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Era ormai sera quando Em si risvegliò. La testa le doleva e sentiva male a tutto il corpo: ma cosa diamine era accaduto?! Nella mente ricorreva soltanto l'immagine di un lampo di luce, che pareva piuttosto la fine di un sogno confuso di cui non riusciva a ricordare altro. Ma non fece in tempo a radunare i pensieri per provare a capirci qualcosa, che sopraggiunse una voce estremamente irritante.

«Buongiorno! O, meglio, buonasera!» La giovane sbuffò, rendendosi conto dell'ottima compagnia che si era ritrovata. Alzò il capo, tenendolo appoggiato a una mano, e vide di fronte a lei quel petulante pilota, troppo vicino per i suoi gusti, che la stava guardando sorridente. Che gli prendeva ora? Non doveva provarci con l'inglese? «Come va?»
«Benissimo!» rispose sarcastica Em: dopotutto cosa c'era che non andava? Era ancora su quella dannata isola, la testa sembrava che stesse scoppiando e lui era venuto a farle le avances.
«Mi fa molto piacere». Il giovane tirò un sospiro di sollievo: non doveva aver colto l'ironia. «Eravamo tutti in pensiero, sai».

«Ah sì?» Em alzò un sopracciglio, confusa: perché sarebbero dovuti essere preoccupati per lei? Certo, lei doveva sempre essere nei pensieri della gente ma il fatto che i suoi compagni di sventura, con cui non aveva fatto altro che litigare, si preoccupassero era eccessivo. In tutto questo qualcosa non tornava.

«Come? Non ricordi?» Il giovane piegò la testa di lato, con un'espressione stranita. «Be', è meglio che tu sappia tutto: stamattina delle fate - sì, te lo posso giurare, delle fate! - sono venute a cambiarci i nomi e a dirci che da qui non possiamo andarcene».

Le labbra di Em si arricciarono in una smorfia simile a un sorriso, che subito scoppiò in una risata talmente sguaiata da non essere certo adatta al suo stato sociale; ma dal momento che il mal di testa cresceva in maniera quasi esponenziale, smise in fretta, limitandosi a ridacchiare: «Mi stai prendendo in giro: delle fate...»
«Te lo giuro, è così!»
«Va bene, e io sono una sirena» continuò lei, sarcastica: delle fate... Ma chi voleva prendere in giro?

«Em, ascolta...» provò a dire Morag, ma subito interrotto dalla giovane, che sgranò gli occhi inorridita, scandendo: «Come diamine mi hai chiamata?!»
«Se non mi ascolti...» sospirò l'altro, mentre Em iniziava ad agitarsi sempre di più, a ogni parola che il giovane aggiungeva. «Ti ho detto che ci hanno cambiato i nomi. È estremamente importante che tu ricordi solo questi e dimentichi quelli di prima: io sono Morag, il tedesco Germanico, l'inglese Bellatrix, il giapponese Mijime e il mozzo Spiro. E tu Em».

«Em?!» esclamò, piena di rabbia, esattamente come quella mattina, benché non ricordasse. «Em?! Oh, no! Oh, no no no! Io sono...»
Morag si slanciò in avanti, tappandole la bocca e quasi gridando: «No! Non ridirlo. Non farlo. Sai perché sei svenuta, prima? Proprio perché l'hai detto. Perché hai detto il tuo nome. Per quanto possa essere importante per te, devi rassegnarti a farti piacere questo».

«Cosa...» Em non capiva: cos'era successo mentre lei era rimasta addormentata?
«C'è una maledizione secondo cui, se qualcuno li pronuncia per intero, il possessore del nome muore. Tu non avevi fatto in tempo a completarlo e quindi sei sopravvissuta, anche se le tue condizioni erano davvero orribili».

Em sentì le lacrime salire fino alle palpebre, mentre il mondo pian piano le cadeva addosso. Tutto quello che era sempre stata trovava le sue fondamenta proprio nel suo nome. Ma se ora avesse voluto ribadirlo, sarebbe morta. Morta davvero. E già aveva rischiato di farlo. Ma come? La morte era sempre stata tanto lontana da lei, e avrebbe dovuto esserlo per ancora molto tempo. Non voleva morire. Però non voleva nemmeno essere... Ma cos'era adesso?
«Non posso essere solo... questo» mormorò, mentre una goccia le rigava la guancia. «Non posso!» gridò poi, senza più trattenersi.

Iniziò a piangere, senza fermarsi, senza curarsi del fatto che il suo compagno la stesse fissando. Piangeva, senza freni, perché non poteva fare nient'altro: tutto ciò che aveva di importante lo aveva perduto. Ora non era niente.

E continuava, mentre Morag cercava di consolarla, invano. Finché non sopraggiunse una terza voce, connotata da un sarcasmo affilato: «Meraviglioso sentirti di nuovo strillare». Mijime era tornato al loro accampamento, presto seguito anche dagli altri tre componenti del clan. Tranne Spiro, tutti i loro volti erano pensierosi, e in particolare quello del giapponese. Em non lo aveva mai visto così cupo, ricordandolo anzi sorridente e gioviale nei suoi confronti. Ora invece la stava osservando con aria beffarda. «Mi sta quasi venendo voglia di pronunciare il tuo nome per intero».
«Mats... Mijime!» esclamò il tedesco, dietro di lui, allarmato dalla battuta dell'altro. «Ma... cosa stai dicendo?»
«Germanico, secondo te? Ci vorrebbe troppo tempo, cosa che non abbiamo più».

Em si sentì ferita nel profondo da quelle parole e le sue lacrime non poterono che accrescersi. Si prese la testa tra le mani, mentre pensava alla sciocca che era stata, comportandosi come aveva fatto con il giapponese: ora che la trattava così, era ovvio che prima avesse voluto solo sfruttarla per i suoi soldi. E lei che aveva pensato che le volesse davvero bene, che fosse gentile con lei perché la trovava interessante. Ma qualcuno, effettivamente, le aveva voluto bene? Non credeva, ma non era mai stato qualcosa di importante: dopotutto, ogni relazione aveva sempre potuto comprarla. Ma senza denaro come avrebbe mai fatto?

«Em, tutto bene?» chiese Morag con apprensione, interrompendo i suoi pensieri.
«Ma secondo te va tutto bene?!» urlò Em, nell'ennesimo scatto furioso, per poi strillare di più nel suo pianto ininterrotto.
«Finiscila!» la fulminò Mijime, mettendole tanto timore che subito la sua tristezza riuscì a inibirsi. «Immediatamente» proseguì, con il tono sempre più rigido. «Il tuo tempo da ragazzina viziata è terminato. Fattelo andare bene».

Seguì il silenzio. Em continuava a piangere tacitamente, senza attirare più l'attenzione su di lei, mentre Mijime si era andato a sdraiare sul suo giaciglio, con la testa piena di altri pensieri. Gli altri lanciavano occhiate sull'uno e sull'altra, mentre acquisivano sempre maggior consapevolezza della loro mancanza di certezze.

Fu Bellatrix a riportarli all'ordine: «È meglio andare a dormire. Domani, se vogliamo partire, dobbiamo essere riposati».
«P-partire?» mormorò Em, sempre più sconvolta. Come volevano partire? Non vedevano in che condizione si trovava?! Stava ancora male!

«Morag, avevi una cosa da fare» sbuffò Mijime dalla sua posizione.
«Ma-».
«Fa lo stesso. Sarò breve: sull'isola c'è un tesoro di inestimabile valore. Le fate hanno detto che lo desideriamo tutti e, se c'è una cosa che vogliamo, è andarcene da qui. Per cui lo andiamo a cercare».

Detto questo, anche gli altri andarono a coricarsi, mentre Em si girava dall'altra parte, rannicchiandosi e stringendo le gambe al petto: non solo nessuno le voleva bene, su quell'isola, ma nessuno cercava anche soltanto di farla stare a suo agio. Che esseri insensibili! Li odiava, tutti quanti. Eppure avrebbe dovuto conviverci, forse per tutta la vita. Però se avessero trovato quel tesoro...

«Em...» Ancora Morag! Ma cosa voleva da lei?
«Lasciami sola».
«Hai bisogno di qualcosa?» insisté, non avendo intenzione di andarsene. «Acqua, cibo...»
La giovane annuì all'istante: era stata talmente presa dalla sua disgrazia che non aveva pensato che avesse una fame e una sete tremende.

«Va bene, vado» assentì lui, facendo per alzarsi, ma subito bloccato di nuovo da Em, che piagnucolò, ancora: «E ho mal di testa».
Morag rimase in silenzio per qualche istante, come se stesse riflettendo, per poi annuire di nuovo: «Provo a fare qualcosa».

Si alzò, lasciandola di nuovo da sola e con una marea di interrogativi a cui non riusciva a dare una risposta. Uno l'assillava in particolar modo: se aveva perduto persino la sua stessa identità, ora poteva affermare di essere ancora lei? Oppure quest'ultima era morta, e stava dando spazio a un'altra, totalmente diversa dalla prima? Magari stava per sopraggiungerne una migliore. Oh, no! Questo era impossibile! Nessuno era migliore di lei!

Morag tornò prima del previsto con un guscio pieno di mirtilli e un altro in cui luccicava la limpida acqua del laghetto; sotto il braccio, poi, teneva molteplici fili d'erba, che aveva legato alla meglio tra loro, riuscendo a compattarli in una forma irregolare. «Tieni» disse, porgendo alla giovane ciò che si era procurato e ponendole sotto la testa il cumulo verde. Senza aspettare una risposta, le volse le spalle e andò a coricarsi sul suo giaciglio.

Em mangiò in silenzio, osservando i giovani addormentati di fronte a lei e iniziando a disperare sempre di più. Non sapeva per quante ragioni avrebbe dovuto piangere, ma si trattenne, memore dello sguardo fulminante di Mijime. In quella circostanza, per la prima volta era stata lei a risultare sconfitta.

Finiti i mirtilli si sdraiò, sentendo sotto alla testa l'erba che le aveva procurato Morag: si era davvero impegnato per cercarne una che creasse un cuscino così soffice. In confronto a quelli che aveva a Villa Alberti non era niente, ma in quel momento le sembrò l'oggetto più morbido che avesse mai toccato. L'indomani lo avrebbe ringraziato per quella premura. No! Ma cosa le saltava in testa?! Tutti avrebbero dovuto comportarsi come lui: era questo comportamento a essere naturale. Vero?

~

«Che bella gita!» esclamava Spiro, trotterellando per il bosco in testa a tutti. Adorava quella vacanza: era completamente immerso nella natura e c'erano anche delle belle fatine che volevano giocare con loro. Era tutto così divertente e il cibo era gratis! Inoltre stava visitando tanti posti bellissimi: fino ad allora era sempre stato solo per mare, e i posti di montagna li aveva visti soltanto su Fortnite. Ma questi erano tutta un'altra storia! La cosa migliore era che sarebbero rimasti lì per sempre. Non poteva desiderare nulla di meglio!

«Non è una gita, idiota» disse per l'ennesima volta Mijime, massaggiandosi le tempie. Erano partiti all'alba, con l'intento di perlustrare tutta l'isola: farsi una prima idea del territorio era essenziale perché potessero iniziare a cercare il tesoro. Non sapendo quanto fosse effettivamente grande, avevano preparato diverse provviste, così da poter sopravvivere anche per qualche giorno senza altro cibo o acqua. Ma, vedendo come rimaneva invariata la vegetazione, sempre composta da quel piacevole bosco di conifere, sapevano che non avrebbero dovuto far ricorso alle loro scorte.

«E non fare rumore, che potresti attirare l'attenzione di qualcosa» aggiunse.
«O qualcuno» specificò Bellatrix, che non perdeva mai l'occasione per provare ad aggiungere altri pensieri al suo animo inquieto: come se non fossero già abbastanza. «Chi ti fa dire che siamo gli unici esseri umani su quest'isola?»

«Yu-uh!» Per tutta risposta, Spiro iniziò a correre veloce giù per una collinetta e con tutti i vestiti addosso si tuffò in un torrente che scorreva proprio lì sotto.

«Spiro...» Il giovane giapponese era sempre più esaurito da quella compagnia sgangherata. In altre occasioni non gli avrebbe dato da fare: solo il giorno precedente infatti era stato lucidissimo e si era persino divertito a prendersi un po' gioco di loro. Ma da quando gli avevano rivelato il suo nuovo nome non riusciva a non pensare che a questo. Maledette fate, maledetta isola! Non sarebbe rimasto fermo senza far nulla: quel nome non sarebbe stato suo ancora per molto. Doveva solo capire come fare.

«Ehi! Che volete?!» replicò Spiro, vedendo che tutti i suoi compagni lo stavano fissando disperati: effettivamente, lui era davvero senza speranza. «Era da un mese che non mi lavavo».
«Effettivamente si sentiva...» commentò Morag con una smorfia, prima che Mijime prorompesse di nuovo, pur con il tono più pacato possibile: «Non abbiamo bisogno di stupide interruzioni... Spiro, esci subito da lì» ordinò, severo, sperando di riuscire a convincerlo mostrandosi autoritario.
«No» ridacchiò l'ex mozzo, prendendosi gioco di lui e iniziando a fargli le smorfie.

Il sangue ribolliva nelle vene di Mijime: avrebbe potuto prelevare dall'acqua quell'essere inutile che era Spiro e trascinarlo avanti da un orecchio per tutto il giorno. Ma le seccature non erano certo finite lì: «Dove stiamo andando ora?» chiese Germanico, con un tono più impaurito del solito.
«A nord» rispose lapidario Mijime, che stava tenendo d'occhio il nullafacente. «Abbiamo stabilito questo, per temporeggiare il più possibile prima di entrare nella giungla: lì andremo solo quando saremo sicuri di poter tornare fuori vivi».
«Ma riusciamo a tornare alla nostra base, vero?»
«Ma sì, certo».
«E dove dobbiamo andare? Questo posto mi mette i brividi: ho sentito rumori strani provenire da laggiù».

Mijime si voltò verso il tedesco con un largo sorriso isterico: «Mio caro biologo, in un bosco le bestie esistono ma finché non le provochiamo, dovresti saperlo anche tu, non dovrebbero fare niente. E ora non possiamo tornare indietro: prima finiamo di esplorare questo dannato versante nord».

«Ma dov'è la base?» continuò insistente Germanico.
«Di là» fece l'altro, indicando quello che credeva fosse il sud.
«Ne sei proprio sicuro, Mijime?»

Quel nome! Perché dovevano chiamarlo?! Perché dovevano stargli sempre appresso?! Voleva stare da solo!
Vide un'espressione stranita sul volto di Germanico e capì di non essere riuscito a frenare la sua rabbia interiore. Respirò profondamente e iniziò a ragionare sulla domanda che gli era stata posta. Stavano davvero andando dove voleva? Il dubbio lo assalì.
«Avrei dovuto incidere gli alberi...» mormorò mentre portava istintivamente la mano nella tasca interna della camicia in cui teneva il suo coltello, senza percepire il metallo freddo.

Dov'era? Come aveva fatto a scomparire? L'ultima volta che lo aveva utilizzato era stata per farsi la barba il giorno precedente. Ma certo!

Il giovane si voltò verso Bellatrix, squadrandola: «Non ho idea di come tu abbia fatto a eludere la mia attenzione ma non è importante ora. Ridammi il mio coltello».
«Io?»
«Non fare finta di non capire: non sei stupida, se sei riuscita a sottrarmelo» sbuffò, tendendo la mano. «Quello strumento potrebbe servirmi. Ridammelo».
«Certo, magari per uccidere uno di noi».
«Ma che senso avrebbe?! Se proprio volessi farlo avrei un metodo ben più veloce. Bellatrix, inizia a ragionare lucidamente e non intralciare i miei piani: trovare il tesoro non serve solo a me».

Ciò che aveva detto la mattina prima, non appena le fate se ne erano andate, era stato totalmente inutile, allora! Cercare di collaborare, non di mettersi gli uni contro gli altri. Eppure ancora non lo capivano. E a peggiorare tutto c'era quel nome. Era colpa anche di quell'elemento se per un'intera giornata non si era accorto che gli mancava il più importante dei suoi strumenti, troppo impegnato a pensarci. Si ripromise che avrebbe accantonato momentaneamente quella questione, per poi riprenderla e risolverla. Doveva farlo, se non voleva continuare a essere così improduttivo. E ci sarebbe riuscito: aveva portato a termine incarichi ben più faticosi.

Gli altri tre giovani spostavano lo sguardo da Bellatrix a Mijime, inquieti per il comportamento dell'uno e dell'altra: il primo si stava davvero rivelando l'individuo pericoloso che l'inglese aveva detto, ma quest'ultima, provocandolo in continuazione, non faceva che aggravare il tutto. Ma loro cosa dovevano fare? Si limitavano a guardare, da una parte intimoriti dalle reazioni di quei due individui misteriosi e dall'altra troppo occupati dai loro stessi pensieri, che non erano pochi.

Solo Spiro stava benissimo, a mollo nell'acqua che lo rinfrescava. Si era disinteressato completamente della situazione che si era venuta a creare tra i suoi compagni, cercando soltanto il relax più totale. Lui di pensieri non ne aveva, come al solito, e il suo sguardo era perso nella foresta davanti a lui, in mezzo a cui vedeva talvolta svolazzare qualche uccellino o farfalla. Ma a un tratto ruzzolò fuori, sbadatamente, un altro animaletto, tutto marrone e peloso, con un musetto troppo dolce. Era un orsetto!

Spiro si precipitò fuori dall'acqua per avvicinarsi al cucciolo; si piegò in avanti e spalancò le sue braccia per accoglierlo. L'orsetto si avvicinò a lui baldanzoso e si lasciò prendere e accarezzare. Spiro sussultò non appena ne toccò la pelliccia e sul suo viso si dipinse un grande sorriso: quella palla di pelo era la cosa più morbida che avesse mai toccato!
«Piccolo! Che carino che sei!» disse dolcemente Spiro al cucciolo, attirando l'attenzione di tutti gli altri, che si voltarono preoccupati a vedere cosa avesse combinato ancora.

«Che cosa stai facendo?!» esclamò Germanico, sgranando gli occhi dalla paura. «Rimettilo subito a terra: se dovesse arrivare la madre...»
Non fece in tempo a finire la frase che dietro di loro sentirono qualcosa di grosso che si stava avvicinando.

Un enorme esemplare di orso bruno stava di fronte a Tou Melitos, ergendosi sulle zampe posteriori, in tutta la sua altezza. Con uno sguardo assatanato guardava Spiro con in braccio il suo cucciolo, che nemmeno si era accorto dell'arrivo dell'animale, tutto preso a spupazzare il suo nuovo amichetto. L'esito di ciò che sarebbe successo era scontato.

Gli altri iniziarono a fargli dei cenni perché capisse in che pericolo si trovava, ma non lo avrebbero mai salvato così: continuava a coccolare il suo amico peloso senza badare nemmeno un poco ai suoi compagni. Dovevano avvertirlo in un altro modo.

«Spiro, sbrigati a rimetterlo a posto» biascicò Mijime a denti stretti, continuando a tenere d'occhio l'animale.
L'uomo lo sentì appena, ma abbastanza perché potesse volgere lo sguardo in avanti e ritrovarsi faccia a faccia con mamma orso.
«Un orso enorme!» gridò, per poi mollare istintivamente il cucciolo e scappare nella direzione dei suoi compagni.

Non fecero nemmeno in tempo a considerare la stupidità di quell'uomo, che anche l'orso, avendo velocemente constatato che il suo cucciolo era salvo, iniziò a correre verso di loro.
Mijime era in grado di analizzare con freddezza una simile situazione di pericolo e si buttò subito a terra, fingendosi morto. Vide anche Bellatrix fare lo stesso: doveva aver acquisito capacità simili alle sue. Ma gli altri quattro fuggirono, in preda al panico e senza una direzione precisa, trasportati solo dall'istinto di salvarsi, ma ottenendo l'effetto opposto: l'orso si precipitò dietro di loro.

Ecco, potevano già considerarli morti, stimò Mijime vedendo l'inizio della rovinosa fine dei suoi compagni. Be', pazienza. Per sopravvivere si devono possedere molteplici doti, tra cui l'autocontrollo: se loro non erano in grado di ragionare sotto pressione, lui che ci poteva fare?

Bellatrix non doveva essere dello stesso sentore perché, non appena l'orso fu un po' lontano, la vide dirigersi anche lei nella loro direzione. Ma che faceva?! Si era appena salvata la vita, cosa le importava se quegli altri quattro deficienti perdevano la propria? Ma al giapponese serviva la presenza della giovane, che era ancora in possesso del suo prezioso coltello, così fu costretto a seguirla a sua volta. Dopotutto, le capacità non le mancavano: un piano doveva averlo elaborato.

Si mossero veloci, cercando di raggiungerli prima che potesse succedere qualcosa di terribile, ma, non appena li rividero, era troppo tardi: l'orso aveva bloccato con le spalle al muro Morag e Spiro e intanto Em e Germanico erano rimasti immobili, frenati dal terrore, a osservare inorriditi la scena. Ma, proprio mentre la belva stava per attaccare, una lancia lunga come l'animale intero, lo perforò attraversandogli il collo: emesso un gemito di dolore, questo cadde a terra, esanime.

Un brivido percorse il corpo di Mijime, che iniziò a guardarsi intorno preoccupato: l'orso era stato abbattuto, ma colui che aveva scagliato l'arma sarebbe stato meglio del primo nemico? Ma dov'era? Pur volgendosi in ogni direzione non riusciva a percepirne la presenza.

Un altro brivido, non provocato però dal timore, ma da una fredda folata di vento che si scagliò alle sue spalle, subito sostituita dal tocco di due mani pesanti: senza aver nemmeno il tempo di accorgersene, il giovane fu spinto in avanti e si ritrovò ammassato ai suoi compagni. Intorno a loro una decina di uomini dall'aspetto barbarico. A guardarli parevano tutti uguali, con quelle barbe incolte, i capelli sporchi e il corpo pieno di cicatrici profonde, e analogamente anche negli abiti, con le loro tuniche sgualcite, che spesso lasciavano scoperti diversi punti di pelle. Ma a mettere Mijime all'erta erano le loro armi: spade dalle lame affilate, lance con punte che avrebbero perforato facilmente la loro carne. Ma come era riuscito un gruppo di uomini a ottenere un simile armamentario lì sull'isola? Tutte quelle spade e quelle lance dovevano averle portate direttamente dal mondo di fuori, altrimenti come avrebbero potuto forgiarle? Però erano di bronzo. Quale combattente, che non fosse un collezionista, poteva desiderare armi così antiquate? Qualcosa non tornava.

Gli uomini si aggiravano intorno a loro, scrutandoli quasi incuriositi, e ridevano sguaiati, dicendo talvolta qualche parola che si disperdeva in mezzo alla turba. Mijime li guardava a sua volta, indifferente, mentre cercava di trovare una soluzione per scappare da lì. Forse non era stato neanche un male averli trovati. Erano degli energumeni, grandi e grossi com'erano, ma dovevano avere un modo di combattere rozzo e poco efficace. Oltre a questo, il giovane sentiva un forte odore di alcol - non si fece domande su come avessero fatto a procurarselo - che forse aveva ottenebrato la poca intelligenza che possedevano. La situazione era totalmente a suo favore: erano in tanti ma gli sarebbe bastato sottrarre loro una delle molteplici armi che portavano addosso per scappare in poco tempo. E così, con qualcuno dei loro coltelli, avrebbe persino potuto separarsi dal suo clan e iniziare una ricerca del tesoro ben più produttiva.

Stava per architettare una strategia più precisa, quando arrivò un altro uomo. O meglio, un gigante. Doveva essere alto più di due metri, riuscendo a superare il giapponese almeno di una spanna, e per farsi strada scostava i compagni coi colpi delle sue larghe e possenti spalle; tutto il torace era scoperto, lasciando in vista i muscoli prominenti e una cicatrice che gli attraversava trasversalmente l'intero ventre. La chioma fulva gli scendeva fino alle spalle, risplendendo nella foresta buia, e gli occhi azzurri, gelidi e spaventosi, non lasciavano intravedere alcuna emozione.

«Ma guarda un po', ma guarda un po'» borbottò con un ghigno, considerando le sue prede. «Veniamo a trovare del divertimento dai nostri amici e... il divertimento viene da noi». Proruppe in una risata fragorosa e subito i suoi compagni lo seguirono.

Dunque quegli uomini parlavano la loro stessa lingua. Buono a sapersi: avrebbe intavolato una conversazione con loro per temporeggiare il più possibile.
«Non vorremmo essere fraintesi ma...» iniziò Mijime con tono pacato, ma subito interrotto da uno dei suoi uomini: «Ah ah! Capo, questi li secchiamo in un battito di ciglia».

«S-seccarci?» balbettò Germanico, che si strinse di più agli altri compagni.
«Be', è estate... Non possiamo pensare di farvi morire di freddo tra i ghiacci del nord».
«Non abbiamo intenzione di combattere né di recarvi danno» continuò Mijime, senza mostrare alcun mutamento e guardando negli occhi il loro capo. «Torneremo nel nostro territorio...»
«Ah sì?» lo interruppe di nuovo l'uomo, piegando la schiena per arrivare all'altezza del giovane, quasi a volerlo deridere. Iniziò a parlare di nuovo, talmente vicino alla faccia di Mijime che la puzza di alcol che emanava la sua bocca penetrava direttamente nelle narici del giapponese. «Il vostro territorio? E dei neoteroi come voi pensano di arrivare qui e decidere che un pezzetto dell'isola è vostro di diritto? Dai, sono curioso. Dove si trova il vostro villaggio, sempre che ne abbiate uno?»

Mijime rimase interdetto per la prima volta. Qual era il nome che aveva attribuito loro? Da come l'aveva pronunciato non sembrava un elogio. E poi, di che stava parlando?
Non fece in tempo a rispondere che l'uomo iniziò a ridacchiare: «Non hai neanche le palle per dire che siete talmente nuovi da non avere neanche un villaggio. Be', che potevo aspettarmi da uno che non ha nemmeno la barba...»

Quale fosse il suo scopo Mijime non riusciva a capirlo. Delle sue derisioni gli importava ben poco, ma il fatto che arrivasse sempre più vicino, senza che lui avesse ancora capito bene come agire per scappare, lo inquietava.

Percepì a un tratto un movimento repentino dietro di lui, seguito da un grido strozzato; si voltò subito, senza smettere di tenere d'occhio il capo dell'altro clan. Bellatrix stava tenendo per i capelli un uomo il doppio di lei, tenendolo bloccato con una gamba e puntandogli il coltello di Mijime al collo. Con un'occhiata fredda squadrava il gigante e gli ordinò, con voce ferma: «Allontanati e fa' che anche gli altri ci stiano distanti. Poi ci darete il tempo di spostarci a nostra volta. Solo allora lo lascerò libero».

Mijime riuscì a stento a trattenere lo stupore che provava. E chi lo immaginava che quella avesse abilità simili? Come aveva potuto pensare di abbandonarla insieme agli altri quattro? Quella poteva essere la sua carta vincente. Una volta che fossero usciti da lì avrebbe fatto un pensierino sul tenerla come alleata: i loro cervelli insieme avrebbero fatto faville. Ma non doveva trastullarsi troppo, ora che il pericolo era ancora presente. Diede ancora un'occhiata al gigante, che intanto aveva assunto un'espressione incredula.

«Uh, questo non me lo aspettavo da una piccoletta come te...» mormorò, spostando lo sguardo dai membri più spaesati del clan, ai due più sicuri, fino a guardare bene il suo stesso compagno, tremante per il destino a cui stava andando incontro. «Va bene» disse a un tratto: si sarebbe dovuto spostare, secondo ciò che aveva stabilito Bellatrix affinché l'ostaggio potesse tornare libero. Ma l'uomo rimase fisso al suo posto, sorridendo beffardo alla giovane. «Fallo» affermò, muovendo un cenno in direzione del coltello. «Fallo e vi lascerò andare».

Ma che razza di sensibilità aveva? Sembrava volesse mandare volentieri a morire il suo compagno, pur di divertirsi un po'. Mijime era disgustato: ne aveva conosciuti tanti di uomini simili ed erano il tipo di persona che più gli faceva ribrezzo.

Il giovane riguardò Bellatrix: cercava di mantenere un'aria fredda, ma la mano che reggeva il coltello aveva iniziato a tremare. Non ne sarebbe stata in grado. E, anche se così fosse stato, sicuramente il capo di quel clan non li avrebbe lo stesso lasciati andare.

«Come immaginavo». Il gigante ghignò e li squadrò ancora tutti, soffermandosi sulle espressioni terrorizzate di ciascuno. «Giusto perché lo sappiate: i territori che dite vostri sono miei. Tutto quello che vedete qui è mio. Tutto, ogni cosa, ogni briciola, anche ogni rivoltante essere umano. Quindi, se ve lo state chiedendo, anche voi siete miei». Si fermò un istante, puntando i suoi occhi glaciali in quelli di Mijime, ed estrasse la spada bronzea in un colpo solo. «Per essere specifici, il mio divertimento».

Tutti i membri del clan lo imitarono e subito, come se non resistessero più dalla smania, si buttarono contro Tou Melitos. Non c'era più tempo per riflettere. Si poteva scegliere solo una strada: la fuga. Ma dove? I nemici erano ormai ammassati, qualcuno aveva anche già colpito, si era sentito un grido di dolore. Potevano contare solo su loro stessi per sopravvivere: di questo passo era già tanto se sarebbero rimasti vivi i più esperti di loro.

Mijime si ritrovò di fianco uno dei selvaggi, che mirò contro di lui con la sua lancia, ma il giovane si scostò in tempo e l'arma lo colpì soltanto di striscio, lacerandogli la parte destra della camicia. Con un movimento rapido si voltò per prendere il bastone: era rischioso voltare le spalle al nemico, ma aveva bisogno di un'arma.

Si voltò di nuovo verso il suo avversario, che gli era tornato addosso, dopo aver sfoderato un coltellaccio. Per quanto armato fino ai denti, non era però particolarmente esperto, forse a causa anche di tutto l'alcol che aveva in corpo. Mijime lo colpì sul collo con la parte lignea della lancia e subito lo mandò a terra dolorante.

A sbarrargli la strada verso la salvezza era rimasto solo il gigante fulvo, rimasto in disparte a guardare i suoi compagni combattere. Mijime sapeva che non sarebbe stato semplice come con l'altro, ma non aveva altra scelta. Si avvicinò a lui con aria di sfida e il nuovo avversario si mostrò piacevolmente sorpreso: rinfoderò la spada ed estrasse un coltello piuttosto grande, facendoselo roteare sulla mano e puntandolo infine contro il giovane.

Mijime corse contro di lui, brandendo la lancia, e iniziò lo scontro, senza alcun preambolo. Il gigante iniziò a sferrare da subito colpi letali, ma abbastanza facili da evitare: per quanto potenti erano infatti lenti e poco precisi. Considerando però che stava combattendo in quel modo in uno stato di ebbrezza, il solo pensiero di come doveva essere nella sua forma normale faceva accapponare la pelle.

Mijime invece mirava alle gambe del nemico, così da poterlo neutralizzare e scappare velocemente. Ma la lancia era ingombrante e non poteva più usare solo la parte del bastone, che non avrebbe provocato il minimo danno all'avversario: quell'arma era diventata inutile e aveva bisogno di qualcos'altro.

Piantò la lancia per terra e si aggrappò ad essa, prendendo slancio; sferrò poi un calcio sul lato destro dell'avversario, spostandosi al suo fianco e mettendo una mano su uno dei coltelli appesi alla cintola. Era abbastanza bilanciato e maneggevole, un po' troppo pesante forse, ma andava bene. Gli passò dietro e si aggrappò alle sue spalle, per poi bloccargli la testa con la mano non occupata e portando il piccolo bronzo a toccare il collo nemico.

Stava per lacerargli la pelle, ma proprio allora si alzò un'innaturale raffica di vento così potente che lo fece sbilanciare e cadere a terra. Cosa?! Come faceva a essere finito lì?! Era quasi riuscito a ucciderlo, non poteva essere... Il gigante estrasse la lancia dal terreno in cui era stata conficcata e si voltò di nuovo verso di lui, avvicinandosi con un ghigno scolpito sulla faccia.

Era finita: non poteva più vincere ormai. Quello si stava avvicinando troppo in fretta e non avrebbe fatto mai in tempo a rialzarsi. La vista iniziava poi a essere offuscata. Doveva aver colpito la testa, ma non era più sicuro di niente.

Vide il gigante brandire per un'ultima volta la lancia, prima di finirlo del tutto. Ma prima che ciò accadesse, avvenne qualcosa. Cosa? Mijime ormai non poteva più saperlo: i suoi sensi lo avevano abbandonato. L'ultima cosa che percepì furono delle mani forti che lo sollevavano da terra. Poi tutto si fece scuro.

~

Hola!
E così si scopre che l'isola non è disabitata... Be', dai, abbastanza scontato 😂, altrimenti continuare a far litigare i nostri simpaticissimi amici sarebbe diventato una noia assurda anche per noi scrittrici... Non immaginiamo per voi lettori.
In ogni caso, qualcosa di interessante è successo. Chi sarà mai questo nuovo clan e come ha fatto a diventare così organizzato? A voi le ipotesi. E poi, cosa sarà mai successo ai nostri eroi? Se la saranno riusciti a cavare? Infine, che ne pensate di questa avversione di Mijime per il suo nome? Eheh, io vi dico solo di non perdere d'occhio questo dettaglio (insieme a tutti quelli che vi segnaliamo nei nostri spazi), che sarà utile più avanti, quando si inizierà ad approfondirlo...
Dal prossimo capitolo inizia la parte interessante... Cosa accadrà mai? Eheh lo scoprirete.
A presto, amici!
~🐼🐢

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