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Era il settimo giorno da quando erano naufragati sull'isola, e Beatrice si trovava sulla spiaggia a scrutare attentamente l'orizzonte e il cielo sovrastante. Come al solito, gli occhi pieni di speranza cercavano un piccolo pallino bianco sopra alla distesa d'acqua o nel limpido etere. Niente, nemmeno quel giorno era arrivato qualcuno. Soltanto il riflesso azzurro dei due elementi si stagliava davanti alla sua vista. Come sempre.

Sospirò delusa e si rivolse di nuovo verso l'interno, dove si ergeva il loro rudimentale accampamento, collocato di fianco alla fonte d'acqua che aveva trovato Matsuda, immersa in quella foresta di latifoglie. La zona mediterranea era stata oltrepassata, anche se, andando in esplorazione, avevano notato che proseguiva per ancora diversi chilometri; dopodiché si infittivano le mangrovie, che diventavano pian piano sempre più grandi, e si passava in una vera e propria giungla. Non avevano mai provato neanche ad addentrarvisi: non serviva un biologo - che pure era con loro - per sapere che non sarebbero sopravvissuti in quel posto per più di cinque minuti.

Così si erano accampati lì, nella zona a nord, come si poteva notare guardando la posizione del sole e delle stelle. Era quella più lontana possibile dalle mangrovie, intanto, e al suo interno era possibile trovare la maggior parte dei cibi di cui potevano nutrirsi: qualora fossero riusciti a convincere Crümenerl a lasciar mangiare della carne almeno a loro, quel posto pullulava di conigli e uccelli. Nel mentre, potevano continuare a sfamarsi con succose bacche e radici.

L'unico, effettivo problema di quella zona era il gelido vento che si alzava di notte, ancora più rigido rispetto alle altre zone, ma era un male sopportabile: Matsuda aveva creato un grande falò con pietre e rametti, capace di riscaldarli per tutta la notte. Aveva poi posizionato sei giacigli composti da morbida erba tutt'intorno e così aveva creato quello che definivano il loro accampamento: non aveva costruito altro, dal momento che sarebbero tornati a prenderli presto.

Suo malgrado, Beatrice doveva ammettere che, da quando Matsuda aveva preso in mano la situazione, tutti erano più efficienti ed erano riusciti a trovare un equilibrio grazie al quale i litigi scoppiavano non più di tre volte al giorno: era già un grande traguardo. Quella che iniziava più discussioni prima era la signorina Alberti, che però era diventata estremamente tranquilla: seguiva il giapponese come un cagnolino tutto il giorno ed eseguiva tutto quello che le chiedeva e, se era con lui, non si lamentava nemmeno. La sera, mentre gli altri già dormivano, quasi volesse ripagarla, il giovane si sedeva sullo stesso giaciglio dell'aristocratica e iniziavano a parlare assiduamente e a ridacchiare tra loro. La conoscenza di Beatrice non andava oltre e non voleva neanche farlo; sebbene in quei momenti fosse ormai notte, la giovane se ne andava: meglio rabbrividire per il freddo, piuttosto che sentire l'Alberti fare la civetta!

Per calmare gli altri tre invece non aveva fatto molto: aveva imposto loro pochi, semplici lavori e, per il resto, li lasciava divertire, mentre lui svolgeva tutte le altre mansioni, che pure erano ancora poche e poco impegnative. Intanto Mora trascorreva il tempo a fare ginnastica, per essere in forma smagliante non appena fosse tornato in Italia, Crümenerl a guardare gli animali e, talvolta, a parlare con loro, in particolare con simpatici germani reali, e Nocenti a guardare il cielo terso, senza fare nulla, e cantare le sigle dei suoi cartoni preferiti.

Quando poi Matsuda terminava i suoi compiti, nel tardo pomeriggio o alla sera, intratteneva tutti quanti, o raccontando varie storie attorno al fuoco o organizzando alcuni giochi: il giorno precedente, per esempio, aveva ricavato un pallone avvolgendo su se stessa la muta di un'anaconda proveniente dalle mangrovie, che aveva trovato nella zona mediterranea. L'aveva poi cosparsa di una resina collosa ma non pesante, che aveva preso da una quercia presso il loro accampamento, e in men che non si dica aveva già attirato le attenzioni degli altri tre uomini. Così avevano iniziato un'accanita partita due contro due, Crümenerl e Mora da una parte e Matsuda e Nocenti dall'altra, mentre l'Alberti li guardava, facendo il tifo per il bel giapponese. Neanche per quel fatto Beatrice avrebbe saputo dire molto: era presto tornata a osservare il mare nella zona mediterranea, assaporando la pace della sera.

Come se fosse una novità. Spesso se ne stava da sola: aiutava il minimo indispensabile per non essere cacciata e poi evadeva da quella realtà che la metteva così a disagio, passeggiando per la spiaggia o, nelle ore più calde, sotto la pineta. I quattro naufraghi che si divertivano insieme a quel criminale non facevano altro che rendere più schiacciante la sua sconfitta; la loro compagnia diveniva ogni giorno più insopportabile. Al contempo però non poteva allontanarsi da quel luogo: il suo quartier generale doveva aver ricevuto la loro posizione e avrebbe mandato i soccorsi; non poteva negare, poi, che ogni tanto il tepore del falò le facesse piacere.

Si addentrò nella foresta fino a raggiungere l'accampamento: era ancora presto - guardando il sole, dovevano essere le sette - e i quattro naufraghi dormivano ancora. L'unico che mancava era Matsuda. Beatrice rabbrividì per un attimo, temendo che fosse scappato, ma si calmò subito: non aveva motivo di pensarlo, considerati i pericoli dell'isola nei quali non avrebbe certo voluto incappare. All'inizio la motivazione che aveva dato per non scappare era il fatto che l'isola fosse piccolissima, uno scoglio o poco più. Ma ormai a nessuno sembrava più esserlo: era grande, non avrebbero saputo dire quanto. Solo per percorrere tutta la costa da loro conosciuta serviva mezza giornata. Ma non finiva certo lì.

Ed era proprio questa grandezza a inquietare Beatrice: se anche si fosse limitata alla loro zona - cosa poco probabile - sarebbe stato difficile non notare un così vasto pezzo di terra che sbucava dal mare. Ma ogni volta che la sua mente capitava in simili pensieri, si doveva distrarre subito: guai a lei se iniziava a immaginare il fatto che fossero finiti in un luogo alla fine del mondo o, addirittura, immaginario.

«Buongiorno». Sentita la voce, Beatrice si risvegliò da quel tunnel di pensieri: ecco era capitato di nuovo! L'isola non le permetteva di stare concentrata su nulla; si detestava così tanto in quei momenti... Scacciando per l'ennesima volta le ansie si voltò, vedendo Mora che l'aveva salutata con fare ammiccante, ancora sdraiato sul suo giaciglio.

«Ciao» rispose fredda lei: ci mancava solo quella seccatura, effettivamente. Era chiaro che una delle due donne dell'affiatata comitiva era ormai occupata, e sembrava che fosse stata indetta una gara per accaparrarsi l'altra. Qualche giorno prima il tedesco aveva provato a intrattenere una conversazione con lei per tutto il giorno e Mora aveva misteriosamente iniziato a salutarla in modo caloroso. Il paradosso era sempre più evidente: la sua importanza all'interno del gruppo, nulla per la maggior parte del tempo, cresceva tutto d'un tratto agli occhi degli esemplari maschili. Ogni volta si stupiva della bassezza della gente con cui era capitata: poteva persino rivalutare il criminale.
«Hai idea di dove sia Matsuda?» Sperava almeno potesse rivelarsi utile.

Evidentemente quello non capì le sue intenzioni. «Ma a cosa ti serve lui, quando ci sono io?» disse, sfoderando un sorriso e avvicinandosi a lei.
«Devo controllarlo» rispose lapidaria.
«Lui?!» Mora sgranò gli occhi, come se la giovane avesse detto la barzelletta dell'anno. «Ma dai, guardalo: è così buono che non farebbe del male a nessuno. A parte quando gioca a pallone. Eh, i suoi calci devo dire che si fanno sentire. A proposito: ieri ci saresti dovuta essere-».

«Lo terrò presente per la prossima volta» lo interruppe gelida, scostandosi da lui e volgendosi verso il bosco.
«Stasera lo riproponiamo, di sicuro!» esclamò l'altro, la mente proiettata ormai solo sul gioco. «E non andare a isolarti sempre. Dai, che siamo simpatici!»
«Non lo nego. Ma adesso non ho tempo» concluse, accelerando il passo e entrando tra gli alberi.

Era troppo fredda con tutti loro? Forse, ma erano stati capaci in meno di una settimana a farla andare fuori di testa, impresa in cui mai nessuno, prima di allora, era riuscito. Anche sforzandosi non riusciva a essere accomodante. Pazienza, una volta tornata alla civiltà, dopo aver visto Matsuda in carcere, li avrebbe presto dimenticati.

Mora guardò la giovane andarsene, facendo spallucce: prima o poi quella avrebbe ceduto al suo incredibile fascino, come ogni donna che avesse stimato degna di lui. Se così non fosse avvenuto, non si sarebbe perso niente.

Tornò a sdraiarsi sul suo giaciglio, sospirando profondamente di piacere per quella nuova, momentanea situazione: finalmente un momento di riposo dall'intensa vita da star che conduceva! Non che questa gli dispiacesse - con tutte le attenzioni che riceveva come avrebbe potuto! - ma il dolce far niente non gli era di certo sgradito e i suoi nuovi compagni erano della medesima idea, in particolare il mozzo della nave, che non faceva che esaltare le qualità dell'isola.

Soltanto Crümenerl ogni tanto si chiedeva qualcosa in merito al luogo su cui erano approdati: dove fosse, se ci fosse una civiltà al suo interno, come mai non ne avesse mai sentito parlare e bazzecole simili che Mora proprio non comprendeva. Perché farsi domande, dopotutto, quando la vita si può vivere anche senza crucciarsi? Lui non se n'era mai fatto ed era sempre stato bene: anzi, era stato proprio grazie al suo atteggiamento di passiva accettazione che era diventato ciò che era e conduceva un'esistenza da sballo, la migliore che potesse desiderare. Se avesse iniziato a pensare sarebbe diventato una noia come quell'insopportabile signorina inglese.

Alcune risatine provennero da dietro la sua schiena. Mora si voltò repentinamente per controllare, ma non vide nulla. Che strano... Avrebbe detto di aver udito un rumore insolito, ma intorno a lui non c'era niente. Doveva essere stato frutto della sua immaginazione. Ma che gli importava?! Si alzò, decidendo di trascorrere i primi momenti della giornata in riva al mare, ad assaporare quella pace assoluta.

~

Matsuda, seduto su una roccia in riva al laghetto a organizzare le idee, avvertì un piccolo movimento alle spalle e subito sogghignò silenziosamente: poteva consolarsi un poco con il divertimento che stava sopraggiungendo.
«Non avrei mai pensato che saresti venuta a cercarmi anche tu, mia cara» affermò, senza neanche girarsi, certo che non potesse essere altri che Beatrice, l'unica che non era riuscito a ingannare come gli altri e che ancora si comportava nei suoi confronti con un distacco totale. Come se ormai fosse un problema.

«Risparmia i tuoi mia cara per la contessa» rispose subito lei, inacidita per essere stata scoperta tanto presto. 
«Non preoccuparti: ne ho una quantità infinita, più o meno grande come la tua eccezionale abilità nel risultare irritante» replicò lui, provocatorio.
«Adesso sarei io quella irritante?!»
«Non prendertela, mia cara: io ripeto solo quello che dicono gli altri quattro».

«Come se mi importasse...» sbuffò Beatrice, sedendosi su una roccia, cercando, come sempre, di non badare alle sue emozioni: doveva iniziare a controllarlo, magari avrebbe carpito alcuni suoi comportamenti strani con cui avrebbe potuto incastrarlo in tribunale una volta che fossero tornati. Era ormai diventata una questione personale, che l'assillava a ogni ora del giorno, a ogni momento. E una situazione analoga avrebbe dovuto scaturire anche nelle menti degli altri naufraghi! Invece ora era lei che inscenava la parte della cattiva. Ma perché tutto mancava di senso?!

Con la coda dell'occhio guardò Matsuda e vide un coltello affilato piuttosto grande con cui si stava radendo. Allarmata, sobbalzò scostandosi immediatamente dal giovane: allora non scherzava quando diceva di averlo! Continuò a guardarlo, ormai senza preoccuparsi di essere discreta: era inquieta per il coltello. Si vedeva che era abile nell'utilizzo e sarebbe potuto risultare pericoloso. Anche a lei serviva un'arma, ma dove mai avrebbe potuto procurarsela su un'isola deserta?!

Il giapponese la notò subito e ridacchiò divertito: «Avanti, non guardarmi in quel modo. Solitamente uso un metodo più tradizionale, ma ora sono costretto a usare gli strumenti che ho a disposizione. Dovrò pur tenere dietro al mio corpo: non ho certo intenzione di diventare come quelle altre tre scimmie. Ho già perduto abbastanza cose da quando sono su quest'isola: una minima parvenza di umanità vorrei mantenerla».

«Se tu adesso ti tagliassi, sarebbe sicuramente la visione più soddisfacente che potrei vedere in tutta la giornata» commentò Beatrice.

«Mi dispiace, mia cara, ma rimarrai delusa: non è la prima volta che sono costretto a radermi con questo. Ecco, ho finito». Posò il coltello sulla roccia e rimirò il suo volto nell'acqua limpida. Liscio e pulito, come sempre era necessario che fosse. Osservò anche le unghie che aveva tagliato poco prima e sorrise, compiaciuto del suo lavoro. Non avrebbe permesso neanche su quell'isola che il suo aspetto diventasse come non doveva.

«Non mi aspettavo tanta vanità da un terrorista» borbottò Beatrice con un filo di biasimo, tanto per infastidirlo, ma Matsuda scoppiò a ridere, non riuscendo più a trattenersi, ormai. «Terrorista! Stai ancora pensando alla mail che ho mandato al casinò? È acqua passata ormai, no?»
«Bene, allora sentiamo: come ti definiresti?» lo incalzò l'altra.

A questa domanda il giapponese rifletté un attimo prima di rispondere: «Il termine giusto è "fornitore di notizie per i giornalisti". I cento milioni avrei potuto prenderli anche senza inscenare tutta la vicenda, ma non ci sarebbe stato gusto; non puoi capire quanto sia divertente vedere le espressioni intontite dei detective che continuano ad arrovellarsi sul caso per dargli un senso logico senza riuscirci».

Beatrice sentì un nodo allo stomaco udendo quell'ultima frase: lei stessa era una di quei detective alla folle e disperata ricerca di un senso. Con quelle poche parole il giapponese aveva appena mandato in fumo tutte le congetture che aveva elaborato, che le avevano fatto trascorrere le notti insonni: un senso invece non c'era.

«È stata una mossa abbastanza incauta: dopotutto sono arrivata alla conclusione che eri stato tu» disse restando apatica, per non far trapelare lo sconforto e la rabbia che quella scoperta le aveva gettato addosso. Ora poteva affermare di detestarlo ancora di più: se solo avesse avuto una motivazione valida per aver compiuto tutti i suoi scempi - che era certa non si limitassero solo al furto dei cento milioni - non lo avrebbe mai scusato, ma per lo meno capito. Invece l'unico movente era stato far parlare di sé.

«È il rischio del mestiere, ma può sempre tornare a tuo vantaggio: se si è abbastanza intelligenti, è un'opportunità per affinare questa capacità trovando un modo per scampare alla gogna» sogghignò il giapponese, aggiungendo, enigmatico: «Anche se non penso servirà a molto, ormai».

«Che intendi dire?» chiese l'altra, corrugando la fronte confusa. Cos'era? Un altro dei suoi tranelli? Stava provando a impanicarla? E questo per quale motivo? Sempre per divertirsi?
«Semplice: quella nave non arriverà» rispose il giovane senza molti preamboli.
«Ti sbagli: arriverà» replicò Beatrice, con una sicurezza che in realtà non possedeva. In cuor suo sapeva che Matsuda aveva ragione, ma rassegnarsi a quel destino avrebbe significato la sua fine. Da quell'isola, si era convinta, se ne sarebbero andati, al più presto. Dovevano andarsene.

«Questo è quello che desideri tu. Ma è ben lontano dalla realtà. È da una settimana che siamo qui, ma non è venuto nessuno. Non ci vuole molto a giungere su un'isola sapendo la localizzazione; se avessero voluto venire a prenderci, lo avrebbero già fatto» sospirò, osservando sorpreso la giovane spia che continuava a scuotere la testa per provare a non ascoltarlo o a scacciare le ultime parole che aveva udito: almeno da lei si sarebbe aspettato che avesse preso coscienza di quel fatto già da tempo; non chiedeva certo un tale sforzo mentale e psicologico a quegli altri quattro rimbambiti, ma a lei...
Evidentemente non solo gli sciocchi sono abituati ad aggrapparsi alle illusioni.

~

«Cosa dovevamo dire?»
«Elvira! Ma come è possibile che ti sia già scordata!»
«Eheh, non lo so...»

Crümenerl si svegliò di soprassalto, guardandosi subito attorno. Cos'era stato? Dove si trovava? Chi era che aveva parlato?! La solita ansia che lo assaliva ogni volta che succedeva qualcosa di appena fuori dal normale piombò su di lui, mentre il suo respiro diveniva a ogni secondo più affannoso. Intorno a lui Nocenti e l'Alberti dormivano ancora, non essendosi accorti di nulla. All'accampamento però mancavano Matsuda, Beatrice e Mora. Forse erano stati solo loro che gli avevano tirato un brutto scherzo. No, non potevano essere stati loro: aveva sentito delle vocine femminili, così limpide da non sembrare reali, e, sebbene la giovane inglese avesse un bel timbro di voce, questo non si avvicinava neanche lontanamente alla perfezione che aveva udito.

«Ehm... c'è qualcuno?» provò a dire, sperando che qualcuno venisse allo scoperto. Nulla, nessuna risposta. Doveva essersi sbagliato. Forse uno dei soliti incubi che lo tormentavano, da quando era arrivato su quell'isola così inquietante: troppi ambienti naturali, troppa biodiversità, troppi animali... E il paradosso stava nel fatto che amasse tutti questi elementi! Persino il fatto che fosse così bella lo metteva a disagio. Tutto quello non era normale e presto se ne sarebbero accorti, con gravissime conseguenze!

Voleva solo tornare alla sua vita quotidiana, con i suoi ritmi tranquilli e il suo alternarsi di studio e lavoro. Nulla di eclatante, ma senza disagi e preoccupazioni, i mali peggiori da cui bisogna fuggire. E, per quanto provasse a ignorarli da quando era arrivato, per non sembrare pauroso davanti ai suoi compagni di sventura, sapeva che prima o poi qualcosa sarebbe accaduto. E i suoi sogni erano impregnati di queste angoscie.

Si accasciò di nuovo sul giaciglio, per provare a riaddormentarsi, sentendo che il respiro stava tornando al suo ritmo naturale.

«Ma, Elettra, è grave! Io non me lo ricordo proprio!»
«Elettra, io me lo ricordo! Io! Io!»
«Piantatela di urlare così! Dobbiamo aspettare che ci siano tutti».

Il giovane trasalì ancora, balzando in piedi e iniziando a scrutarsi intorno. Non stava sognando: c'era davvero qualcosa!

«Coso... cioè, Heinz. Cosa diamine hai da urlare a quest'ora?» Le flebili lamentele dell'Alberti, ancora nel mondo onirico, non tardarono ad arrivare ma Crümenerl le ignorò: erano in pericolo e dovevano fare qualcosa. Ma cosa?!

«T-tu... v-voi... esseri... venite fuori... s-se avete i-il coraggio!» balbettò, in preda al panico, continuando a guardarsi intorno, mentre cercava di avvicinarsi agli altri due naufraghi, pur sapendo che nemmeno questi sarebbero stati in grado di aiutarlo. Oh, dov'era Matsuda? Lui sì che avrebbe saputo cosa fare.

«Ehi, amico gigante, che ti prende?» chiese poi Nocenti, sentendo che l'altro lo aveva afferrato per un braccio tirandolo in piedi. «Se proprio volevi svegliarti, non potevi farlo silenziosamente come hanno fatto quegli altri tre? Uff, che palle! Ora chi si riesce a riaddormentare?!»

Crümenerl lo zittì e fece lo stesso cenno anche all'Alberti: non capivano proprio in che guaio si stavano trovando ora, da soli, per di più?! Aguzzò gli occhi, per scorgere tra gli alberi chi fosse stato a parlare. Ma tra la vegetazione continuava a non esserci nessuno.

«Ecco ci ha sentite prima del dovuto».
«Oh, no! Che facciamo? Che facciamo?»
«Elpenore, hai visto quello in mezzo? È enorme!»
«Già, già, quasi come Mort-».
«Elvira, Elpenore! Insomma! È da più di duemila anni che svolgiamo questo compito e ancora non avete chiaro cosa dobbiamo fare!»
«Scusaci, Elettra».

«Ma chi è che sta parlando?!» gridò l'Alberti, aggrappandosi a un braccio di Crümenerl già impanicata.
«Sono delle ragazze!» esclamò invece Nocenti.
«Tacete!» li redarguì subito il tedesco, tappando con una mano la bocca del mozzo. I tre si strinsero vicini, come se la distanza tra i loro corpi potesse metterli maggiormente in pericolo. Il silenzio era calato di nuovo sulla foresta, alimentando l'ansia negli animi dei naufraghi.

«Sono tre... Ma cosa sono?» chiese con un fil di voce l'Alberti, mentre le gambe le tremavano.
«N-non ne ho idea...» rispose Crümenerl. «Una cosa però è certa: non sono umani».
«Eh? Non è possibil-».

«Oh, siete svegli, allora! Bene! Che ne dite di una bella partita di prima-». Mora interruppe subito la sua proposta, non appena sbucò dalle fronde e vide i tre compagni abbracciati stretti gli uni agli altri. Non trattenne le risate. «Rettifico: avete intenzioni ben diverse dalle mie. Io volevo solo giocare. Non so se voglio unirmi...»
«Pervertito che non sei altro!» sbraitò l'Alberti. «C'è qualcosa tra gli alberi e probabilmente è pericolosa!»

Mora stava per ribattere a quell'assurdità, ma una delle voci mistiche si fece risentire, atterrendo anche il pilota.
«Io direi di andarcene. Per una volta, dopotutto, possiamo aspettare che sia qualcun'altra a lasciare le notizie».
«E brava, Elpenore: guardali, poverini, così impauriti... È meglio tornare a cantare».
«Ogni volta è sempre la stessa storia! Adesso usciamo e poche storie».
«Ma, Elettra, non ci sono tutti».
«Sapete, non siete le uniche con qualcosa di meglio da fare».

Tre esseri grandi come una mano comparvero da un cespuglio di fronte ai quattro, librandosi in aria e avvicinandosi a loro. I naufraghi rimasero incantati e ammutoliti alla vista di un simile prodigio: erano minuscole, ma avevano fattezze di fanciulle di cui non si poteva dire che erano solo belle. Come nelle voci, mancavano di imperfezioni anche nell'aspetto. Ma ciò che era più straordinario erano i sottili fasci di luce che spuntavano dalle loro spalle e che si dimenavano veloci nell'aria.

«Che bestie sono?!» Il grido isterico dell'Alberti risuonò per tutto il bosco, interrompendo l'ammirazione estatica degli altri tre e riportandoli alla realtà. Improvvisamente una certa ansia, inibita dall'apparizione degli esserini, li assalì: cos'erano quelle cose ma, soprattutto, cosa volevano da loro?

Due di loro si avvicinarono - volando! - fino ad arrivare a un palmo di naso dalla giovane che aveva appena urlato. «Bestie è un po' eccessivo, non trovi?» commentò offesa una, la più bassa e di costituzione più minuta, facendo ondeggiare, parlando, i morbidi capelli scuri, intrecciati con dei rametti. I due grandi occhi dello stesso colore, incorniciati dall'incarnato caffelatte, la scrutavano attentamente, con un'espressione non di rabbia, ma impossibile da decifrare.

«Elpenore, come te la prendi... Lo sai anche tu che i mortali sono stupidelli» ridacchiò l'altra, birichina, andando ad appoggiarsi sulla spalla della giovane, senza smettere di lanciare occhiate agli altri tre dalle sue iridi ametista.

«Piccola insolente...» mormorò l'Alberti a denti stretti, non riuscendo a trattenere il fastidio per quelle cosettine, ma allo stesso tempo appena intimorita. Ma cosa andava dicendo?! Lei? Intimorita?! Semplicemente inaudito! Per convincersene allontanò da sé la creaturina con un colpetto: avrebbe di certo capito che con lei non doveva scherzare.

Ma questa volò via con un gridolino divertito, e anche la sua compagna scoppiò a ridere. L'Alberti guardò inquieta quella scena, stringendosi di più agli altri due uomini: tutto ciò che faceva o affermava sarebbe stato oggetto di riso per quegli esseri. Era davvero così insignificante ai loro occhi? No, lei non lo era, qualsiasi fosse l'opinione di quelle creature minuscole: lo confermavano l'anagrafe e qualsiasi documento, che lei apparteneva a uno dei rami nobiliari più importanti sulla scena italiana della sua epoca! Insignificanti, al massimo, erano loro!

Non fece in tempo a ribadirlo che altri due sopraggiunsero.
«Cosa succede? Stavate urlando...» disse Matsuda, ma subito persino lui rimase ammutolito. Anche la sua espressione beffarda e perennemente divertita era scomparsa; analoga situazione sul volto di Beatrice.

La creatura con i capelli e gli occhi rosa aprì la bocca, stupita, e prese per mano la compagna più piccola, iniziando a farla muovere in veloci piroette insieme a lei.
«Elpenore! Elpenore! Hai visto quello appena arrivato? Com'è bello!»

«Elvira! Elpenore! Finitela, per una volta» le fulminò il terzo esserino, che ancora non si era espresso, portando in volo la sua figura fino a raggiungere le altre. Le separò dalla loro presa e le sistemò a mezz'aria in un punto ben visibile ai giovani. «Ora sono arrivati tutti: potete iniziare» concluse, massaggiandosi le tempie sotto i capelli verde giada.

«Va bene, Elettra; come vuoi tu» mormorò quella dai capelli scuri, appena ricomposta ma senza che la sua espressione lieta fosse scomparsa. Si rivolse poi ai naufraghi, con un sorriso pieno di entusiasmo: «Ciao a tutti, mortali! Io sono Elpenore, la fata dei tronchi, e queste sono le mie sorelle, Elvira, la fata dei fiori, ed Elettra, la fata del muschio».

Fate?! A quelle parole i sei giovani iniziarono a lanciarsi occhiate più assidue. Stavano davvero parlando con... delle fate?! Mora fece un passo per andarsene, prima che la sua testa scoppiasse a forza di sentire tante assurdità, ma Crümenerl lo fermò con un braccio. Avevano appreso che erano delle fate, ma chi poteva sapere di cosa fossero capaci. Ma Elvira ed Elpenore esitavano a proseguire con il loro discorso, limitandosi a ridacchiare tra loro e ad annuire divertite, per osservare le espressioni di timore e inquietudine che diventavano più vistose sui volti dei giovani.

«Visto, Elpenore: anche loro la stessa reazione» borbottò Elvira, alzando gli occhi al cielo.
«Già, come se vedere una fata fosse qualcosa di così insolito» le fece eco l'altra, per poi proseguire: «Come molti altri mortali, siete giunti per vostra fortuna - o sfortuna - sull'isola, abbandonando il vostro mondo».

«Cosa...» provò a interromperla Beatrice, sbigottita, avendo da porre innumerevoli domande, ma alle quali le fate non avevano intenzione di rispondere. 
«No, no!» esclamò Elvira, ponendosi con le braccia incrociate di fronte alla giovane. «Prima finiamo noi. Dopo, se avremo voglia, risponderemo. E non dovete darci spiegazioni su di voi: sappiamo già tutto quello che serve».

I naufraghi si zittirono di nuovo ed Elpenore, tutta compiaciuta, proseguì: «Per prima cosa, i vostri nomi sono lunghi e noiosi»
«Non è vero!» sbottò Maria Emanuela Adele Alberti, mentre Elvira si appoggiava alla sorella per non cadere a terra dalle risate.
Elpenore invece provò a ignorarla e proseguì, tranquillamente: «Quindi le maghe hanno deciso di darvene di nuovi».

Prima che i giovani potessero anche solo realizzare le ultime parole delle fatine, queste svolazzarono sulla testa di Crümenerl, che provò invano a scacciarle.
«Il vostro clan si chiamerà Tou Melitos. Poi, tu,» disse Elvira, picchiettando un piedino sulla testa bionda del tedesco, «sarai Germanico; tu e tu,» continuò rivolgendosi balzando prima su Nocenti e poi su Mora, «sarete Spiro e Morag. Voi due,» indicò l'Alberti e Beatrice, «Em e Bellatrix. Infine, tu,» concluse, puntando un dito contro Matsuda e strizzandogli un occhio, «sarai Mijime».

Avevano appena... cambiato i loro nomi. Ma perché? Con che logica, con che criterio?

«No! Non è vero!» esclamò Matsuda, prima di tutti gli altri, in preda a un'ira che nessuno si sarebbe aspettato da lui, che si era sempre mostrato calmo e morigerato. «No, no, no! Non potete cambiare i nostri nomi! È un'idiozia! Tutto quello che è capitato è un'idiozia! Dall'essere capitati su quest'isola, dal vedere delle mangrovie su una spiaggia, dal sentire un vento gelido in piena estate, fino al trovarsi davanti tre fate che vogliono cambiarci i nomi. Il mio nome non sarà mai quello... quello che avete appena detto. Io ho un nome e quello rimarrà: non potete cambiarlo!»

«Non ti arrabbiare, mortale bellissimo - anche se devo ammettere che sei ancora più carino quando le tue guance si colorano di rosso» ridacchiò Elvira, storzando la testa e osservando il giovane con aria sognante. «Non siamo state noi: non è che ci cambi molto. Sono state le maghe a scegliere i vostri nomi e quello del clan».

«Maghe?! Clan?!» ripeté Mora sempre più allibito, seguito dai mormori di dissenso di Beatrice e Crümenerl: ormai soltanto Nocenti se ne stava in silenzio, quasi si fosse creato nella sua testa un piccolo spazio idilliaco dove sfuggire ai tumulti esterni. Ma la scena era stata ormai monopolizzata dalle grida biliose dell'Alberti.

«Em?! Mi state prendendo in giro? Dovrei essere diventata una stupida interiezione?!» urlava furibonda la signorina. «Sapete, non mi importa se tre fate imbecilli mi cambiano il nome: io sono Maria Emanuela Adele...»
Ma improvvisamente si sollevò in aria, come in trance, mentre il suo corpo si muoveva convulsamente percorso da una scarica elettrica. Si agitava, incosciente, con gli occhi che sembravano uscirle dalle orbite, e le membra molli, come quelle di un corpo inanimato.

I dubbi e gli interrogativi erano scomparsi dalle menti degli altri cinque: la scena che si stava svolgendo davanti ai loro occhi era abbastanza spaventosa da interrompere il flusso della loro rabbia, per non finire nella stessa, miserabile condizione della loro compagna di sventure. L'aristocratica infine cadde a terra, priva di sensi. Gli occhi erano ancora aperti, in uno sguardo vacuo. Era morta?!

Elvira ed Elpenore ridevano sguaiatamente, impregnando la foresta della loro voce cristallina: ogni albero, ogni fiore, ogni filo d'erba, ogni singolo elemento sembrava stesse condividendo la loro risata. Persino dal corpo di colei che un tempo aveva potuto vantarsi di essere una nobile signorina aristocratica pareva rimbombare il cupo suono di scherno emesso dalle fate.

«Adesso, basta!» Elettra si animò a un tratto, lanciando un'occhiata truce alle sorelle, che subito si zittirono; si rivolse, poi, gelida, ai cinque giovani, con gli animi ancora sgomenti dall'accaduto: «Di quelli che eravate prima non deve rimanere nulla: per gli altri mortali siete morti esattamente come tutti quelli sulla nave; nessuno verrà mai a cercarvi e non potete andarvene da qui. Quindi perché tenere i vostri nomi? Chi eravate è scomparso per sempre e non tornerà mai più».

Si fermò un attimo, per poi puntare un dito contro l'Alberti che giaceva a terra: «La punizione si infliggerà contro coloro che trasgrediranno. La vostra compagna non è morta - sebbene non sarebbe stato un dispiacere per nessuno: a breve si riprenderà. La sua pena è stata solo parziale perché non ha fatto in tempo a pronunciare il suo nome completamente. Se lei o qualcun altro lo avesse fatto, il vostro gruppo ora sarebbe formato da solo cinque insulsi mortali».

Tutti rivolsero uno sguardo verso quella che era stata l'Alberti. Una sola parola in più e allora non sarebbe stata più tra loro; e lo stesso sarebbe accaduto con un altro dei loro precedenti nomi. Identificarsi con chi erano stati, dunque, non poteva che significare una cosa: morte. Un brivido li pervase.

«È proprio... impossibile cambiarli?» chiese infine il giapponese con un filo di voce, sommesso come non era mai stato. 

«L'abbiamo già detto» rispose annoiata Elpenore. «Questi nomi sono stati profetizzati dalle maghe: loro dicono che portano con sé un significato».

«Inoltre, le maghe ci hanno profetizzato altro su di voi» ridacchiò Elvira. «Ma con le urla che avete fatto prima ci avete spaventate e non vi meritate la nostra magnanimità: l'oracolo sicuramente non lo verrete a sapere da noi. E adesso, addio!» eseguì una piroetta in aria, facendo intanto una linguaccia al gruppo.

«Torna qui, idiota!» Elpenore la richiamò indietro. «Non abbiamo ancora detto la cosa più importante!» Continuò nuovamente rivolta ai cinque: «Su quest'isola c'è un tesoro, dal valore inestimabile».
«Da più di duemila anni lo cercano, ma nessuno lo ha mai trovato!» recitò Elvira, come se fosse una filastrocca.
«Potete decidere se andare alla sua ricerca».

«Un tesoro?» ripeté Beatrice, esternando l'interrogativo che accomunava tutti i cinque. «E perché mai dovremmo desiderarlo se da quest'isola non possiamo andarcene?»

«Ve lo assicuriamo: è qualcosa a cui non potreste non ambire». Elpenore si sollevò in aria e volò via, seguita dalle compagne, nel cuore della foresta da dov'era venuta.

~

I giovani si erano seduti ognuno sul proprio giaciglio, a fissare un punto casuale nel vuoto, che non incrociasse gli occhi ancora vuoti di quella che ora si chiamava Em. Le loro menti erano piene di preoccupazioni e osservare le misere condizioni in cui si trovava li avrebbe solo fatti sprofondare ancora di più in un baratro di disperazione.

Morag strofinava le mani una contro l'altra per tenerle impegnate e per provare a distrarsi. Aveva pensato che tutta quella situazione fosse solo momentanea, di vacanza, di riposo. E così avrebbe dovuto rimanere! Ancora pochi giorni e il suo staff avrebbe potuto venire a riprenderlo e riportarlo alla realtà. Ma la realtà non esisteva più. O meglio, una realtà esisteva, ma non era più quella che conosceva lui, dove era ambito, stimato da tutti. Lì cosa c'era, a parte una natura incontaminata che, nel profondo del suo animo, lo spaventava a morte, dal momento che avrebbe potuto riversarsi contro di loro in ogni momento? Lì non erano altro che dei mortali. E lui ancora meno di questo! Sapeva bene di non essere bravo in nulla, e di essere diventato qualcuno proprio per questa sua mediocrità. Non possedeva alcun talento e a causa della sua scarsa intelligenza si sarebbe messo nei guai.

Sospirò profondamente e si alzò, per provare a distrarsi ancora. Si diresse verso il corpo della giovane sventurata, contemplandolo malinconicamente. Nessuno di loro si era preoccupato di lei. Per quanto fosse insopportabile, non poteva restare così, nella posizione innaturale in cui era caduta e con gli occhi sbarrati, intrisi di terrore. Ma nessuno di loro, troppo impegnati a rimuginare individualmente sui loro problemi, ci aveva fatto caso. La prese in braccio e la trasportò fino al suo giaciglio, dove la sistemò nel modo più comodo possibile, chiudendole gli occhi e assicurandosi che il battito e il respiro fossero ancora stabili.

Tornò a sedersi, lanciando delle occhiate ai suoi compagni per vedere che facessero: Spiro era sdraiato supino con un'espressione tranquillizzata; probabilmente i pensieri dettati dalla gravità della situazione avevano lasciato la sua testa poco sagace. Bellatrix era appoggiata su un braccio e muoveva le dita incessantemente, e Mijime, seduto a gambe incrociate, con le braccia appoggiate sulle ginocchia, si sarebbe potuto dire che fosse in meditazione, se sul suo volto non ci fosse stata quell'ira furiosa.

E infine c'era Germanico, tra tutti il più insopportabile: si era rannicchiato per terra, racchiudendosi in posizione fetale, e continuava da un pezzo a piagnucolare per tranquillizzarsi, emettendo l'unico suono che si mischiava a quelli del bosco.
Morag non riuscì a trattenersi: «Dacci un taglio, Germanico» scandì, ricordando il nome che avevano precedentemente annunciato le fate. «Non sei l'unico che si sente morire di paura ma, almeno, fallo in silenzio».

«Ma io ho paura!» esclamò subito l'altro di rimando.
«Anche io, anche loro, ma ci stiamo forse piangendo addosso, lamentandoci inutilmente?!»

«Altrettanto inutilmente stai urlando tu». Il giapponese, pacato, cinico ed estremamente lucido, si ridestò dal suo silenzio. Si alzò in piedi e iniziò a camminare intorno al falò, gettando talvolta occhiate ai suoi compagni. «Come hanno detto le fate, siamo un clan. D'ora in avanti dovremo fare due cose: non farci troppe domande in merito a tutto quello che succede, per non dare di matto, e sopportarci, anche se è difficile. Senza alcuna offesa, siete uno peggio dell'altro: la praticità non è il vostro forte, non sapete passare sopra a delle idiozie e riuscite a lamentarvi per cose così stupide... Ma ora siamo legati e non possiamo fare a meno di accettarlo. Il nostro destino è trascorrere l'esistenza insieme, cercando di sopravvivere con i pochi mezzi presenti sull'isola. Orribile, lo so» affermò, interrompendosi, quasi volendo lasciare qualche secondo di riflessioni agli altri.

Morag lo guardava allibito, per il carattere che aveva appena mostrato, ben diverso da quello affabile di quando ancora non si sapeva che sarebbero rimasti lì per sempre. Ma dall'altra parte aveva pienamente ragione e non aveva fatto altro che fornire un ritratto disincantato della loro disastrosa situazione. Per quanto le sue parole lo avessero colpito, non avrebbe protestato ancora, e come lui nemmeno i suoi compagni.

«La cosa migliore sarebbe scappare,» riprese il giapponese, «cosa improbabile con le sole nostre forze: potremmo costruire una zattera o qualcosa di simile, ma non faremmo in tempo a lamentarci di nuovo che ci ritroveremo già sopraffatti dal mare. Tutto quello che possiamo fare è cercare il tesoro».

«Utile...» borbottò Bellatrix, ma subito ripresa dall'altro: «Non è il tesoro dei pirati che abbiamo nel nostro immaginario, di questo ne sono sicuro: è qualcosa che tutti desiderano e che in più di duemila anni nessuno ha mai trovato. Se le fate hanno detto il vero, altri uomini sono andati alla sua ricerca, naturalmente invano: forse anche loro erano capitati come naufraghi su quest'isola maledetta e il loro unico, più grande desiderio era tornare nel mondo reale. Dunque penso sia questo il tesoro: uno strumento che ci permetta di fuggire da qui».

«Potrebbe essere una trappola» considerò ancora la giovane spia, sul cui viso si leggeva un'acuta preoccupazione. «Se nessuno è mai riuscito in quest'impresa...»
«Lo so e forse nemmeno noi riusciremo a trovarlo. Ma non abbiamo nulla da perdere. Ognuno di noi adesso è disposto a rischiare tutto pur di poter tornare là. O sbaglio?» chiese infine, scrutando attentamente ognuno di loro.

La risposta veniva da sé: chi mai avrebbe voluto rimanere laggiù, con una compagnia sgradita, lontani dalle proprie sicurezze, dai propri piaceri, dai propri sogni? Quel luogo era distante da tutto ciò che avevano di caro, che consideravano importante, senza cui una vita sarebbe stata vuota: dunque, che importava se anche la mettevano a repentaglio? Pur di tornare alla realtà avrebbero fatto qualsiasi cosa.

«Bene» concluse il giovane al tacito assenso dei suoi compagni. «Aspettiamo che lei si riprenda e poi partiamo alla ricerca di questo tesoro».

«Ma-ma le fate non ci hanno detto niente!» esclamò Germanico, provando a contenere la disperazione che lo affliggeva. «Come facciamo, Mijime?»

Un'ombra d'ira passò repentinamente sul volto del giapponese al sentire il suo nuovo nome. Voltò le spalle ai suoi compagni, volgendosi di nuovo verso il lago, ma prima di andarsene affermò, rigido: «Se neanche partiamo, non lo troveremo mai».

~

Spazio autrici:
Ta taaaan! Ed ecco anche la revisione del 4 (scusateci se stiamo allungando tantissimo i capitoli, ma i pensieri e le sensazioni occupano uno spazio cospicuo 😶).
Detto questo: come vi sembrano, ora che li conosciamo sempre meglio, questi personaggi? Insopportabili? Be', l'intento è proprio questo.

X: "ma, panda e tartaruga, perchè lo fate? Così nessuno vorrà proseguire la storia perchè non si riesce a empatizzare con i personaggi!"

Certo, il rischio c'è, ma non possiamo farne a meno. Speriamo di incuriosirvi con quacos'altro 🥲🥲
E poi, esattamente come l'aver reso stereotipati alcuni di loro, serve alle conclusioni a cui vogliamo arrivare nel corso della storia. Tranquilli, però, non ci concentreremo solo su questo: aspettate e arriveranno anche elementi davvero interessanti (e non solo per i personaggi...)

Ma adesso siamo curiose: qual è il personaggio che riuscite a sopportare meglio (o che addirittura, anche se penso sia improbabile, vi piace)?

Bene, vi abbiamo preso anche troppo tempo, per cui noi ci congediamo e ci vediamo alla revisione del prossimo capitolo!
~🐼🐢

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