4. Il farabutto è fuori a pranzo

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L'eco delle risate andò lentamente a scemare, portato via da grida chiassose e allegre battute che stonavano con i volti di chi le pronunciava.

«Monco, lo vedi? Qualunque spaventapasseri ormai è disgustato da questo posto!» tuonò un omone con un tatuaggio sul collo.

Terno, probabilmente, avrebbe dovuto sentirsi offeso dal paragone con un fantoccio di paglia, ma era troppo concentrato sulle lame degli avventori, nella disperata speranza di riuscire ad anticipare un'aggressione.

Ma più che a lui, i bruti presenti in sala parevano interessati a canzonare l'oste, che chiamavano Monco nonostante all'apparenza avesse ogni arto al suo posto.

«Fra un po' neppure i maiali vorranno più entrarci!» aggiunse un altro tizio tatuato. A ben guardare, in effetti, tutti avevano almeno un tatuaggio.

L'oste accolse le provocazioni con sarcasmo: «Non mi spiego allora cosa ci fai ancora qui, Melfo!» Poi si rivolse alla coppia: «Signori, non date retta a questi avanzi di galera e accomodatevi, vi porto subito pane e birra fatti in casa.»

I due coniugi si scambiarono un'occhiata rassegnata e, cercando di farsi contagiare dal clima tutt'altro che minaccioso, ma soprattutto sforzandosi di non vedere le condizioni igieniche del luogo, andarono a sedersi.

Presto l'oste li raggiunse portando in tavola due bicchieri di liquido verdognolo e un cesto di pane grigiastro. «Non lasciatevi impressionare da questa marmaglia» ribadì sedendosi di fronte a loro. «È gente di confine. Anche se ormai siamo in pace da un pezzo, nel loro sangue continua a ribollire il fuoco dei loro vecchi, per questo sembrano sempre pronti alla rissa. Ma son buoni come il pane.»

«Non come il tuo!» gridò qualcuno dal tavolo a fianco.

Il Monco ignorò il commento: «Cosa posso portarvi?»

Terno cercò gli occhi di Leodina, che però era impegnata a valutare la consistenza del pane, all'apparenza pietrificato. «Il piatto del giorno» rispose quindi poco convinto.

«Ottima scelta» esultò l'ometto alzandosi.

«Pessima scelta» ribatté qualcuno.

«Perché, ce n'è una buona?» emerse un'altra voce, tra un eco di risa.

«Non vedo l'ora di vendere questo posto, così non vedrò più i vostri brutti musi» protestò stizzito l'oste.

«Weelbo, a noi basta che assumi un buon cuoco» lo apostrofò il giovane arciere al bancone.

«Io sono un ottimo cuoco» ribadì quello con fare altezzoso, sparendo poi in cucina.

Il coro di risate si alzò ancora di più, intervallato da consigli sempre più caustici: «Fuggite finché siete in tempo!», «Avete fatto testamento?», «Non bevete, non è per bocche di città!»

Terno fissò il liquido dentro i bicchieri opachi di graffi che aveva davanti, e trovò il coraggio di chiedere, senza rivolgersi a qualcuno in particolare: «Ma cos'è?»

«E chi lo sa?» rispose il più lesto, seguito da altre risate.

Terno ebbe in quell'istante un'epifania: quel luogo, quell'osteria frequentata da rozzi uomini del volgo, era la loro prova di iniziazione alla nuova vita che li attendeva. Non potevano proseguire senza affrontarla. Così prese il boccale a due mani e trangugiò d'un fiato il liquido verde.

Dopo un frammento di stupito silenzio, gli avventori iniziarono a fare il tifo per quel buffo uomo di città, e quando il fondo del bicchiere vuoto batté sul legno, un coro di trionfo riempì il locale.

Terno si sentì vivo come non mai, anche se lievemente nauseato.

Tutto il pranzo fu un susseguirsi di prove: il pane si riusciva a mangiarlo solo immergendolo nella birra, il tacchino dovevi evitare di guardarlo negli occhi, i fagioli li sgranavi caldi direttamente dal baccello. E per quanto tutto fosse presentato in modo assurdo e dal sapore decisamente poco attraente, Terno e Leodina finirono il pasto pieni del buonumore e della speranza dati dalla condivisione.

Se il mondo fuori dalla loro biblioteca era veramente come quella locanda, spaventoso all'apparenza ma ricco di umanità in sostanza, allora forse anche per loro ci sarebbe stato un nuovo posto da occupare.

«In bocca al lupo, ragazzi» li incoraggiò l'arciere quando, due ore dopo, si alzarono per riprendere il viaggio.

Terno strinse con calore la mano al giovane: «Grazie a te Nolan.» Poteva benissimo avere l'età del figlio che non avevano mai avuto.

«Vedrete che a Dienza trovate qualcosa. Io quando ci vado un lavoretto lo porto sempre a casa.»

«Grazie anche a te, Melfo, davvero» lo salutò mentre si dirigevano verso l'uscita.

Altre voci si aggiunsero a quelle, parole di uomini duri colpiti dalla loro storia di così ordinaria sventura. E i cuori dei due bibliotecari si cibarono di quelle voci come assetati a una fonte, e quando uscirono per raggiungere il carro, l'ombra che aveva avvolto le loro anime negli ultimi mesi pareva finalmente dissolta.

Ma bastarono pochi passi per cadere in un baratro di disperazione ancora più nero. Gambalunga era docilmente legato al suo giogo, ma il carro su cui avevano tutti i loro averi non c'era più.

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