti non siamo mai stati attaccati da un clan nemico; allo stesso tempo, fin quassù non vengono le bestie, a parte poche eccezioni, che aggiriamo facilmente grazie all'operato dei nostri guerrieri. Ecco, l'unica raccomandazione è non cadere».

«Lo terrò a mente...» annuì il giovane, con una smorfia: tutto bellissimo e suggestivo, ma rischiare di rimetterci la pelle ogni secondo non era la prospettiva migliore che potesse figurarsi. «Non dovevamo andare al tuo oikarion?» chiese poi, cercando di capire cosa volesse fare ora: erano isolati, tutt'intorno, a far loro compagnia, v'erano solo mangrovie.
«Esatto».
«E come avresti intenzione di muoverti da qui?» Sembrava un'impresa: non c'erano scale, non c'erano ponti... Nulla li collegava al villaggio di cui parlava quello!

L'altro trattenne una risata, avvicinandosi alla sporgenza e afferrando una liana legata al ramo superiore.
Mijime sbiancò: «No...»
«Be', non vorrai restare qui in eterno. Prima o poi dovrai usare queste per spostarti» disse l'uomo, prendendo il giovane per un braccio e portandolo vicino a sé contro il suo volere. Era molto più forte di quello che suggerivano i segni del tempo sul volto e i fili grigi che si intravedevano tra i ricci scurissimi. Doveva avere quarant'anni o cinquanta, eppure aveva il vigore di un giovane adulto. Senza nemmeno accorgersene, sollevò da terra Mijime, caricandoselo in spalla e, dopo essersi dato una leggera spinta, si buttò giù dalla piattaforma.

Fu tutto così improvviso che il giovane non ebbe nemmeno il tempo di realizzare cosa stesse accadendo e prepararsi. Sentì il respiro mancargli per qualche istante e intanto davanti ai suoi occhi, a una velocità folle, scorsero molteplici immagini confuse tra loro. Poi tutto finì. Percepì una base lignea a contatto con la sua schiena e il suo respiro tornare, affannoso e concitato.

«Ottima reazione, per essere la tua prima volta, neotere. Un attimo solo che vado a prendere ciò che serve per curare i tuoi amici». La voce di quel pazzo... Continuava a sentirla ma non riusciva a concentrarsi sulle parole. Lo avrebbe anche potuto ammazzare, se solo non gli fosse stato così utile! Ma cosa gli era saltato in mente, a quello... Il suo battito, pian piano, tornava intanto al ritmo normale e, dopo poco, ritornò anche l'uomo, come al solito sorridente: «Dunque, avevi delle domande? Sono a tua disposizione».

Mijime ne aveva fin troppe ma, stremato com'era, l'unica disperata questione che gli uscì fu: «Ma tu chi diamine sei?»
«Io sono Genew, il capo del mio clan» rispose, con energia, tendendo una mano al giovane perché si mettesse seduto. Guardò poi verso l'alto, come a trovare le parole, ma poi fece spallucce. «Effettivamente... non ho molte cose da dire su di me che ti possano interessare».

«E quelli di ieri?» continuò Mijime, mentre le sue facoltà mentali riprendevano la loro caratteristica lucidità.
A quella domanda, l'uomo sembrò incupirsi: «Tou Mortinou».
«Sono così terribili da dover parlare a bassa voce?»
«Oh, sì. Sono anche nostri nemici, da quando è nato il nostro clan, ormai sedici generazioni fa. Mortino, il loro capo, è da secoli che tormenta noi e tanti altri».

«Secoli?» Mijime stava per ridere: oltre al nome insulso che era stato appioppato a questo fantomatico nemico, come poteva continuare da secoli? Ma un altro elemento gettava un'ombra sul suo discorso: sedici generazioni. Se era vero, quel clan doveva essere approdato sull'isola nel Seicento o nel Settecento... E in tutto quel tempo non avevano mai trovato il tesoro.
«Be', sì...» iniziò a spiegare, con una smorfia appena contrariata, ma un rumore troncò il suo discorso.

Un piccoletto mingherlino che non poteva avere più di nove anni era appena saltato giù dalla scala di corda e stava correndo verso di loro con un vasetto in mano.
«Papà, papà, ecco la lozio-» stava dicendo, rivolto all'uomo, ma subito si accorse di Mijime e spalancò i due enormi occhi azzurri, meravigliato. «Oh! Tu sei uno dei neoteroi. Però sei talmente bello da sembrare un daimon!» esclamò, iniziando a saltellare intorno al giovane.

«Cosa?» Ancora quel dannato linguaggio?! Ma si poteva sapere cosa volessero dire tutti quanti?!
«Uh, il neoteros-daimon parla la nostra stessa lingua!» continuò il bambino, sempre più estasiato, avvicinandosi a Mijime e iniziando a scrutarlo attentamente: «Certo che sei proprio strano. Hai degli occhi strani, dei vestiti strani e non hai la barba... Tu sei davvero un daimon! Quale sei? Quale sei?»

«Avanti, Hermit». L'uomo acchiappò il piccolo, caricandoselo in braccio, e quello si placò subito, non appena sentì il contatto con il padre. Ora che erano così vicini, Mijime non poteva non notare la vistosa somiglianza che intercorreva tra i due: solo la carnagione, caffelatte quella del bambino, bronzea quella dell'adulto, e il magnetico colore degli occhi del primo li differenziavano in modo sostanziale. «Te l'avevo già detto che non avresti dovuto disturbare i neoteroi, vero? Sono tutti molto provati».

«Ci credo...» annuì il bambino, quasi rabbrividendo. «Hanno incontrato Mortino. Com'era? Com'era?» Cercando di sbilanciarsi verso il giovane, la piccola peste era già tornata alla carica con la sua energia esplosiva, che Mijime già non sopportava più.
L'uomo lo strinse un po' di più, tenendolo fermo, e, prima che questo potesse tornare a sfuggire alla sua presa, gli prese il vasetto dalle mani e asserì: «Penso che la mamma abbia ancora bisogno del tuo aiuto, di sopra. I neoteroi potrai vederli tante altre volte, d'ora in poi».

Il piccolo ci rifletté su, come se stesse analizzando meticolosamente le frasi del padre, quasi non si fidasse delle sue parole, ma alla fine, tutto sorridente, annuì: «Va bene, papà. Ciao ciao». Scosse la manina in direzione del giovane e salutò poi l'uomo stringendolo in un abbraccio. Con un movimento veloce si liberò dalla stretta dell'adulto e sgattaiolò di nuovo nell'oikarion.

Mijime tirò un sospiro di sollievo e tornò a concentrarsi sull'uomo, che continuava a osservare il punto in cui era sparito il bambino, con due occhi pieni di orgoglio. Doveva essere un buon padre... Il giovane sentì una strana sensazione percorrergli lo stomaco, ma la ignorò, tornando invece a rivolgersi all'uomo: «Di cosa stava parlando? Daimon, neoteros... Avete pure una lingua diversa?»

Nessuna risposta. Che irritazione! Mijime si sbrigò a cercarlo con lo sguardo ma notò che sulla piattaforma era sparito: doveva essersi perso nei suoi pensieri. Vedere certe scene gli faceva sempre quell'effetto... Doveva contenersi.

Alzò la testa e lo vide che si stava inerpicando su una liana velocemente e con una mano sola. Ma come faceva?! Già preoccupato che volesse lasciarlo indietro - con quel demonietto di suo figlio in giro, per di più! - e dovesse raggiungere l'oikarion da solo, gridò nella sua direzione: «Ehi, tu...» Si bloccò subito, con un vuoto di memoria, per cui non riusciva proprio a ricordare il nome di quello: era strano, quasi impronunciabile. Ginu, Giona, Genu... Ma che senso aveva?! «Com'è che ti chiami?»

«Genew». Se non altro aveva smesso di salire, restando semplicemente appeso alla liana con un braccio e guardando il giovane.
«Ma che razza di nome...» iniziò a borbottare tra sé Mijime, ormai insofferente a tutto. Riprese poi a parlare all'uomo: non aveva certo finito con le domande, anzi, non era neanche a metà. «Non mi spieghi nulla?»

«I tuoi amici dovrebbero essersi svegliati; torna su, così cerco di riassumere le cose più importanti una sola volta». Vedendo l'espressione di Mijime, che non si aspettava certo di dover tornare al suo oikarion da solo, aggiunse subito, quasi divertito: «Non è difficile: devi seguire solo questa liana. Ogni volta mi dimentico che dobbiamo spiegare tutto quanto a voi neoteroi...»

Tornò ad arrampicarsi e Mijime non poté che seguirlo: afferrò la liana e iniziò a tirarsi verso l'alto, imprecando mentalmente a ogni dannata volta in cui perdeva l'equilibrio e scivolava, sfregando la sua pelle contro la pianta.
«Delle scale... Delle scale! Non potevano inventarsi delle scale, invece che quegli oi-cosi?!» biascicava tra sé, finché, dopo un tempo interminabile, giunse finalmente sulla piattaforma del suo oikarion.

Si sdraiò per terra, massaggiandosi le mani tutte arrossate per le sfregature: fino al giorno prima aveva pensato che il suo corpo fosse temprato per ogni genere di fatica... Ora si stava lentamente ricredendo.

Alzò gli occhi e la vista della scala gli ricordò che non aveva ancora finito per quel giorno. Di malavoglia, tornò in piedi, trascinando gli arti fino al legno dei pioli, su cui compì l'ultimo, estenuante sforzo.

«Sono... distrutto» mormorò, buttandosi prono sul pavimento, assaporando il fresco dei tronchi sotto di lui. Quel breve tragitto gli aveva tolto qualsiasi forza, persino quella mentale, sempre attiva e in procinto di farsi domande su tutto.

«E io voglio sapere dove siamo!» Un grido stridulo arrivò subito alle orecchie del giovane, insieme a tanti altri borbottii di sottofondo, nascosti però dalla petulante voce di Em.
«Mi mancava sentirti urlare...» disse, sollevando la testa e sorridendole sarcastico: l'unica forza che gli era rimasta era quella di sbeffeggiare qualcuno abbastanza divertente da provocare. Quella non gli sarebbe mancata neanche in fin di vita. «Dopo voglio proprio vederti sulle liane, contessina».

Mentre si assaporava la faccia sconvolta della giovane aristocratica e di tutti i presenti a quell'ultima frase, anche l'uomo sopraggiunse all'interno dell'oikarion.
Tutti rimasero ammutoliti vedendo entrare lo sconosciuto. "Vi ci abituerete" sogghignò tra sé Muzan: quel soggiorno tra le mangrovie si stava rivelando davvero soddisfacente, per il suo divertimento.

«Buongiorno a tutti, neoteroi» salutò l'uomo con un grande sorriso. «Io sono Genew, il capo del clan Tou Gheneiou».
A quell'apparizione comparvero molteplici emozioni sui volti dei cinque giovani: timore, sospetto, curiosità, sbigottimento... Neanche Bellatrix era stata in grado di mantenere un'espressione indecifrabile.

«Ancora con questi nomi!» esclamò Spiro, a cui da un po' veniva richiesto uno sforzo mentale troppo grande: quella vacanza non gli piaceva più così tanto. E tutti quei tizi che comparivano dal nulla gli mettevano paura! «Già faccio fatica a ricordare il nostro...»

«Lascialo finire!» lo rimproverò Morag, mentre continuava a massaggiarsi le molteplici ferite: i guerrieri avevano preso proprio lui di mira e si erano messi a pestarlo come non aveva mai visto fare. A ripensarci rabbrividiva ancora, ma doveva capire chi fossero. «Magari ci spiega cos'è successo con quelli là».

L'uomo aspettò che i giovani tornassero in silenzio e continuò: «Ieri avete incontrato uno dei clan più pericolosi dell'isola, Tou Mortinou, se non il più pericoloso».
«Ah sì?» lo esortò a proseguire Bellatrix.
«Da troppo tempo ormai porta violenza e disastri ai popoli confinanti...»

«Popoli interi, intendi?» chiese scettico Germanico. «Non penso che quella dozzina di uomini possa sterminare così tanta gente».
«Oh be', Tou Mortinou non è certo composto solo da loro. Quanti di preciso non lo so, ma se si contano tutti coloro che vivono nei territori di Mortino saranno più di diecimila individui».

A quella cifra i giovani rimasero di nuovo senza parole: ogni elemento sembrava volesse mostrar loro che l'isola era sempre più grande di quello che credevano. Inizialmente dovevano essere soli, lì sopra, poi si erano resi conto che qualche altro essere umano viveva su quella terra; ma dovevano essere radunati in clan sporadici, poco organizzati, di un numero esiguo come il loro. Non dei popoli interi! E i due di cui avevano appena fatto conoscenza non dovevano essere gli unici. Ma quanto era grande l'isola?! Di questo passo trovare il tesoro sembrava davvero impossibile.

Ma non tutti erano afflitti da questi ragionamenti. «Mortino?» ripeté Spiro, ridendo sotto i baffi, particolarmente divertito dall'appellativo che le maghe avevano scelto per l'uomo di cui stava parlando Genew: poteva essere solo un piccoletto scorbutico, con un nomignolo simile!
«Il nome del più spaventoso tra tutti gli uomini dell'isola. Se ancora può essere considerato un uomo... Ieri lo avete visto e il vostro compagno» affermò, muovendo la testa nella direzione di Mijime, «si è scontrato contro di lui».

Nelle menti dei giovani apparve di nuovo, nitida e agghiacciante, l'immagine del gigante dai capelli di fiamme. Quindi era quello, Mortino?
«Io e qualcuno dei miei guerrieri siamo arrivati proprio allora e vi abbiamo rapidamente portato via. Vi è andata bene che erano pochi e tutti ubriachi. Saranno andati a divertirsi in uno dei villaggi che hanno sottomesso».
«E solo così ci hanno conciati per le feste... Ho un male addosso che metà basta» continuava a lamentarsi Morag: maledetti, quel Mortino e i suoi uomini. Un dolore simile era sicuro che non lo avrebbe provato mai più: dopo ci poteva essere solo la morte!

«Proprio per questo vi ho portato una lozione che farà scomparire le vostre ferite e vi farà sentire subito meglio». A quelle parole Morag quasi sussultò per la gioia: incurante di chi fosse quello - non aveva badato tanto al suo discorso - si precipitò a prendere il vasetto, strappandolo quasi dalle mani di Genew, e lo aprì. Mentre nella stanza si diffondeva un fresco profumo di erbe, il giovane iniziò subito a spalmarsi la lozione sui punti doloranti, sospirando di sollievo ogni volta che la consistenza viscosa veniva a contatto con la sua pelle: l'avrebbe definita magica, quella cremina, tanto benessere riusciva a portargli.

Anche Spiro, Em e Germanico, vedendo gli effetti miracolosi e immediati, si ammassarono al vasetto per medicarsi, mentre Mijime continuava a guardare il tutto sospettoso: gettò un'occhiata verso Bellatrix, vedendo per l'ennesima volta che aveva preso la sua stessa decisione. La mancanza di ferite significative sul suo corpo doveva poi portarla a non avere un bisogno disperato della lozione.

«Prima avevo anche portato un po' di acqua e cibo, se ne avete bisogno» aggiunse poi Genew, indicando le ciotole che aveva offerto al giapponese quando ancora tutti stavano dormendo. I soliti quattro si slanciarono verso gli altri due recipienti per rifocillarsi, senza farselo ripetere e senza badare tanto alle buone maniere. Bellatrix e Mijime continuarono invece a rimanere ai loro posti, non ancora sicuri di fidarsi di Genew, sebbene lo stomaco li invitasse a seguire l'esempio dei compagni.

«E adesso dove hai detto che ci troviamo?» chiese poi Bellatrix.
«Nella parte centrale della foresta di mangrovie». Non appena sentirono l'ultima parola, anche i quattro affamati tornarono sull'attenti, allarmati, ma Genew si mosse per tempo, evitando che scoppiasse il finimondo. «Mi metto subito avanti prima che vi spaventiate come il vostro compagno prima: è un posto sicuro, sia per le belve, che così in alto non vengono, sia per i nemici, che non saprebbero nemmeno da dove partire per penetrare qui dentro. Vi dovrete solo ambientare: inizialmente sarà un po' difficile, ma vedrete che col tempo vi abituerete».

Em si accorse proprio in quel momento dello stato in cui si era ridotta, ad abbuffarsi come una bestia con la frutta che le era stata portata. Oh, che cosa le stava succedendo... Non poteva comportarsi così! Dov'era finita la sua preziosa eleganza, con la quale non perdeva l'occasione per ammaliare chiunque?! Quell'isola, quell'isola, quell'isola! E cosa aveva appena detto lo sconosciuto che aveva portato loro cibo e cure? Col tempo vi abituerete. Em sbiancò: non se ne sarebbero andati?
«Col tempo? Intendi che dovremo restare qui? Ma non dobbiamo trovare il tesoro e andarcene?» chiese subito, di botto, estremamente preoccupata, facendo comparire un'emozione analoga sul volto dell'uomo.

Se non la strozzava quella volta, Bellatrix era certa che avrebbe anche potuto lasciarla in pace per tutta la vita. Ma cosa le diceva la sua testa bacata?!
«Lasciala perdere, Genew. Se parla così è solo perché è stremata da tutto ciò che ci è successo: non fiaterà più, te lo possiamo assicurare». Bellatrix fulminò la compagna, che per tutta risposta si voltò dall'altra parte con una smorfia. La giovane sbuffò: era da un po' che osservava il capo del clan e le pareva che fosse sincero con loro, a differenza di quello che probabilmente pensava Mijime, che lo guardava circospetto. Perché fosse così gentile e caritatevole non se lo riusciva proprio a spiegare, ma era certa che quella sua disponibilità non nascondeva piani di altra natura: loro, di conseguenza, non potevano che mostrare una profonda gratitudine nei suoi confronti, altro che le loro lamentele inutili!

«Oh, ci sono abituato, non mi offendo mica» disse pacato il capo del clan, ma tradendo un ultimo sospiro. «Dopotutto, è normale che vogliate tornare nell'Exo: siete neoteroi».
«Ma perché ci chiamate neoteroi? E che lingua è?» chiese subito Germanico, perché, una volta per tutte, potesse essere svelato il mistero di quelle strane parole.

Ma prima che Genew potesse rispondere, Em si stava già sbracciando: era la sua occasione per dare sfoggio della sua altissima cultura e risollevarsi dalla precedente figura barbina. «Oh, oh! Questo lo so! È greco, è greco! I neoteroi erano quelli là...» Arrossì immediatamente per il vuoto di memoria: forse a scuola avrebbe dovuto impegnarsi un po' di più. «Sì, insomma, una specie di poeti latini...»
«Ma non hai appena detto che è greco?» ribadì Morag, confuso.
«Sì, però loro erano latini».
«Detto da te mi convince poco».
«Te lo assicuro!» esclamò quella, non essendo presa sul serio. «Guarda che ho fatto il liceo classico!»
«Scommetto che eri la più brava della classe...» la zittì infine Mijime: era possibile che o lei o Spiro interrompessero sempre per motivi così futili spiegazioni che invece erano di fondamentale importanza?! «Genew, potresti spiegarcelo tu?»

«Sì, scusatemi» ridacchiò l'uomo, già tornato di buonumore. «Dimentico sempre che non potete conoscere la lingua che parlano le creature dell'isola».
«Come le fatine che ci hanno dato i nomi?» chiese subito Spiro, ricordando sognante le bellissime creaturine. Come sperava di poterle incontrare di nuovo per ammirarle!

«Non ci sono solo loro. Ci sono i folletti, le ninfe e i daimona, cioè gli spiriti, che sono i più importanti di tutti. Soprattutto loro usano questa lingua, pur conoscendo anche tutte quelle dei mortali. Lo fanno per sentirsi superiori, penso; non tutti gli uomini infatti riescono a comprenderla del tutto o a parlarla: è piuttosto complessa. Però è la lingua dei nomi dei clan e molte parole le usiamo anche nella nostra quotidianità, come oikarion, che è la nostra abitazione, oppure neoteros, cioè un individuo come voi, che non è nato sull'isola. Ne arrivano in continuazione, ma davvero pochi riescono a sopravvivere; l'unica possibilità che hanno è unirsi a un clan più longevo».

«Come voi, insomma» rifletté Bellatrix, per poi chiedere ciò che più le premeva: «Ma perché lo fate? Non è certo utile prendere nel clan dei pesi morti».
«Ogni clan stabilisce se vuole accogliere o meno dei neoteroi. Nel mio è ormai una tradizione centenaria, sebbene anni fa ne giungessero molti di più, ma questo soprattutto a causa del piccolissimo numero di persone di cui era costituito Tou Gheneiou. Se ora siamo più di seicento individui, e nello specifico seicento trentaquattro, è anche merito dei neoteroi, che hanno contribuito ad allargare il nostro popolo; dal nucleo iniziale di quattordici uomini che eravamo non saremmo sopravvissuti per tanto tempo.

Se poi a prima vista possono sembrare inutili, non lo sono affatto: con il tempo si abituano anche loro a questa vita e il nome di neoteroi rimane solo come ornamento. Inoltre, io credo che voi neoteroi lasciate tanto al clan, anche nell'immediato: venite dall'Exo, il mondo fuori dall'isola, e questo vi caratterizza. Pensate in modo diverso, secondo me più saggio, e la vostra presenza può far crescere tutti noi». Genew sorrise, come se un pensiero felice lo avesse improvvisamente illuminato. «Ho già imparato tanto dai neoteroi, e sono sicuro che continuerò a farlo».

Nessuno aveva saputo cosa aggiungere e Mijime aveva impiegato tutto il suo autocontrollo per non esibirsi in smorfie di dissenso: davvero la gente dell'isola li considerava saggi? Erano sicuri di aver conosciuto dei neoteroi? Oppure la gente sull'isola era talmente vile da superare in questo frangente la loro meschinità? Il giovane pensava a sé, ma sapeva di parlare per tutta l'umanità, così corrotta, egoista, indifferente... Non per forza malvagia, ma tutta estremamente falsa, ipocrita. E se Genew era stato sincero con loro, mostrandosi così accogliente, così disponibile, genuinamente buono, cosa avrebbe potuto imparare da gente simile? Ma forse quell'uomo faceva parte di quel ristrettissimo gruppo di individui che colgono il bello dovunque, anche in un mare putrido, colmo delle più svariate sozzure umane.
Più ne analizzava i particolari del sorriso e degli occhi, più si rendeva conto che non poteva mentire: era così naturale, così spontaneo, tanto da parere inumano, o forse soltanto appartenente a un'umanità ormai scomparsa.

«Le cose da dirvi in merito a noi sono ancora tante, ma adesso è meglio se riposate».
Mijime si riscosse immediatamente dai suoi pensieri e si affrettò a fermarlo: «Aspetta, Genew». Le sue curiosità non erano ancora finite e, oltre alla ricerca del tesoro, si ricordò di essersi prefissato anche un altro obiettivo: cambiare il suo dannatissimo nome. Sentendo quello del capo, aveva però pensato che potesse essere stata solo una casualità: l'unione di lettere senza senso, che in realtà non avevano nessun significato. Doveva confermare quella sua teoria. «Quanto ne sai della questione dei nomi? Tutti vogliono dire qualcosa?»

«Almeno nella testa delle maghe, sì. Riuscire a comprenderlo è un'altra storia. Un esempio è il mio, che è lo stesso che quelle due attribuiscono al primogenito del capo, destinato a diventare capo a sua volta, da quando il mio progenitore è giunto come neoteros sull'isola. Cosa significhi Genew, o Gheneios, se lo preferite nella lingua dell'isola, nessuno lo sa».
«Secondo me le maghe sono solo delle fan di Dragonball». Il solito intervento poco gradito - e poco comprensibile - di Spiro... «Vorrei parlarci. Chissà se tifano per Goku o per-».
«E quello del nostro clan?» chiese poi Morag, interrompendo bruscamente il compagno. «Siamo Tou Melitos».

Sul volto di Genew si disegnò subito un grandissimo sorriso, mentre si vedeva che cercava di reprimere una grassa risata; tutti si guardarono straniti, provando a capire cosa avesse, ma il capo svelò in fretta l'arcano: «Il clan del miele» borbottò, riprendendo la sua pacata serenità. «Le maghe avranno voluto farsi due risate».

«Non possiamo essere presi seriamente neanche nel nome...» commentò Mijime, guardandosi intorno: Germanico e Morag si contendevano ancora l'acqua e il cibo, Em provava a mostrarsi ancora sostenuta e Spiro aveva cominciato a grattarsi dovunque. Ancora dimostravano di essere senza speranza... Stava iniziando a pensare che la loro salvezza fosse stato essere attaccati da Mortino, per poi venir salvati da Genew.

«Vedrai che non sarà un grosso problema: è solo un nome» lo rincuorò Genew, mentre il giovane sospirava ancora, tacitamente: certo, era solo un nome; perché mai avrebbe dovuto importargli? Se fosse stato così semplice... «Ma adesso riposate, neoteroi» ribadì, poi, aprendo la botola e iniziando a uscire. «Domani vi attende una giornata... intensa. Purtroppo non potrò stare con voi ancora: i miei doveri di capo mi attendono. Vi lascerò nelle mani della mia famiglia».

«Genew, dobbiamo ringraziarti, per averci salvati, accolti e curati» lo interruppe un'ulteriore volta Bellatrix, l'unica che evidentemente si premurava di mostrarsi riconoscente. «Ma non sappiamo come...»
«Infatti non dovete. E per le cure io non ho nessun merito: è mia moglie che le fabbrica con la sua magia».
«Magia?!» Sgranarono tutti gli occhi a quella parola: ecco perché chi aveva usato quella lozione già non sentiva più dolore. C'era la possibilità che fosse una delle maghe?
«Oh, avrà il tempo per spiegarvi. Ma domani. Buon riposo, neoteroi» concluse infine, chiudendo la botola sopra alla sua testa e lasciando i giovani con la sola compagnia delle domande che continuavano a girar nelle loro menti.

«Qualcosa non mi convince...» considerò a un tratto Mijime, dopo essere rimasto a lungo in silenzio a rimuginare.
«Spiegami cosa c'è che non va in quest'uomo» sbuffò Bellatrix.
«Non in lui. In tutta la situazione. Stiamo per morire tutti, accerchiati da un clan bellicoso - che, anzi, è il più pericoloso di tutta l'isola - e altri individui vengono a salvarci, rischiando sicuramente la vita. E fin qua... Ci si aspetterebbe che ci facessero schiavi o per lo meno ci imponessero di renderci utili. Invece ci ritroviamo cibo, acqua, cure e un'inaspettata ospitalità. È tutto... troppo bello».

Per quanto la giovane non volesse dargli ragione per nessun motivo, il suo discorso era sensato. Ma la prima volta che aveva visto gli occhi di Genew aveva notato una scintilla di bontà al loro interno. Aveva conosciuto tante persone, per tutto il corso della sua vita, e se c'era una cosa che sapeva fare alla perfezione era capire se qualcuno stesse mentendo o no: il capo di Tou Gheneiou era una di quelle che non sarebbero mai in grado di ingannare il prossimo. Sapeva già che non sarebbe stato a causa sua se quella situazione a dir poco idilliaca sarebbe precipitata.

«Qualcosa di strano però lo ha anche lui. Non ci ha nemmeno chiesto i nostri nomi» commentò anche Germanico e anche Em stava per aggiungere la sua, quando Morag li bloccò tutti: «Avete ancora intenzione di provare a capire qualcosa in quello che ci succede? Siete davvero pazzi. Be', io ci ho rinunciato e vi consiglio di fare lo stesso».

Si sdraiò di nuovo e si girò dall'altra parte: Genew aveva chiesto loro di riposarsi, mica di mettersi a fare congetture su quello che sarebbe successo; e, dopo tutte le condizioni che aveva vissuto in quel passato così breve e intenso al contempo, non aveva la forza di pensare al futuro.

«Ci voleva tanto a capirlo?» bofonchiò Spiro, stravaccandosi anche lui seguendo l'esempio del compagno di clan.

Gli altri non potevano fare diversamente: Genew aveva detto che era impossibile entrare nella sua foresta e probabilmente lo era anche uscirne; se anche la loro condizione fosse cambiata a breve, loro non avrebbero potuto fare molto. Presto si lasciarono avvolgere nel sonno, senza che i pensieri potessero tormentarli ancora.

~

Spazio autrici:
Ed eccoci con la revisione del capitolo 6 (dopo un tempo interminabile... 👀 Perdonateci!) Entriamo finalmente nel vivo della storia! I nostri eroi sono giunti in un nuovo clan, che avremo tempo di conoscere bene. Allora, come vi sembra, così a primo impatto? Che ve ne pare di Genew, il loro capo? Vi ispira fiducia oppure siete sospettosi? E che ne pensate di questa improvvisa ospitalità? Ci sarà qualcosa sotto oppure è solo una caratteristica del clan Tou Gheneiou?
Diteci, diteci che siamo curiose!
Noi vi salutiamo e corriamo a revisionare il capitolo 7!
A presto!
~🐼🐢

N.d.t. (la lettura di questo extra è fortemente consigliata)

Eccoci qua a una lezione con 🐼, perchè, come ci ha fatto notare la carissima Em (non tradurrà altre cose nel corso della storia perché al liceo era assolutamente negata e non ricorda nulla, a parte poche reminiscenze), la lingua dell'isola non è altro che il greco antico.
Il perché sarà chiarito più avanti (per ora immaginate e basta), tuttavia abbiamo deciso di adottare questa lingua, che tra l'altro, forse avrete notato, è anche quella che abbiamo usato per la maggior parte dei nomi (in realtà non tutti i nomi derivano dal greco: meli, melitos vuol dire davvero miele, ma per i nomi di persona diciamo che li abbiamo "grecizzati", come Genew che diventa Gheneios, Gheneiou). Se quindi sapete qualcosa di greco, potreste ricevere FORSE degli spoiler. In ogni caso, ecco alcuni chiarimenti in particolare sui nomi dei clan: per farla breve, in greco con alcuni sostantivi come figlio (υιός, yios) o città (πόλις, polis) se bisogna scrivere qualcosa come "il figlio di Filippo", "la città di Elena", si sottintende il sostantivo principale (città o figlio) e si pone soltanto il genitivo del secondo elemento (che, circa, è come il nostro complemento di specificazione): diventa così ό τού Φιλίππου (o tou Filippou) e ή τής Ελένης (e tes Elenes). Avrete notato che noi abbiamo applicato la stessa regola con i clan dell'isola, omettendo però l'articolo neutro τό (to) che starebbe a indicare "clan". Analogamente, lo stesso vale nelle apostrofi dei dialoghi, se si parlano due individui di clan differenti; invece che dire "componente di Tou Mortinou", si chiamano più semplicemente Mortinou, ma questo lo vedrete quando ci saranno più clan in circolo (come sono in vena di spoiler ihih).

E adesso un po' di lessico

Neoteros (νεώτερος): finalmente incontriamo e scopriamo il significato della parola che caratterizza il sottotitolo di questa prima parte della storia. Si tratta del comparativo di néos (νέος, α, ον), giovane, per cui letteralmente neoteros è "più giovane, più nuovo, più recente". Troverete questa parola principalmente in quattro forme: neoteros al maschile singolare, neoteroi al maschile plurale, e i corrispettivi al femminile neotera, neoterai. Troverete inoltre la forma neotere: si tratta del vocativo maschile singolare, utilizzato appunto come complemento di vocazione. Al maschile plurale e al femminile questo non varia dalla forma del nominativo esposta di sopra. Abbiamo deciso di non utilizzare gli altri casi della declinazione, per motivi pratici: una scelta analoga sarà applicata a tutte le parole greche che verremo a scoprire.
Nota culturale. L'intervento di Em non era così a sproposito: i Neoteroi sono davvero esistiti ed erano una cerchia ristretta di poeti latini del I secolo a.C. che voleva contrapporsi alla tradizione poetica e ai rigidi costumi romani. Sappiamo che non ve ne frega niente, ma era giusto per motivare l'affermazione della nostra cara aristocratica.

Oikarion (οικάριον): "casetta", "casupola", "piccola casa". È un vezzeggiativo di oikìa (οικία) che è invece il termine utilizzato per indicare la casa generica. Abbiamo optato per questo perché ci sembrava potesse esprimere meglio un contesto familiare sicuro, protetto e caloroso. Forse vi sto spoilerando un po' di elementi dei prossimi capitoli, per cui mi fermo indicandovi l'altra forma che troverete di questa parola, cioè il plurale oikaria.

Exo (εξώ): è un avverbio-preposizione che significa "fuori". Non mi sembra ci sia da specificare ulteriormente, si capisce di per sé la scelta di questa parola.

Daimon (δαίμων): "essere divino", "spirito", questa parola indica una divinità meno potente e influente di un dio a tutti gli effetti (theos, θεός). In greco si tratta di un sostantivo maschile, ma noi abbiamo preferito renderlo neutro (il plurale infatti sarà daimona): capirete meglio la scelta di questa parola e il mutamento di genere proseguendo...

Spero di non avervi annoiato con queste informazioni e, se avete altre curiosità in merito, sarò felice di rispondere a tutto ciò che vorrete (sperando di conoscere io stessa le risposte 😅)

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